La biblioteca digitale della letteratura italiana>>>Dal sito web www.letteraturaitaliana.net/

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venerdì 31 ottobre 2014

La strada del Sole

        

The Sun - Outsider  

“È successo che abbiamo incontrato Dio”.

                       

 La strada del Sole


L’ultimo concerto prima di immergersi nel biblico silenzio del deserto del Negev: ritiro e oblio dopo quasi duecento notti rock. Una in fila all’altra, per portare in giro per il mondo il loro ultimo lavoroLuce. E Luce sarà ancora nella tetra e gotica notte delle zucche vuote di Halloween. La 
band The Sun ha infatti scelto la sera del 31 ottobre per sostituire alla domanda «dolcetto o scherzetto?» una diversa domanda di senso. «Suoneremo la sera prima di Ognissanti – racconta il cantante e leader del gruppo, Francesco Lorenzi – per lanciare un segnale provocatorio. Luce al posto del buio profondo in cui è sprofondata la festa di Tutti i Santi. Troppi giovani, e anche tanti adulti, ignorano il grande valore di questa ricorrenza. Che è religiosa in quanto profondamente umana. Noi ci saremo, con il nostro pubblico che cerca verità e senso». 
L’appuntamento sarà venerdì sera al palazzetto dello sport di Funo di Argelato, vicino a Bologna 
prenotazioni: 




Ci sarà il pubblico da sempre fedele ai The Sun e ci saranno i neofiti che da anni vanno via via infoltendo le fila dei fans di questa band che suonava punk rock (dieci anni fa venne premiata al Meeting delle etichette indipendenti come Migliore punk band italiana) e che oggi è considerata simbolo della cosiddetta christian music. 

«Halloween ha una simbologia che non ci piace – dice Lorenzi –. È negativa e tenebrosa. Ha preso piede in modo inquietante. Per i bambini è quasi un carnevale, ma per gli adolescenti e i 

giovani è diventata pericolosa. Noi vogliamo suonare in questa notte per onorare i santi. Il concerto porterà il messaggio che chi ci ha preceduto è il tramite tra Cielo e terra. Suoneremo per ringraziare i nostri nonni, i nostri genitori e chi non c’è più ma ha testimoniato con la vita una quotidiana santità, fatta di lavoro, di sacrifici e di onestà. Questa è verità, profonda e reale. Le nostre origini sono la nostra identità. E la dimenticanza, che da anni c’è per esempio per Ognissanti, è forse oggi l’origine del male di vivere di tante persone, giovani in testa». 
Anche i The Sun hanno avuto le loro tenebre, la loro Halloween, prima di trovare, dietro una curva a gomito, la strada per riprendere il cammino. Lo racconta bene Lorenzi nel suo libro La strada del Pubblicato da Rizzoli e presentato quest’anno al Salone del Libro di Torino, il volume, giunto alla quarta ristampa e in uscita in Spagna, Sudamerica, Repubblica Ceca e Croazia, racconta (con la 
prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi) la conversione della band sulla via di Damasco del rock. «Eravamo in un momento in cui tutto girava alla grande – racconta Francesco –. Allora ci chiamavamo ancora Sun Eats Hours, il nome originale del 1997, anno di nascita. Avevamo dai 23 ai 25 anni, i nostri concerti erano pieni ed eravamo sempre in tournée. Sognavamo di sfondare nel  
rock alternativo. Ma come spesso capita, nel pieno della carriera abbiamo incontrato il vuoto. Lì è cominciata la crisi. Realizzavamo i nostri sogni eppure ci stavamo incagliando. Perché? E poi l’ambiente della musica, con le sue tentazioni e devianze... Eravamo a un passo dallo E cosa è successo a Francesco, al chitarrista Gianluca Menegozzo, al bassista Matteo Reghelin e al batterista Riccardo Rossi, i quattro vicentini di Thiene diventati un fenomeno mondiale della 
«È successo che abbiamo incontrato Dio. Io, in particolare – racconta il leader e cantante –, mi sono accorto che, assorbito dal successo, mi ero dimenticato della fede di un tempo. Quella crisi mi ha portato a riscoprirla, a ritrovare la mia innata sensibilità spirituale. Ecco perché è importante trasmettere la fede ai bambini e ai giovani. Così, se anche un giorno si allontaneranno, potranno sempre sapere qual è la strada per tornare a casa, alle radici, ai sani princìpi delle origini. Io ce 
l’ho fatta, anche grazie alle poche parole, ma ai profondi sguardi, dei miei genitori. Insomma, grazie alla famiglia, alla sua unità». 
Sì, ma i compagni di rock di Francesco come l’hanno presa questa conversione? «Devo dire che 
non è stato facile portarli sulla mia strada. Dopo la mia riscoperta di Dio e della fede, loro mi vedevano più sereno e più felice, ma all’inizio facevano resistenza. Ha fatto tutto l’amicizia. Sono 
entrato nelle loro solitudini e personali dipendenze. C’è stata empatia e compassione. Ora ognuno di noi ha il proprio padre spirituale. E, soprattutto, da allora è cambiato anche lo stile: il nostro rock 
è diventato più solare e spirituale. Io ho poi cominciato a scrivere i testi in italiano. Non avevo più bisogno di nascondermi dietro a una lingua straniera come l’inglese. Potevo finalmente essere 
diretto perché sapevo cosa volevo dire, di cosa volevo parlare». 
Tra il 2008, anno della svolta (ben raccontata nella canzone Non ho paura), e il 2010 i ribattezzati The Sun realizzano una trentina di brani in cui prevale un’attenzione particolare al mondo giovanile.

 Di loro s’invaghisce il direttore artistico della Sony, Roberto Rossi, che decide di 

investire sulla band pubblicando il cd Spiriti del Sole che entra subito nella top ten degli album più venduti in digitale. Nell’estate 2010 la band si esibisce di fronte ad oltre duecentocinquantamila 
persone e il 1° marzo 2011 suona a Betlemme per chiedere l’abbattimento del muro che divide Quindi nuove tournée in mezza Europa e persino in Giappone, prima dell’album Luce in cui Francesco & C. affrontano temi impegnativi come la sessualità vissuta con amore, il coraggio, l’aldilà, la gratitudine, la famiglia, la fede e la ricerca della felicità. Ora li aspetta una settimana di ritiro spirituale nel deserto del Negev, in Israele. «È il posto giusto 
e necessario per meditare e ritrovare lo spirito per realizzare il nuovo album – rivela Lorenzi –. Ci andremo accompagnati da due sacerdoti che erano già stati con noi in Terra Santa. I pezzi ci sono già, dobbiamo solo chiuderci in sala d’incisione e registrarli. Il disco uscirà nel 2015. 
Assieme a un film-documentario che inizieremo a girare proprio nel Negev. Ripartire dal deserto ci renderà migliori. Abbiamo un patto con il nostro pubblico, che non vogliamo tradire». 


La strada del Sole

giovedì 30 ottobre 2014

Palla, Mente e Cuore: Trasforma una "giornata No" in una "giornata Sì"!


Capitano le giornate No. 

 Giornate in cui le cose non vanno come avevi previsto

 e non sei esattamente brillante come vorresti. Anzi: bassa ...


Queste sono alcune delle mie idee, tu che cosa sei solito fare?


da Giuliamomoli

La leggenda dei due Lupi

Un vecchio indiano Cherokee è seduto di fronte al tramonto con suo nipote quando all'improvviso il bambino rompe l'incanto di questa contemplazione e rivolge al nonno una domanda molto seria per la sua età.
" Nonno, perchè gli uomini combattono?"

Il vecchio, gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che stava perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma.
"Ogni uomo, prima o poi, è chiamato a farlo. Per ogni uomo c'è sempre una battaglia che aspetta di essere combattuta, da vincere o da perdere. Perchè lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi".
"Quali lupi, nonno?"
" Quelli che ogni uomo porta dentro di sè."
Il bambino non riusciva a capire. Attese che il nonno rompesse l'attimo di silenzio che aveva lasciato cadere fra loro, forse pre accendere la sua curiosità. Infine, il vecchio che aveva dentro di sè la saggezza del tempo riprese con il suo tono calmo.
"Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo e vive di odio, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, bugie, egoismo."
Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di capire quello che aveva appena detto.
" E l'altro? "
" L'altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità, compassione, umiltà e fede."
Il bambino rimase a pensare un istante a quello che il nonno gli aveva appena raccontato. Poi diede voce alla sua curiosità e al suo pensiero.
" E quale lupo vince?"
Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo e rispose con i suoi occhi puliti.
"Quello che nutri di più."

Leggenda Cherokee dei due lupi.wmv

Due lupi la leggenda CHEROKEE

Conversazioni su Dio e l’uomo

Al dialogo serve un POLILOGO



«Usare la parola 'verità' al singolare in un mondo polifonico e un po’ come pretendere di applaudire con una mano sola... Con una mano sola si possono dare pugni sul muso, ma non applaudire». Teorico della società liquida, Zygmunt Bauman, sociologo di fama mondiale, è sempre stato abbastanza alieno da riflessioni di carattere teologico. Ma alla veneranda età di 89 anni sa ancora sorprendere: in questi giorni Laterza manda in libreria il suo nuovo saggio Conversazioni su Dio e l’uomo  (pp. 176, euro 15), dialogo con il teologo polacco Stanislaw Obirek.





Seppur agnostico convinto, nel libro Bauman spende parole positive per alcune esperienze di fede, ad esempio quella di Solidarnosc. Riporta un suo articolo comparso sul settimanale cattolico di Cracovia, molto vicino a Giovanni Paolo II, Tygodnik Powszechny, riferito proprio al movimento sindacale di Lech Walesa. Nel rievocare quella pagina gloriosa della storia, Bauman denuncia: «La nostra società di consumatori totalmente individualizzata è una fabbrica non di solidarietà, ma di reciproche sospettosità e concorrenza. Un prodotto collaterale, ma estremamente comune, di tale fabbrica è il deprezzamento della solidarietà umana che affonda le sue radici nell’atrofizzarsi della cura del bene comune e della qualità della società in cui la vita dell’individuo si svolge». Insomma, per recuperare la metafora iniziale, con una mano si può anche abbracciare l’altro, aiutarlo a sollevarsi dalla povertà e farlo rientrare nel novero degli umani. 
Professor Bauman, nel suo nuovo libro lei indica diversi tipi di persone dogmatiche: quelle religiose, marxiste, i dogmatici della genetica, del consumismo, dell’informazione e del mercato. Quale il dogmatismo più pericoloso oggi? 
«Potremmo aggiungere altri esempi. I dogmatismi sono vari e diversificati, ma non saprei dire qual è il più pericoloso. Essi hanno in comune il peccato originale di tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi sull’inalienabile umanità di quanti ci vivono accanto, per quanto diversi possano essere. Tutte le varietà di dogmatismi, in fin dei conti, sono il rifiuto o la non capacità di comunicare e intraprendere un dialogo: sono queste due le arti cruciali per sopravvivere in questo mondo segnato dalla diversificazione crescente e da una diaspora che fa nascere una crescente interdipendenza». 
Cosa significa questa interdipendenza? 
«Significa che non possiamo più separarci dagli altri, siano essi stranieri, credenti in altre fede rispetto alla nostra oppure sostenitori di modi diversi di vivere; essi non sono lontani o sull’altra sponda rispetto a un confine controllato da qualche guardiano, ma si trovano in mezzo a noi, li incontriamo ogni giorno sul lavoro, nelle scuole frequentate dai nostri figli, nelle strade dove viviamo. La diversità umana ci è accanto, anche nei posti più vicini. Imparare e praticare l’arte del dialogo dovrebbe essere una delle scelte da inserire tra i compiti più urgenti con i quali dobbiamo confrontarci. L’alternativa al prenderci in carico gli uni gli altri è spararci a vicenda!». 
Lei, non credente agnostico, è spesso invitato in ambienti cattolici, ad esempio di recente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Un esempio di quel dialogo autentico che Francesco chiede, un confronto tra persone che la pensano in maniera nettamente diversa. Come ha reagito a questo invito di Francesco? 
«Un dialogo genuino e degno di questo nome non consiste nel parlare solo con persone con cui ci piace discutere, negando il diritto di intervenire e rifiutandoci di ascoltare. Il dialogo consiste nell’aprirci, senza nessuna preclusione o pregiudizio, al fatto della diversità umana che possiede molte facce; esso si esplica nel cercare di capire le ragioni che stanno dietro all’attaccamento di qualcuno a determinati argomenti; nell’accettare di agire non subito come un maestro ma come un alunno; nell’assumere dall’inizio un atteggiamento cooperativo e non combattivo, cercando di raggiungere alcuni benefici reciproci in saggezza ed esperienza invece di dividere i partecipanti tra vincitori o sconfitti. Jorge Mario Bergoglio, anche prima di diventare papa, è stato per noi un luminoso esempio dell’arte di un siffatto dialogo genuino. Egli parla e ha parlato con l’intenzione di una comprensione reciproca e della condivisione della conoscenza dell’altro, e non per la volontà di far valere la propria pre-designata e indiscutibile superiorità». 
«Perché ci sia vero dialogo, dobbiamo mettere in conto la sconfitta», ha ammesso lei stesso. Nella sua carriera ha vissuto una 'sconfitta' del suo pensiero? 
«Questo è ciò che deriva da quanto dicevo prima: il dialogo è destinato a diventare una serie di monologhi - un esercizio che significa parlare accanto a qualcuno invece che con qualcuno - fino a quando non ci ricordiamo che errare humanum est. E quindi esser pronti a mettersi in discussione perché ci vengono posti di fronte delle posizioni migliori delle nostre. Io devo essere preparato a confessare la mia sconfitta, ad ammettere che mi sbagliavo e a ringraziare quanti mi hanno portato fuori dall’errore. Questo consiste in qualcosa di difficile: la maggior parte delle persone preferisce essere nel giusto piuttosto che nell’errore. Esser trovati in errore ci fa percepire un soffio doloroso sulla nostra autostima. Ma non si apprende in toto l’arte del dialogo se non vengono praticate le sue condizioni più difficili. Guardando in maniera retrospettiva alla mia storia, posso dire che l’ammissione di alcuni miei errori di giudizio, e la loro sincera ammissione, sono arrivati troppo tardi rispetto a quello che avrei voluto, sebbene speravo che nel corso della mia lunga vita la distanza di tempo tra l’aver commesso un errore e la sua ammissione si potesse ridurre». 
Nel suo dialogo con Stanislaw Obirek, lei suggerisce un nuovo modo di dialogare, ovvero attuare il “polilogo” tra posizioni diverse. 
«È l’estensione ovvia di monologo e di dialogo, ovvero di un confronto che sia più largo di due soli punti di vista: si tratta di un evento che avviene spessissimo in ogni città moderna o nelle strade sotto casa nostra. In realtà ogni discussione pubblica è per definizione un “polilogo”. Il mondo in cui noi viviamo è tutt’altro che digitale. Potremmo dire che è un mondo analogico, con molte divisioni che si incrociano, alcune semplicemente giustapposte, altre che si sovrappongono o che emergono in maniera leggera. Un vero dibattito pubblico ha bisogno di prendere in considerazione il fatto di aiutare a cristallizzare i punti di contesa e instaurare le potenziali teste di ponte fra la varietà di punti di punti di vista e di opinioni». 
«La verità è un incontro». Papa Francesco ha ricordato più volte questa sua definizione. Lei concorda? 
«Sì. Le verità, così come ogni conoscenza e tipo di comprensione, sono sempre e nient’altro che discorsive; gli incontri umani sono il loro luogo di nascita e il loro habitat naturale. Essi sorgono e vivono, nel corso della loro durata ed esistenza, all’interno della comunicazione interumana. Noi umani siamo per nostra natura sociali, interagiamo, comunichiamo con altri esseri umani; nessuno può reclamare una verità come sua propria creazione o proprietà. Essa viene formata e si sostiene attraverso continui negoziati, tramite la solidarietà e l’interazione propria degli umani. La verità non ha altro posto in cui abitare. Se dimentichiamo questo fatto, avviene quello per cui ammoniva Martin Buber, ovvero l’incontro si trasforma in un incontro mancato, inefficace e alla fin fine privo di scopo».

mercoledì 29 ottobre 2014

"La conversione del cristiano e della chiesa"

di Christian Albini 

La conversione del cristiano e della chiesa

Il cristiano deve convertire gli altri, oppure se stesso? E' in rete il mio nuovo e-book, "La conversione del cristiano e della chiesa", di cui riporto l'introduzione.
L’identità è sapere chi sono io e che cosa mi distingue dagli altri. Lo ripeteva sempre Alberto Melucci, uno dei massimi sociologi italiani, di cui sono stato allievo negli anni dell’università, autore di studi sull’identità tradotti in tutto il mondo.
Quando è incerta o quando si misura con l’altro, l’identità diviene domanda, interrogativo su di sé e sulle proprie origini. Nella Bibbia accade a Mosè, cresciuto in tutto e per tutto come un nobile egiziano. Arrivato all’età di quarant’anni, la scoperta dell’oppressione subita dal suo popolo diventa occasione di svolta e di ripensamento di tutta la sua vita (cfr. Es 2,11; At 7,23). La sua gente non viveva come lui, ma come minoranza oppressa. Questa presa di coscienza lo ha portato a interrogarsi su ciò che era veramente importante, sul suo posto nel mondo.
Oggi ci si chiede a ragion veduta chi è il cristiano. Nella nostra epoca, questa domanda si apre simbolicamente con il libro di Hans Urs von Balthasar, che la adotta come titolo, pubblicato nel 1965, a pochi anni dalla chiusura del concilio Vaticano II. Rispetto a quando la società era interamente cristiana, il mondo era cambiato e anche la chiesa cattolica stava cambiando.
Essere cristiani in questo tempo significa sempre di più convivere con altri, che non si riconoscono nella stessa fede religiosa o non ne professano alcuna. Di qui l’interrogativo sull’identità che è anche interrogativo sulla chiesa. Per rispondere, più che costruire delle immagini ideali e in ultima analisi astratte, vale la pena di soffermarsi su alcuni tratti propri dell’esperienza cristiana emergenti dalla parola biblica, che io riassumerei con la categoria del dinamismo.
La vita del cristiano e della chiesa è sempre movimento, cammino, così come Gesù è l’uomo che cammina e non ha dove posare il capo (cfr. Mt 18,20).
«Uomo, dove sei?», domanda Dio ad Adamo (Gn 3,29), cioè a noi. In altre parole: a che punto sei? Dove stai andando? È una domanda universale, per tutti e in tutti i tempi A questa domanda segue idealmente la chiamata di Abramo a uscire dalla propria terra. E l’invio in missione degli apostoli, che è prosecuzione dell’andare di Gesù nei villaggi della Galilea. I cristiani sono chiamati ad andare, ma verso dove? Verso gli altri, i non cristiani, con l’obiettivo di testimoniare, predicare, convertire, verrebbe da dire. In realtà, questo essere in movimento ha una duplice valenza che va esplicitata.
Non a caso la chiesa terrestre è detta dalla tradizione cristiana chiesa peregrinante, cioè chiesa in cammino, perché siamo ancora in esilio lontani dal Signore (2 Cor 5,6), come ci ricorda anche il Vaticano II (cfr. Lumen Gentium, 48). Il cristiano deve andare verso gli altri? Prima di tutto deve andare verso Dio! C’è pertanto una connessione stretta fra l’andare in missione e il ritornare a Dio, cioè il convertirsi: l’uno non sta senza l’altro.
In ogni tempo, i cristiani sono tenuti a chiedersi dove stanno andando e dove va la chiesa. Tutto ciò rinvia all’urgenza della conversione, la quale sempre caratterizza l’esistenza cristiana come un incessante nuovo inizio. L’invito di papa Francesco a lasciarsi incontrare dal Signore e a rinnovare l’incontro con lui, che apre l’esortazione Evangelii gaudium in cui ha esposto il suo programma per la chiesa cattolica, si comprende in questa chiave (cfr. EG 3). Questo papa ha lanciato un forte richiamo alla conversione di tutta la chiesa come condizione per l’annuncio del Vangelo. Se questa è la prospettiva cristiana, nella chiesa non può esserci spazio per la presunzione di essere migliori e tanto meno per atteggiamenti improntati al giudizio e alla condanna. La perdita di autorità e centralità del cristianesimo nel mondo contemporaneo non è allora una sconfitta, ma l’opportunità di un ritorno al Vangelo, alcuni tratti del quale sono divenuti opachi nella testimonianza della chiesa cattolica. La trasmissione della fede è perciò affidata alla bellezza, bontà e verità delle vite che suscita.
«Solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiati dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri»[1].
L’Evangelii Gaudium è un documento sorprendente e inatteso per gli orizzonti che ha aperto: essa costituisce una nuova tappa nell’attuazione dell’aggiornamento conciliare e un invito a chiederci a che punto siamo nella nostra conversione e ci offre dei criteri per verificare e discernere i passi da fare dentro questo momento della nostra storia personale e di chiesa.
«Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione […] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” (Unitatis redintegratio, 6)» (EG 26).
La mia riflessione è una revisione di vita e pastorale alla luce dell’esortazione, per ri-leggerci a partire dal dinamismo umano ed ecclesiale dei tre momenti che la scandiscono: la gioia del Vangelo, l’uscire-da-sé in missione, il rinnovamento. L’ho articolata in tre momenti distinti nella scrittura, ma intimamente correlati: il cristiano, la comunità, la compagnia degli uomini, dove la corretta modalità di lettura è il cristiano nella comunità e la comunità cristiana, intesa quale soggetto dell’educazione alla fede, nella compagnia degli uomini.
È il cristiano, la persona che prima di tutto incontra la gioia del Vangelo, la sperimenta interiormente, e rilegge la propria vita alla luce della Parola e del volto di Cristo. Allora, esce da sé, va verso gli altri: «La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (EG 21). E, nell’adesione allo stile di Gesù, il cristiano innesca la conversione della chiesa intera, della sua pastorale e delle sue strutture, in un rinnovamento che è improrogabile per far parlare il Vangelo oggi (cfr. EG 25-27).
In queste considerazioni ho cercato di condensare tratti di un’esperienza umana ed ecclesiale per ancorarle alla realtà. La partecipazione alle vicende della comunità e della diocesi a cui appartengo e soprattutto le vicende della vita senza aggettivi: il matrimonio, i figli, la malattia, l’amicizia, il lavoro nella scuola e non solo.
Prima di entrare nel vivo del discorso, mi sembra opportuno richiamare brevemente il significato biblico della conversione, per evitare fraintendimenti. Con l’andare del tempo, infatti, nella comprensione di questo concetto ha prevalso il significato dell’aderire a una confessione religiosa a cui prima non si apparteneva; un significato identitario, potremmo dire. La conversione, vista così, costituirebbe il momento del passaggio che segna l’ingresso nella fede cristiana e nella chiesa. Ai cristiani, soprattutto a partire dalle missioni spagnole e portoghesi del XVI secolo nel Nuovo Mondo e con la stagione delle grandi missioni ad gentes iniziate nel XIX secolo, spetterebbe perciò adoperarsi per la conversione di coloro che cristiani non sono.
Guardando alle Scritture, però, il senso della conversione appare ben più ampio di così. Nell’ebraico biblico la conversione è detta teshuvà, che può essere tradotta con “ritorno”, ma anche con “risposta”.
Così dice il Signore degli eserciti: tronate a me e io tornerò da voi (Zc 1,3; cfr. Ml 3,7).
Chi si converte ritorna a Dio, si rivolge verso di lui, orienta tutto il proprio essere, a cominciare dai comportamenti, nella sua direzione. Questo volgersi è allo stesso tempo anche una risposta a Dio, alla sua Parola, alla sua azione.
Un midrash racconta che il mondo è stato creato con la lettera “he” (ה), somigliante a una cornice con due aperture. Secondo la sapienza rabbinica, il mondo viene creato con questa lettera perché dalla cornice che Dio ha stabilito si può uscire (c’è libertà di scelta), ma c’è una seconda apertura perché si può ritornare e fare teshuvà. Come mai due aperture, si chiede il Talmud, se si può uscire e rientrare dallo stesso punto? Rabbi Chaim Shmuelevitz dice che per poter rientrare e fare teshuvà bisogna fare un’altra strada, è necessario mettere in discussione le proprie idee e i propri atteggiamenti.
L’ascolto della Parola di Dio, l’incontro con lui, può suscitare, nella libertà umana di rispondere, un cambiamento radicale di tutta l’esistenza. La Bibbia non lo presenta come l’atto di un momento, ma come un processo ininterrotto. Continuamente, attraverso i profeti, Dio chiama Israele alla conversione. Un invito rinnovato da Giovanni Battista:
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2)
e ripreso tale e quale da Gesù (cfr. Mt 4,17). Nel greco del Nuovo Testamento il vocabolo è metánoia, che sta a indicare un cambiamento di pensiero e di mentalità, ma anche un atteggiamento penitenziale (cfr. Mt 3,8). Nella liturgia latina, l’invito alla conversione viene rinnovato ogni anno al principio della Quaresima, segno che è esigenza di tutta la vita cristiana, come avevano intuito padri della chiesa quali Origene e Gregorio di Nissa. La nascita dell’uomo nuovo secondo il Vangelo, è una gestazione che prosegue fino a quando dura il nostro pellegrinaggio ed è sul significato che la conversione ha per noi oggi che ho voluto meditare.
***
Questo testo rielabora una relazione che ho tenuto il 6 maggio 2014 al clero della diocesi di Crema, su invito del vescovo Oscar Cantoni a cui va il mio ringraziamento.


[1] Enzo Bianchi, «Conversione», in Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Rizzoli, Milano 2004², p. 78.
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L'utopia possibile della comunità

La relazionalità del cristiano, che si converte e si forma nella vita di fede, si innesta nella comunità come proprio ambiente naturale. La comunità è il luogo della fraternità, di un “essere tra”, come dice Martin Buber, che non ha finalità utilitaristiche od organizzative. È perciò ben altra cosa di un’istituzione religiosa finalizzata a se stessa, alla propria preservazione e affermazione. La fraternità va oltre l’individuo, ma non annulla e non assorbe la persona. È un vivere insieme che è bello e dolce come olio profumato e prezioso (cfr. Sal 133), perché ci si ama gli uni gli altri come Gesù ha amato i suoi (cfr. Gv 13,34-35).
I cosiddetti “sommari” che scolpiscono in poche battute la fisionomia ideale delle prime comunità cristiane fanno capire bene che cosa s’intende (cfr. At 2,42-47; 4,32-35): lo stare insieme nel quotidiano, nella preghiera, nei pasti, nella condivisione dei beni affinché nessuno sia nel bisogno. Avevano un cuor solo e un’anima sola: non lo si può dire meglio di così!
Non è la descrizione di una realtà idilliaca. Il Nuovo Testamento ci tramanda tracce di discordie, umane debolezze e miserie che ci mostrano i primi cristiani come molto vicini alle ombre dei nostri luoghi della convivenza. È piuttosto la descrizione di una tensione, di una proiezione verso uno stile di vita intuito nella fede. È l’espressione di un desiderio e dell’impegno per un’umanità giusta e fraterna, cioè quel regno di Dio annunciato da Gesù.
Da sempre l’umanità si prefigura una vita sociale che sia diversa, un “altro mondo”, rispetto a una storia in cui città, regni e stati sono luoghi di disuguaglianza, ingiustizia, oppressione… La Repubblica di Platone, l’Utopia di Tommaso Moro, la Città del Sole di Campanella sono nomi d’idee e sogni. Le rivoluzioni, le leggi, le costituzioni sono tentativi che hanno catalizzato speranze; le stesse speranze che hanno spinto innumerevoli uomini e donne verso il  socialismo e il comunismo, ma anche ad abbandonarsi ai regimi. È una vicenda antica e sempre nuova, fatta di slanci, delusioni e sconfitte.
La comunità cristiana si presente come un’utopia possibile, una possibilità di vita buona in relazioni plasmate dalla fraternità in cui il regno è anticipato qui e ora. Però, anch’essa richiede una continua conversione, per non ridursi a realtà ripiegata su se stessa, immobile e stagnante. Non esiste la comunità perfetta. Le miserie umane sono presenti ovunque e in ciascuno di noi. Va sempre ricordato per evitare derive totalitarie e settarie nelle quali una realtà particolare si pone come separata e superiore rispetto all’insieme del corpo della chiesa.
Diversamente dall’atteggiamento proselitista delle sette, è la testimonianza di una comunità che si pone in cammino di conversione all’amore reciproco a evangelizzare per attrazione. Ecco, allora, che la comunità è il luogo del perdono, poiché non è uno stare insieme tra perfetti, e della festa, poiché insieme si rende grazie per i doni di Dio e per il primo dono che è l’altro accanto a sé.


martedì 28 ottobre 2014

Il gusto della vita insieme. Elogio della coppia

la coppia come luogo dove conoscere se stessi.

Pronti a decollare



La coppia come luogo dove conoscere se stessi. 

(Claudio Risé) Coppia è bello. Nella variegata saggistica sulla relazione e i rapporti affettivi si nota un forte cambiamento: dallo sguardo negativo sulla coppia come stabile organizzazione della propria vita affettiva a una riscoperta del suo valore. Le ultime riflessioni sulla coppia confermano così le statistiche note da tempo e verificate negli anni, soprattutto nei Paesi anglosassoni, che raccontano come le persone in una coppia stabile vivano più a lungo, si ammalino meno, abbiano situazioni economiche e sociali più risolte e dichiarino di essere più felici di chi invece vive in situazione di singleness. 
Vivaci e per certi versi sorprendenti si rivelano a questo proposito saggi provenienti da ambienti culturali lontani da posizioni confessionali, occupati fino a qualche anno fa da lavori che presentavano il single come espressione di una proposta di vita particolarmente avanzata e ricca di sviluppi. Oggi invece proprio queste posizioni vengono confutate tra gli altri da studiosi come Claude Habib (specialista di letteratura del secolo dei Lumi, e docente all’università di Paris III) nel suo ultimo libro Il gusto della vita insieme. Elogio della coppia (Firenze, Ponte alla Grazie, 2014, pagine 142, 14 euro). «Il panegirico dell’autonomia affettiva in sé è vuoto e non porta da nessuna parte» afferma la Habib, ricordando che fare dell’ideale individualistico «lo scopo della vita significa decretare l’inverno perpetuo».
L’osservazione della relazione fra uomo e donna nella propria esperienza e in quella degli altri (oltre che nelle intuizioni della letteratura di qualità), porta l’autrice a delineare tratti di una morale laica della coppia che appare singolarmente simile a quella della grandi tradizioni religiose e cristiane. La grande forza e funzione della coppia viene individuata così nell’«esperienza affettiva della cura dell’altro» che produce come «effetto reale» di questa pratica «l’abitudine al bene».
Che dire allora dell’accusa di violenza spesso fatta alla comunità familiare, e dell’ oppressione come inguaribile vocazione del maschio? Queste accuse, dice la Habib, derivano «da una visione della storia nella quale le persecuzione delle donne ha preso il posto di qualsiasi prospettiva collaborativa. Le forme antiche di solidarietà non sono più intuitivamente accessibili, né è comprensibile la coesione tra gli esseri umani. A questi legami ormai fuori portata si sostituisce l’intenzione di opprimere. Il risultato sono delle grandi distorsioni». La Habib, come già Ivan Illich nei suoi lavori sul genere, non crede realistico né utile sostituire la categoria dell’oppressione all’ evidenza anche di cooperazione e complementarità tra uomini e donne durante il corso della storia fino a oggi. «Prima di essere un pericolo politico, la complementarità è un’esperienza privata assolutamente normale, che continua a ribadire la sua utilità ed anche il suo fascino».
Riconoscere la complementarità tra uomo e donna, osserva Habib, ha molto più senso che sbandierare «il manifesto paritario della condivisione dei compiti». E ironicamente nota che «di fatto è molto meglio non essere in due a cucinare: lo spazio è quello che è. Quando la coppia funziona, ciascuno sbriga le proprie faccende senza chiedersi se è sfruttato o meno». Anche la valutazione della coppia in base alla valutazione quantitativa del «chi fa di più» è futile. «Impossibile stabilirlo» risponde la Habib. Nella coppia «la stima è più importante dell’astratta parità». Rispetto e stima: aspetti dell’amore che nella coppia hanno una funzione portante.
L’unione, conclude, non è affatto una privazione, ma un’opportunità. Tutto il contrario del bunker difensivo e reclusivo cui la si è spesso paragonata negli ultimi decenni. La coppia è piuttosto un luogo di «decollo», nel quale sperimentare la libertà di essere se stessi, sostenuti dall’affettuosa presenza dell’altro. Che (e non è cosa da poco) ti ricorderà anche dopo la morte, come nel verso «e io ti aspetto, ricordati» di Guillaume Apollinaire (fiducioso refrain più volte citato nel libro).
Queste virtù e risorse della coppia tuttavia (come ricorda la stessa Habib) sono state talmente rimosse dalla sloganistica mediatica e politica sulla relazione e la famiglia che vanno in qualche modo reimparate anche dal punto di vista cognitivo e comportamentale per poterle fare pienamente proprie e vivere nelle loro potenzialità. A questo scopo sono assai utili libri come Noi due. Strumenti per comprendere e migliorare la vita di coppia (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2013, pagine 212, 10 euro) della psicologa Laura Capantini, che presenta la coppia come il luogo dell’incontro con l’altro, utilizzando supporti narrativi che vanno dal Cantico dei cantici a Roland Barthes. La ricchezza di questa situazione, assieme ai suoi problemi, è presentata utilizzando discipline diverse, dalle scienze della formazione alla psicologia, alla letteratura.
Indispensabile al riconoscimento delle potenzialità della coppia si rivela (anche in questo libro) il sottrarla alla mitologia spesso consumistica dell’innamoramento, osservandola invece nella concretezza della relazione, del tempo, della costruzione di vita e della condivisione delle esperienze affettive e cognitive, corporee ed esistenziali. Un sapere umano collaudato nei secoli, ma da riconoscere e fare proprio calandolo nel nostro (per certi versi nuovissimo) tempo.

domenica 26 ottobre 2014

Dio e il mondo. Un'autobiografia in forma di dialogo

Di Leonardo Allodi

La vita di un filosofo rappresenta una via d’accesso privilegiata al suo pensiero. Questo vale a anche per Robert Spaemann, che ha attinto all’esperienza di una vita attraversata dai drammi del XX secolo come ad un serbatoio inesauribile di spunti di riflessione. È quanto emerge dalla sua Autobiografia pubblicata nel 2012 (Über Gott und die Welt, Klett-Cotta, Stuttgart) e ora, da pochi giorni, disponibile al pubblico italiano che ha mostrato un crescente e significativo interesse per il pensiero dell'autore (Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo, Cantagalli, Siena, 2014). 
Dal dramma del nazismo, evocato in pagine dove Spaemann racconta come, sedicenne, si sottrasse al giuramento di fedeltà al Führer, i ricordi mettono a fuoco il periodo della contestazione. Fu allora che il filosofo, contro l’arrendevolezza dei colleghi di Heidelberg nei confronti del movimento studentesco, dopo soli due anni di insegnamento rinunciò alla Cattedra che era stata di Karl Jaspers e H.G. Gadamer. Poi le vicende che lo hanno visto interlocutore di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, richiamate nel denso resoconto degli incontri di Castelgandolfo. La filosofia di Spaemann, infatti, non è mai impersonale né disincarnata, bensì interroga e si lascia interrogare dall’esistenza e dalla vita della "polis" elaborando una vera e propria "critica dell'utopia politica", come recita il titolo di una sua nota opera.
Il realismo metafisico che ne orienta la riflessione è ben condensato nell’espressione che compendia il rapporto fra “libertà” e “verità”: «L’uomo ha come alternativa la prigione in se stesso o la Croce. Dalla prigionia in se stesso, dalla curvatio in se ipsum, come si dice nella tradizione agostiniana, egli può uscire soltanto inchiodandosi alla croce della realtà». Ora, la “croce” della realtà contemporanea si chiama nichilismo: «L’ultimo uomo di Nietzsche: ecco la personificazione del nichilismo banale. Oggi si chiama anche “liberalismo” e per tutto ciò che non si rassegna a esso si ha già a disposizione il termine intimidatorio “fondamentalismo” (Cfr. R. Spaemann, L’Europa e il nichilismo banale, in: Studi cattolici, gennaio, 2013).
Come dimostra l'Autobiografia, ancor più gradevole per le parti in cui vibra la vivacità del dialogo, l'esistenza di Spaemann è segnata proprio dal confronto con il tema del nichilismo e della violenza politica, dallo sforzo di interpretare la modernità e il dualismo che la caratterizza. Le armi a sua disposizione derivano dalla riscoperta dei fondamenti più autentici della metafisica cristiana e classica. Volume pienamente accessibile ad un pubblico di non specialisti, l'Autobiografia è anche la perfetta sintesi e la migliore introduzione al pensiero dell'autore, i cui temi fondamentali ricorrono in titoli come Concetti morali fondamentali (Piemme, 2002), Felicità e benevolenza (Vita e Pensiero, 1998), Le origini della sociologia dallo spirito della Restaurazione. Studi su G.A. Bonald, 2002), Per la critica dell’utopia politica (F. Angeli, 1998),Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” (Laterza, 2006), Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico (Ares, 2013), Rousseau, cittadino senza patria (Ares, 2009), La diceria immortale. La questione di Dio e l’inganno della modernità (Cantagalli, 2008).
L’"essere-se-stesso", concetto d'indiscutibile centralità, è raggiunto solo in una relazione feconda con l’idea di verità. Una libertà come intende una certa modernità, che infrange l'intima relazione con l’idea di verità, non può che auto-distruggersi. Come già per Chesterton, il luogo in cui «tutte le verità si danno appuntamento» resta la Chiesa Cattolica. «Guardo con un po’ di scetticismo all’odierno culto dell’autenticità», scrive Spaemann. «Per molte persone oggi l’autenticità tende semplicemente a prendere il posto della ricerca della verità. ... L’autenticità, nella misura in cui è cercata o esibita, tende a pervertirsi nel suo opposto, in altre parole diviene un ruolo teatrale. L’insegnamento di Gesù, del resto, non inizia con un invito all’autenticità, a “essere se stessi”, incomincia piuttosto, con l’esortazione a convertire».
La filosofia ha allora l'obiettivo di superare quella dialettica tra spiritualismo e naturalismo che segna la modernità disponendola a una reale negazione del Mistero dell’Incarnazione: quell'evento, cioè, che ci offre l'unica spiegazione possibile della fragilità e insieme della grandezza della natura umana. È l'intuizione delle parole di J.E.L. Tolkien che chiudono il libro: «Ed è sempre così per tutte le cose che gli Uomini incominciano, una gelata in primavera, o la siccità in estate, ed essi non portano a compimento la loro promessa. Eppure è raro che i loro semi non germoglino”, disse Legolas. Anche in mezzo alla polvere o al marcio, li si vede improvvisamente spuntare nei luoghi più imprevisti. Le azioni degli uomini sopravvivono alle nostre, Gimli. Riducendosi però dopo tutto a potenzialità fallite, suppongo, disse il Nano. A ciò gli Elfi non sanno rispondere, disse Legolas».

sabato 25 ottobre 2014

"Pellegrini in cerca di senso"

di Giancarlo Bruni

Fonte:  alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it



GIANCARLO BRUNI
COMUNITA' DI BOSE
L’uomo è un viandante sempre alla ricerca di frammenti di senso, in particolare oggi che è collocato in una società pluralista e in un tempo di crisi. “Uomo, dove sei in rapporto a Dio, in rapporto all’uomo, in rapporto al creato, in rapporto alla morte e in rapporto a te stesso?”: nel rispondere a tali domande, l’autore ci conduce in un viaggio verso la scoperta della verità che abita ognuno di noi, nella ricerca di una strada per giungere alla nostra piena umanizzazione.

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Giancarlo Bruni (1938), frate dei servi di Maria e monaco della comunità di Bose, docente emerito presso la Pontificia facoltà teologica Marianum di Roma, è impegnato in un assiduo ministero di predicazione in Italia e all’estero. Esperto di ecumenismo, presso Edizioni Qiqajon ha già pubblicato Servizio di comunione (1997).