La biblioteca digitale della letteratura italiana>>>Dal sito web www.letteraturaitaliana.net/

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giovedì 25 luglio 2013

Colloqui con una professoressa & TONINO E YATIMA

Colloqui con una professoressa


In Colloqui con una professoressa di Mirella Bocchini (edizioni Cantagalli) l’insegnante e autrice del libro racconta che aveva assegnato il tema «Che cosa desidero veramente di più nella vita per me e per gli altri»: «A questo punto accade una scena stranissima: passa un quarto d’ora, passa mezz’ora e nessuno dei presenti riesce a scrivere una riga, neppure una riga dell’indice o della scaletta, che già avevano imparato ad elaborare […]. Alcune ragazze e qualche ragazzo cominciano a rivolgersi disperati verso di me, dicendo che non gli veniva in mente niente, che non riuscivano a trovare niente, e alcuni iniziano a lamentarsi che il tema «è troppo difficile». […] Due o tre ragazze  […] di botto prorompono ad alta voce: «È vero!». «Mi sembra impossibile! Non sono capace di capire cosa desidero davvero, proprio per me!». «Ma noi allora cosa siamo? Come siamo ridotti?»».
In questo modo Pasolini in un articolo di giornale, che sarebbe stato poi raccolto in Scritti corsari, descrive il centralismo odierno del potere che mira a soffocare l’umano e ogni forma di desiderio autentico: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. […] Oggi […] l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana […]. Il Centro […] ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza». 
Come fare allora? Da dove ripartire? «Quid animo satis?», cioè «che cosa può bastare all’animo umano?». Come affrontare i problemi familiari dei ragazzi? Come costruire un clima di comunione in una classe? Come sviluppare un autentico gusto per il sapere e per l’attività scolastica? Da queste domande prende spunto l’interessante libro di Mirella Bocchini. «L’esperienza vissuta da professori e alunni dell’istituto professionale Pacinotti di Milano mostra un modo affascinante di vivere la scuola e lo studio». «Non possiamo dare per scontato il soggetto che vuole imparare». Nella scuola di oggi si assiste alla «pretesa delirante di una didattica standard fondata non sulla cura della persona nella sua reale situazione, ma su un’astrazione del concetto di allievo». Si guarda «il ragazzo senza tener conto della sua posizione umana di passività, disinteresse, demoralizzazione dell’io». Che cosa si deve fare? Bisogna ricostruire l’io e «farlo diventare consapevole di sé sotto due aspetti fondamentali: innanzi tutto nella capacità logica, cioè nella capacità di ragionare. In secondo luogo nella sua capacità affettiva, cioè nella curiosità amorosa verso la realtà, le cose e le persone». I ragazzi devono cioè sperimentare che sono capaci. Gli insegnanti devono valorizzare le capacità e la verità. Nella spiegazione «occorre rendere i contenuti il più possibile accessibili, senza rinunciare alla parola viva». Mirella Bocchini, che è stata allieva di don Giussani, ricorda che il suo maestro teneva «lezioni ricche e complesse con venti minuti di sintesi scritte». 
L’autrice, inoltre, suggerisce «concrete modalità didattiche che hanno contribuito a ricostruire l’umanità degli studenti, come, ad esempio, la valutazione o lo svolgimento del tema». Il voto va discusso di fronte a tutta la classe, nel senso che il docente deve chiarire a tutti i criteri con cui viene assegnato, quali sono i criteri di valutazioni e le richieste dell’insegnante. Il ragazzo, così, si sentirà sempre più protagonista, non subirà la valutazione, ma comprenderà il metodo, il percorso che deve fare. 
Il tema è, poi, un’ottima occasione per scoprire il proprio io, capire la propria posizione umana. È bello scrivere perché permette la scoperta dell’io, consente di «andare a fondo della propria posizione umana riguardo a sé, agli altri e alla realtà in tutti i suoi complessi fattori esistenziali, culturali, sociali». La parola scritta «è la rivelazione anzitutto a me stesso e poi agli altri di una verità su di me o sulla realtà […]. Devo scoprire un pezzettino grande o piccolo di verità, ma devo scoprirlo io». Il ragazzo scopre di avere tanti desideri, di avere tante idee, di avere un’interiorità a cui non aveva mai badato. «Al tempo stesso può avvenire la scoperta dolorosa ma liberante di avere in sé tanti elementi di non verità, di desideri falsi, di condizionamenti soffocanti, irragionevoli e feroci della cultura in cui tutti siamo immersi». Perché il tema sia una vera possibilità di crescita umana occorrono due requisiti: che l’insegnante sia un vero interlocutore (cioè prenda sul serio lo studente e il suo sforzo di cercare un pezzo di verità) e assegni temi che riguardino «un argomento di cui gli studenti conoscono bene tutto», esperienze, questioni della vita, problematiche su cui si è discusso in classe seriamente. Allora, in questo caso, l’attività di scrittura non è solo retorica, ma coincide con un percorso umano.
Mirella Bocchini passa, poi, ad affrontare l’affascinante avventura della nascita di un luogo all’interno della scuola, cioè un gruppo di persone, adulti e ragazzi, che si fa compagnia nella sfida della vita, dello studio, dei problemi, ma anche nella valorizzazione e apprezzamento della bellezza (dalla lettura di poesie all’ascolto della musica, dopo aver mangiato una pizza insieme). Rinviamo alla lettura del libro per conoscere questa storia viva e appassionante, assai lontana dal grigiore con cui spesso è dipinta la scuola dagli addetti ai lavori. Chesterton ci ricorda: «La vita è la più grande delle avventure, ma solo l’avventuriero lo scopre». Come è provocatoria questa frase in un panorama in cui l’abitudine principale è quella di lamentarsi, di vivere il lavoro e la scuola come carceri, luoghi tetri e pesanti da cui evadere o in cui stare solo se si guadagna adeguatamente o si può far carriera.
La più grande delle avventure non è il viaggio nella solitudine dell’Alaska come nel film «Into the wild», ma la vita che ora, in questo preciso istante, è data a me e a te da vivere. Come può accadere ciò? Perché la vita sia un’avventura, bisogna recuperare la dimensione della scoperta. Sì, scoperta di sé e scoperta dell’altro, scoperta di un cuore che accomuna me e il mio collega, anche quello che non mi sta poi così simpatico, il ragazzo che si presenta per il primo giorno di scuola delle superiori  come l’insegnante che sta per andare in pensione. In questa scoperta del cuore che accomuna me all’altro che incontro, quel cuore che ci rende creati «a immagine e somiglianza» di Dio, sta la possibilità di uno sguardo misericordioso che valorizza il punto luminoso dell’altro (anche in mezzo a tanti limiti), perché spia del mistero che l’altro ha dentro.
Fighera

mercoledì 24 luglio 2013

Se ti abbraccio non aver paura.

(Per certi viaggi non si parte mai quando si parte.Si parte prima.A volte molto prima.Sono bastate poche parole: "Suo figlio probabilmente è autistico".)

Fahrenheit


è il libro che sto leggendo.Regalo di compleanno.

Grazie Roby.
              GiuMa

Fondazione I Bambini delle Fate


FULVIO ERVAS


Se ti abbraccio non aver paura


Guarda il trailer del viaggio di Franco e Andrea

Il lupo e il suo gregge

DI AUTORI VARI

Dal blog di Costanza Miriano

WOLF IN SHEEPS CLOTHING
di Giovanni Guareschi
Don Camillo raccontò questa favoletta: «Un feroce lupo pieno di fame girava per la campagna e arrivò a un gran prato recinto da una altissima rete metallica. Dentro pascolavano tranquille le pecorelle. Il lupo girò tutt’attorno per vedere se qualche maglia si fosse allentata nella rete, ma non trovò buchi.
Scavò con le zampe per fare un buco nella terra e passar sotto la rete, ma ogni fatica fu vana. Tentò di saltare la siepe, ma non riusciva neppure ad arrivare a metà. Allora si presentò alla porta del recinto e gridò: “Pace! Siamo tutti creature di Dio e dobbiamo vivere secondo le sue leggi!”. Le pecorelle si appressarono e allora il lupo disse con voce ispirata: “Viva la legalità! Finisca il regno della violenza! Facciamo una tregua!”. “Bene!”, risposero le pecorelle. “Facciamo una tregua!”.
Il lupo si accucciò davanti alla porta del recinto e passava il tempo cantando. Ogni tanto si levava e andava a brucare l’erba ai piedi della rete metallica. “Uh! Guarda, guarda!”, si stupirono le pecore. “Mangia l’erba anche lui, come noi! Non ci avevano mai detto che i lupi mangiano l’erba!…”. “Io non sono un lupo!”, rispose il lupo. “Io sono una pecora come voi. Una pecora di un’altra razza”. Poi spiegò che le pecore di tutte le razze avrebbero dovuto fare causa comune. “Perché”, disse alla fine, “non fondiamo un Fronte Pecorale Democratico? Io ci sto volentieri e non pretendo nessun posto di comando. È ora che ci uniamo contro chi ci tosa, ci ruba il latte e ci manda al macello!”. “Parla bene!”, osservarono alcune pecore. “Bisogna fare causa comune!”. E aderirono al Fronte Pecorale Democratico e, un bel giorno, aprirono le porte.
Il lupo, diventato capo del piccolo gregge, cominciò, in nome dell’Idea, la epurazione di tutte le pecore antidemocratiche e le prime furono quelle che gli avevano aperto la porta. Alla fine l’opera di epurazione terminò, e quando non rimase più neppure una pecora il lupo esclamò trionfante: “Ecco finalmente il popolo tutto unito e concorde! Andiamo a democratizzare un altro gregge!”»
da “Don Camillo e il suo gregge”.

sabato 13 luglio 2013

Il concilio Vaticano II e il nostro tempo RAI La Grande Storia Il papa buono Giovanni XXIII°

A 50 anni dal Concilio Vaticano II - panorama.it/

In una mattina di pioggia 2.500 cardinali varcarono il portone di San Pietro. Per un evento che avrebbe cambiato il volto della Chiesa

  • 1.A 50 anni dal Concilio Vaticano II
(Ansa)


Enzo Bianchi Il concilio Vaticano II e il nostro tempo


In occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, il 20 luglio 2012 raccontiamo "Il papa buono" di Luigi Bizzarri. 


Angelo Giuseppe Roncalli, è stato eletto il 28 ottobre del 1958. Sarà papa soltanto per 4 anni, 7 mesi e 6 giorni. Doveva essere un anziano "papa di transizione". In realtà ha operato la transizione della Chiesa nell'avvenire, ha lasciato un ricordo indelebile ed ha scavato un solco insormontabile tra un 'prima' e un 'dopo' nella storia della Chiesa del nostro tempo.
Il film-documento "Il papa buono" ripercorre tutte le tappe della lunga storia di Angelo Giuseppe Roncalli, figlio di contadini bergamaschi, per capire chi fu veramente il 262 successore di Pietro, per capire cosa ci sia, in realtà, dietro quell'etichetta di 'papa buono': un'etichetta che rischia di essere riduttiva fuorviante, rischia di evidenziare solo la melassa dei sentimenti, le immagini rassicuranti e non gli spigoli, i tagli, le incisioni profonde da lui operate nel corpo della Chiesa.
Non si capisce in realtà Giovanni XXIII se non si considera che in lui ci fu bontà, non sprovvedutezza, semplicità non semplicismo, disponibilità non credulità, coraggio non temerarietà, speranza non illusione.
Ai prelati della curia aveva detto: "La chiesa non è un museo da custodire, ma un giardino da coltivare". Ai diplomatici della Santa Sede aveva suggerito: "Scuotete la polvere imperiale accumulata sul trono di Pietro da Costantino in poi". Ai custodi della fede aveva ricordato: "la Chiesa deve usare la medicina della misericordia, non la severità della condanna".
Fu un antesignano dell'ecumenismo; diceva ai cristiani di tutte le fedi, d'Oriente e d'Occidente: "Cerchiamo sempre ciò che ci unisce, non ciò che ci divide".
Fu difensore del popolo ebraico perseguitato e si adoperò per mettere in salvo gli ebrei in fuga che transitavano dalla Turchia diretti in Palestina; a loro scrisse: "Sento costantemente le vostre voci".
Primo fra i Pontefici di Roma iniziò la politica del disgelo nei confronti del nemico di sempre: l'Unione Sovietica; disse "È giunto il momento di distinguere l'errore dall'errante".
Stupì e rinnovò la Chiesa intera con l'indizione del Concilio Vaticano II: 2778 i partecipanti: 7 patriarchi, 80 cardinali, 1619 arcivescovi e vescovi, 975 Superiori Generali, 400 teologi.
Memorabile il suo discorso d'apertura "Gaudet Mater Ecclesia" in cui preannuncia l'avvento di una nuova Chiesa, che sappia parlare al mondo moderno, che non pronunci condanne ed anatemi, che s'incontri con i fratelli separati.
E poi la visita ai piccoli malati del "Bambin Gesù", la visita ai carcerati di Regina Coeli, le sue visite nelle parrocchie dei quartieri più desolati e poveri di Roma, il viaggio ad Assisi e a Loreto. Infine la malattia lunga, lenta, dolorosa e poi la fine, il giorno dopo la domenica di Pentecoste: il 3 giugno 1963.
Straordinarie ed esclusive le testimonianze dell' assistente di camera Gusso, del segretario mons. Capovilla, dell'esponente della comunità ebraica Saban, dell'operatore televisivo Lazzaretti che documentò quei gesti e quelle parole ancora scritte nel cuore di tanti.

Tutti i diritti appartengono alla RAI e ai rispettivi detentori.




Una vita da raccontare: preghiera e vita quotidiana


Sono disponibili le relazioni e le registrazioni dei vari interventi al recente Seminario di studio svoltosi a Pra d Mill, presso il monastero “Dominus tecum”, dal 5 al 7 luglio sul tema “Una vita da raccontare: preghiera, preghiere e vita quotidiana”.
  1. Relazione introduttiva di Cristiana Santambrogio “Detti, paradossi e storie per pregare”: documento pdf: Detti, paradossi e storie per pregare – Santambrogio e file mp3 01_Relazione Santambrogio
  2. Riflessione  di fratel Bruno “Dalla preghiera al mondo, dal mondo alla preghiera ”: documento pdf: Dalla preghiera al mondo – Fratel Bruno e file mp3 02_Relazione fratel Bruno
  3. Relazione del prof. Duilio Albarello “Una vita da raccontare, un racconto da ascoltare”: schema della relazione Preghiera e racconto – schema Albarello; file mp3 1ª parte 03_Relazione Albarello_1 e 2ª parte 03_Relazione Albarello_2
  4. Lectio conclusiva della prof.ssa Stella Morra su Rom 12: file mp3 04_Lectio Stella Morra

Perché l'amore fa soffrire? ...L'inferno dell'Uguale


Pubblicato da  Le parole e le cose 


di Eva Illouz

[Pubblichiamo un estratto del saggio Perché l’amore fa soffrire di Eva Illouz, uscito in questi giorni per Il Mulino. Queste pagine, tagliate per esigenze redazionali, sono tratte dal terzo capitolo, La richiesta di riconoscimento: l’amore e la vulnerabilità del Sé. Nei mesi scorsi abbiamo pubblicato una videointervista all’autrice e unarecensione di Barbara Carnevali al libro]


Il passaggio dal corteggiamento premoderno a quello moderno è il passaggio da rituali e significati pubblicamente condivisi a interazioni private in cui l’altro viene valutato secondo criteri molteplici e transitori: l’attrazione fisica, la chimica emotiva, la compatibilità dei gusti e l’assetto psicologico. La classe sociale, il rango, il «carattere» appartengono a un mondo in cui i criteri per stabilire il valore erano noti e pubblicamente espressi; oggi invece il valore sociale deve essere negoziato nell’ambito dei gusti individuali. Per esempio, la seduttività e la desiderabilità, sebbene seguano canoni pubblici di bellezza, sono soggette a una dinamica del gusto individualizzata e pertanto relativamente imprevedibile. La desiderabilità, assunta come criterio primario di scelta del partner, complica la dinamica del riconoscimento, crea incertezza, implica che l’uomo e la donna abbiano scarsa capacità di prevedere se verranno giudicati attraenti da un potenziale partner o riusciranno a mantenere vivo il suo desiderio. In uno studio sui single timidi gli psicologi Jacobson e Gordon descrivono un’esperienza che di fatto è sociologica:

Nella mia esperienza di psicologo a New York affrontare un appuntamento è il denominatore comune che innesca la timidezza nei single di qualsiasi età, siano essi donne o uomini. Nella loro ricerca di qualcuno con cui condividere la vita, molti dei miei pazienti mi riferiscono di essere colti da sentimenti di paura del rifiuto e inadeguatezza talmente forti da trovare qualsiasi scusa per non uscire di casa. [...] Circa dieci anni fa cominciai a notare che erano sempre più numerosi i pazienti che affermavano di sentirsi socialmente incompetenti, invisibili agli altri e spaventati – soprattutto se dovevano affrontare un appuntamento o un contesto sociale.

Il senso di invisibilità riferito da questi pazienti o, per usare un termine più comune, la loro «paura del rifiuto» è pertanto soprattutto la paura di ciò che Honneth definisce «invisibilità sociale», una condizione in cui l’individuo viene fatto sentire socialmente indegno. Può avere origine da forme di umiliazione sottili, non apertamente espresse: la mimica facciale, in particolare l’espressione degli occhi, del volto, e il sorriso costituiscono il meccanismo elementare di visibilità sociale e una forma altrettanto elementare di riconoscimento. È questa invisibilità a minacciare il Sé nelle relazioni sentimentali, proprio perché i segni di conferma veicolano la promessa di conferire piena esistenza sociale.

Questa forma di autocritica è molto diversa dalle strategie di autosvalutazione ottocentesche di cui si è discusso in precedenza: non consiste nella manifestazione del carattere; riflette piuttosto quella che potremmo definire «incertezza concettuale di sé», o incertezza dell’immagine che si ha di sé e dei criteri per determinarla. L’incertezza concettuale si pone all’estremo opposto dell’autosvalutazione. Quest’ultima innanzitutto non veniva tenuta nascosta, ma dichiarata apertamente; non minacciava l’ideale del Sé ma piuttosto lo rappresentava, richiedeva la rassicurazione rituale dell’altro, creava un legame, presupponeva il riferimento implicito a ideali morali noti a entrambe le parti. In una lettera al fratello Theo, Van Gogh descrive come il suo amore venne rifiutato dalla cugina Kee.

La vita mi è diventata molto cara e sono felice di amare. La mia vita e il suo amore sono una cosa sola. «Ma ti trovi di fronte a un chiaro rifiuto!» obietterai. Rispondo: «Vecchio mio, per il momento considero quel rifiuto come un blocco di ghiaccio che mi stringo al cuore, sperando di riuscire a scioglierlo.

Per Van Gogh essere rifiutati non rappresentava una minaccia al proprio status o al proprio valore, ma un’ulteriore opportunità che si offre all’uomo di dare prova della sua capacità di sciogliere il gelo del rifiuto. Lo si confronti con la testimonianza resa da una quarantenne omosessuale che si è da poco impegnata in una nuova relazione:

Abbiamo trascorso un fine settimana fantastico: ho incontrato la sua famiglia e i suoi amici, e anche il sesso tra noi è stato stupendo… e dopo quel fine settimana lei mi dice che forse sarebbe stato meglio vederci solo per due ore stasera, o forse meglio aspettare domani. Mi sono sentita così arrabbiata con lei. Furiosa. E ora, mentre ne parlo, mi sento sopraffatta dall’ansia. Mi sento paralizzata. Come ha potuto farmi questo?

Questa donna è divorata dall’ansia perché la richiesta della sua innamorata di incontrarla «solo» per due ore si riduce a un sentimento di «annichilimento sociale». Nelle sue memorie autobiografiche Catherine Townsend, editorialista di una rubrica sul sesso dell’«Independent», racconta la rottura della relazione con il suo compagno, circostanza che le ha procurato una sofferenza tale da indurla a frequentare un incontro dei Sex and Love Addicts Anonymous dove si presenta così:

Mi chiamo Catherine e sono dipendente dall’amore [...]. Fino ad oggi non riuscivo a immaginare perché non riuscissi a gestire con successo la mia ultima relazione. Penso fosse perché volevo essere abbastanza in gamba da essere quella «giusta» per lui. Credo che in- consciamente volessi dare prova di valere tanto da indurre qualcuno a sposarmi. Quindi facevo di tutto per tenermi il mio ex a tutti i costi.

Chiaramente la sofferenza di Catherine coinvolge il senso del proprio valore, che può essere determinato o annientato dall’amore. In un blog su internet una donna racconta che quando si è separata dal compagno il suo «cuore era a pezzi» e «gli ci sono voluti mesi (se non anni) per riprendersi». Gli amici l’hanno aiutata a superare il dispiacere dicendole che «era splendida, facendole mangiare tanta cioccolata e guardando [insieme a lei] una serie infinita di film scadenti». La reazione di questi amici riflette l’idea diffusa che la fine di un amore minacci il senso del valore di una persona e le fondamenta della sua sicurezza ontologica. Questi risultati sono confermati da una ricerca condotta da due sociologi citata nella rubrica del «New York Times»Modern Love: «Ciò che conta per le donne è avere una relazione, seppur disastrosa. “È un po’ patetico”, riconosce Ms Simon (la ricercatrice). “Nonostante il grande cambiamento sociale occorso in questo settore, il senso che le donne hanno del proprio valore è ancora fortemente legato al fatto di avere un uomo. Ciò è deplorevole”».

Se il valore che le donne conferiscono a se stesse è ancora legato alla necessità di avere un uomo al proprio fianco, non significa che esse non si siano liberate da un retaggio del passato, ma che hanno sviluppato una dipendenza moderna dall’amore per riuscire a definire il senso del proprio valore. I manuali di consigli per affrontare incontri, sesso e amore sono diventati incredibilmente redditizi proprio perché la posta in gioco dell’amore, degli appuntamenti e del sesso è diventata molto alta.

[Immagine: Daphne Van Den Heuvel, Illustrazione (gm) - http://daphnevandenheuvel.nl/].

L'inferno dell'Uguale di M.Indrovigne

Ophelia - John Everett Millais


Byung-Chul Han, coreano, insegna a Karlsruhe e Berlino ed è uno dei più influenti filosofi contemporanei. È anche un personaggio singolare: concede pochissime interviste e mantiene una notevole riservatezza sulla sua vita personale, tenendo segreta perfino la sua data di nascita. Sappiamo così che è laureato in teologia cattolica e che ha scritto un libro sulla filosofia del buddhismo zen, ma non sappiamo quale sia la sua religione, e se ne abbia una. I temi di cui si occupa interessano però certamente i cattolici.



La casa editrice Nottetempo di Roma - che aveva tradotto nel 2012 la sua opera più nota, «La società della stanchezza» - propone ora una versione italiana di «Eros in agonia», un piccolo libro dedicato alla crisi contemporanea dell'amore. Han parte dal bestseller sociologico «Perché l'amore fa soffrire» di Eva Illouz, anch'esso arrivato quest'anno in Italia e di cui ho proposto il 2 giugno una recensione. Il filosofo discute una tesi centrale della Illouz, secondo cui la possibilità quasi infinita di scelta tra partner diversi creata dall'erosione della morale dopo il Sessantotto e dall'opportunità di diventare «amici» di centinaia di persone dell'altro sesso su Internet non ha generato liberazione ma piuttosto l'angoscia di non aver compiuto la scelta «perfetta», specie tra le donne. Per Han, che è un filosofo, la sociologia non arriva a vedere che il problema è più radicale: «alla crisi dell'amore non conduce soltanto l'eccessiva offerta di altri, ma l'erosione dell'Altro», «il fatto che l'Altro scompaia». 

Non so se - per quanto abbia studiato la teologia cattolica - Han presti qualche attenzione a Papa Francesco, ma colpisce il nome uguale che il filosofo e il Pontefice danno alla malattia più grave dei nostri giorni: «autoreferenzialità». Anche per Han «la società diventa sempre più narcisistica», e siamo talmente impegnati a parlare a noi stessi da avere perso la capacità di stabilire una vera relazione con gli altri. Si può dire però che il filosofo coreano descriva il dramma del l'autoreferenzialità in termini ancora più radicali del Papa. 

Per Han viviamo ormai nell'«inferno dell'Uguale», dove è venuta addirittura meno la capacità di vedere l'altro come altro: l'uomo moderno guarda «solo ciò in cui può riconoscere, in qualche modo, sé stesso».

Alla società del dovere è subentrata la società del potere. Possiamo fare tutto quello che ci passa per la testa, il che dovrebbe obbligatoriamente soddisfarci. Se non siamo soddisfatti, dev'essere in qualche modo colpa nostra: probabilmente, non siamo abbastanza «in forma». L'aveva già visto Friedrich Nietzsche (1844-1900): la religione sarebbe stata sostituita da un culto parossistico della salute. Obbligatoriamente, anche Han dedica qualche pagina al libro più venduto del secolo XXI, «Cinquanta sfumature di grigio», dove una studentessa sottoscrive un contratto con il suo amante dove, in cambio della fedeltà, si obbliga a partecipare a ogni genere di esperimento sessuale. Ma non solo: la poveretta firma pure l'impegno a fare «sport a sufficienza» e a non mangiare nulla, se non frutta, fuori dei pasti. Le vie dell'assoluta libertà sessuale, commenta Han, oggi portano sempre in palestra o dal dietologo.

Non solo: all'amore come esperienza sacra, e al carattere sacro della stessa sessualità, subentra la «profanazione» di queste cose sacre nella pornografia. Han polemizza con quanti ritengono la profanazione salutare, liberatoria e comunque inevitabile in tempi di secolarizzazione. In realtà, tolto alla sessualità il suo carattere sacro, non rimane una sessualità liberata: non rimane nulla, se non il puro consumo che è insieme sfruttamento degli altri e «autosfruttamento» di se stessi.

Per quanto Han critichi alcune tesi di Eva Illouz, alla fine c'è una convergenza di fondo: la presunta liberazione dei sentimenti e della sessualità postmoderna ha ucciso sia l'amore sia il desiderio. «Eros è in agonia». Con conseguenze che vanno molto al di là della sfera, pure così importante, dei rapporti interpersonali. Con il venire meno dell'esperienza dell'altro come altro - che era, appunto, la base dell'amore - e il chiudersi della gabbia autoreferenziale entrano in crisi anche l'arte, ridotta a puro narcisismo, la politica - che senza un apprezzamento dell'altro degenera in semplice potere - e la cultura. Han cita un articolo Chris Anderson, il redattore capo dell'autorevole rivista d'informatica «Wired», intitolato «La fine della teoria». Secondo Anderson siamo finalmente arrivati al punto in cui non abbiamo più bisogno di teorie, cioè di interpretazione e spiegazione dei dati. La psicologia, la sociologia e la filosofia potrebbero andare in pensione. Google ci abitua infatti inesorabilmente ad «allineare» semplicemente i dati, senza cerca cause e spiegazioni: «la correlazione sostituisce la causalità» e, se la causalità non serve più, non servono più nemmeno le scienze umane. Neppure per spiegare la correlazione, perché questa deriva dalla macchina che gestisce le ricerche di Google, e non c'è più nulla da spiegare.

Ma Anderson, scrive Han, ha «un concetto di teoria debole e ridotto». La teoria non è mai solo un modello per rappresentare e unificare dati. La teoria ci dice «cosa deve essere e cosa no» e «fa apparire il mondo in tutt'altra luce» rispetto a quella che può offrire una lampada, o anche tutte le lampade del mondo. Questa teoria come qualche cosa di «completamente diverso» dalla semplice somma d'informazioni già Socrate e Platone insegnavano a ricercarla non solo tramite la ragione ma tramite l'amore. 

Han ci arriva partendo da una meditazione sconsolata sui guasti del postmoderno, ma il lettore de «La nuova Bussola quotidiana» dovrebbe notare l'analogia con lo schema dell'enciclica «Lumen fidei», che invita precisamente a non separare conoscenza tramite la ragione e conoscenza tramite l'amore, le due viene arrivare alla verità.
Han è più pessimista. Cita il discusso film di Lars von Trier «Melancholia», dove una giovane sfugge alla depressione solo accettando la tragica verità secondo cui la Terra sta per essere distrutta da una catastrofe cosmica. Nel film la protagonista entra in relazione con Ofelia e con la sua tragica morte per amore dipinta dal pittore preraffaellita John Everett Millais (1829-1896) nel celebre quadro che mostra Ofelia morente nell'acqua gelida. 

Il messaggio di Han è che solo di fronte alla morte si scopre finalmente l'importanza dell'Altro. Per il cristiano, questa verità la scopriamo di fronte al Crocefisso, di fronte al Cristo morto per amore di tutti che - come insegna Papa Francesco - è il solo capace di liberarci dal dramma dell'autoreferenzialità: se solo siamo capaci di fermarci a guardarlo.
Da LaNuovaBussola 

venerdì 12 luglio 2013

Il Vaticano paese ospite del Salone del libro 2014

Da KAIRO'S

Il tweet di Papa Francesco: 
"Signore, donaci la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo e in noi" 
(12 luglio 2013)


*

La Repubblica Torino 
La Città del Vaticano sarà il paese ospite dell'edizione 2014 del Salone del libro. Quella che per ora è ancora un'indiscrezione sarà ufficializzata in mattinata al museo Egizio durante un incontro che vedrà insieme il presidente della Regione Piemonte Roberto Cota - che in questi mesi riveste anche il ruolo di presidente del Salone - e il segretario di Stato vaticano, Bertone.

Si conclude così con successo il lungo lavoro di diplomazia avviato da mesi da Rolando Picchioni e Ernesto Ferrero, rispettivamente presidente e direttore della Fondazione del libro, con i vertici del Vaticano per condurre in porto un progetto da tempo inseguito.

La ventisettima edizione della kermesse libraria si terrà a Torino dall'8 al 12 maggio e gli organizzatori contano anche sul richiamo del Paese ospite per poter battere il nuovo record di visitatori fissato pochi mesi fa: quasi 330mila presenze.

 ''Che la prima volta della Città del Vaticano al Salone Internazionale del Libro coincida con il Pontificato di un Santo Padre di origini piemontesi - ha detto Cota - costituisce un evento doppiamente eccezionale e straordinario. Sono orgoglioso di poter vivere questo evento storico come presidente del Piemonte e sono sicuro che il territorio di origine della famiglia di Papa Francesco saprà come sempre essere all'altezza della situazione''.

Per il presidente del Salone, Rolando Picchioni, è ''un grande onore che il Vaticano abbia accolto il nostro desiderio di averlo al Salone quale Ospite d'onore. Sono grato alla Santa Sede, attraverso i cardinali Bertone e Ravasi, per aver accettato un'occasione che non ha precedenti e che permetterà a tutti noi di scoprire e conoscere da vicino la storia e la ricchezza culturale di uno Stato geograficamente piccolo, ma grande per importanza politica e prestigio spirituale''.

Speriamo di poter dare il nostro contributo al Salone di Torino. Anche nell'era del digitale il libro non scompare. E' importante per la nostra vita, la vita della fede e la cultura di un popolo'': cosi' il segretario di Stato Vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, ha spiegato ai giornalisti le ragioni per cui il Vaticano ha accolto l'invito ad essere il Paese d'onore dell'edizione 2014 del salone del
Libro di Torino.

In visita al Museo Egizio, Bertone dopo aver ammirato le sale dell'esposizione ha detto: ''Nella visita ho potuto ammirare magnifici papiri che ci ricordano come il libro e la scrittura
affondino in radici molto remote, collegando così il Salone del
Libro a una tradizione millenaria''.

''Ieri abbiamo celebrato la festa di San Benedetto, che
attraverso l'Ordine benedettino ha salvato i codici antichi
della letteratura greca e romana. E con pazienza e dedizione
certosina ha tramandato non solo i codici della tradizione
cristiana ma anche quelli di un'altra religione del libro come
l'Islam''.

La Santa Sede avrà un suo comitato dedicato alla partecipazione al Salone, presieduto dal cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura e don Giuseppe Costa, direttore della libreria editrice Vaticana.

*


Sito della JMJ 2013/Rio

Il sito ufficiale della JMJ/2013/Rio ha pubblicado in formato Pdf l'elenco di tutti i vescovi del mondo che, in diverse lingue, guideranno le Catechesi della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù 2013 a Rio de Janeiro dal 22 al 28 luglio, presieduta da Papa Francesco. (...)

venerdì 5 luglio 2013

enciclica LUMEN FIDEI Papa Francesco

LumenFidei
Prima Enciclica firmata da Papa Francesco

 

La luce della fede, un estratto dalla lettera enciclica LUMEN FIDEI

 
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UNA LUCE ILLUSORIA?
Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei.
Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro.
In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo «nuove vie, nell’incertezza del procedere autonomo». E aggiungeva: «A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.

UNA LUCE DA RISCOPRIRE
 
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vin-cere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro «io» isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una «favilla che si dilata in fiamma poi vivace e come stella in cielo in me scintilla». Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.


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La logica della fede e della realtà



Il rapporto con la creazione nell'enciclica di Papa Francesco. 
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(Samuel Fernández, Pontificia Università Cattolica del Cile) La nuova enciclica cerca di mostrare che la fede ha la capacità d’illuminare tutta l’esistenza, e non solo alcuni suoi aspetti (Lumen fidei, n. 4). Per questo, fin dall’inizio, nel presentare la fede di Abramo — in particolare al n. 11 — spiega il vincolo esistente tra fede e creazione.
Il documento ricorda che la Parola di Dio che chiama Abramo non risulta estranea al patriarca, che al contrario la riconosce come una voce inscritta da sempre nel suo cuore. Il Dio che esorta a credere è lo stesso Dio «che è origine di tutto e sostiene tutto». La fede può aspirare a essere una luce per tutta la realtà, poiché il Dio che invita alla fede ha a che vedere con tutta la realtà: nulla gli è estraneo. Colui che «chiama Abramo» è lo stesso che «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Romani, 4, 17); san Paolo mostra in tal modo l’unità esistente tra l’azione creatrice e l’azione salvifica di Dio. Persino nei testi più antichi del Nuovo Testamento si esprime la convinzione che tutte le cose provengono da Dio per mezzo del Signore Gesù (cfr. 1 Corinzi, 8, 6). La Parola che crea è la stessa Parola che invita a credere, perciò la fede e la realtà hanno una struttura comune su cui si fonda la loro reciproca armonia. Il Verbo fatto carne ha rilevanza universale perché «tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Giovanni , 1, 3). La Parola illumina così le radici dell’essere: «La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo» (n. 18).
Questa identità tra il Dio della fede e il Dio creatore di tutta la realtà implica una corrispondenza tra quella che potremmo chiamare la logica della fede e la logica della realtà. Se Dio non avesse nulla a che vedere con il mondo, come pensavano i manichei, o se il Salvatore fosse un Dio straniero, come pensava Marcione, allora il mondo non sarebbe comprensibile alla luce della fede e, a sua volta, la Parola della fede non sarebbe comprensibile per la società umana. Bisognerebbe scegliere tra Dio e la realtà creata. E la salvezza offerta da un Dio estraneo alla creazione consisterebbe semplicemente nel liberarsi di questo mondo. Ma il mondo è creazione di Dio e pertanto la salvezza non consiste nel rifiutare il mondo, bensì nel portarlo alla sua pienezza; poiché il mondo, sebbene ferito dal peccato e dall’ingiustizia, non smette di essere opera di Dio e, provenendo da Lui, soltanto in Lui trova la sua pienezza. Solo così «la fede si mostra universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia» (n. 48). Al contrario, una visione puramente negativa del mondo smette di essere cattolica.
Questo stretto rapporto con la creazione indica che la fede non è destinata a restare solo dentro il cuore dei cristiani, e neppure nell’ambito ristretto dei credenti: «La conoscenza della fede illumina non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione» (n. 28). La fede permette di capire il significato della storia e dell’esistenza umana. Non si può perciò ridurre a una questione meramente individuale, «non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva» (n. 22). Nasce da qui una delle idee su cui più insiste l’enciclica: la fede illumina le relazioni umane e perciò offre un orientamento per costruire la città comune, ovvero «fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio» (n. 51). In tal modo la fede è anche chiamata a illuminare la sfera pubblica e a collaborare al bene comune. Di fatto è a partire da un sguardo di fede che in occidente fu scoperta la radicale dignità di ogni persona, che non era così evidente per il mondo antico (cfr. n. 54). Quando i rapporti umani non sono illuminati dalla fede, sia gli altri sia la creazione possono trasformarsi in mercanzia.
Questo vincolo tra fede e creazione, su cui insiste l’enciclica (n. 11), ha importanti conseguenze per la missione della Chiesa, poiché mostra che la teologia dell’evangelizzazione va elaborata alla luce della teologia della creazione. Un’evangelizzazione che riconosce questo vincolo si alimenta di ferme convinzioni: che la parola della fede è la chiave per comprendere la realtà in quanto tale, che la parola della fede illumina le strutture più profonde e proprie dell’essere umano e che la parola della fede non rifiuta nulla di autenticamente umano, bensì è la chiave che permette di discernere la genuina identità dell’uomo. Lo stretto vincolo esistente tra fede e creazione implica che la Parola che chiama a credere non è estranea o esterna all’uomo; anzi, nella sua novità, essa porta l’uomo ad altezze insospettabili. Su questa base, si comprende che il Vangelo non restringe la vita umana, bensì la porta alla pienezza che le è propria. Detto in parole semplici, il Vangelo non è inumano e perciò la fede non è un ostacolo, bensì uno stimolo per la vita umana. Se nell’enciclica abbondano termini come «aprirsi», «uscire» lasciarsi «illuminare», «ampliare», andare «oltre», «dilatarsi», è perché è scritta con la convinzione che la Parola della fede illumina tutta la creazione, fa uscire l’uomo dalla sua chiusura e lo proietta oltre se stesso, affinché realizzi la sua vocazione più profonda.
L'Osservatore Romano