venerdì 15 novembre 2013

La gabbia dorata del regista spagnolo-messicano Diego Quemada-Diez

Un’onda di speranza da Kairòs


L’altro giorno ho visto il film La gabbia dorata del regista spagnolo-messicano Diego Quemada-Diez, recentemente premiato a Cannes e trionfatore a Giffoni. È la storia di quattro adolescenti che, partiti dal Guatemala, attraversano il Messico cercando di raggiungere gli Stati Uniti. Soltanto uno riesce nell’impresa.

Uno su quattro. E questo ci fa riflettere sulle tante tragedie simili a quella di Lampedusa che accadono in molte parti del mondo. È un film bello, intenso, tragico. Non vorrei soffermarmi su di esso – del resto i lettori di Avvenire hanno già avuto modo di leggerne su queste pagine –, ma mi pare utile partire da quelle immagini per riflettere ancora sull’immigrazione. Perché l’età dei protagonisti restituisce una verità che spesso si dimentica: al di là dei cliché, al di là delle forzature a fini elettoralistici, l’immigrazione ha il volto giovane di Juan, Sara, Samuel e dell’indio Chauk, ha la forza di una speranza che sfida la realtà, che sogna di non essere derubata. L’immigrazione ha il volto giovane di questi ragazzi guatemaltechi.

Tanto simili a quelli dei ragazzi che attraversano il Mediterraneo per sfuggire alla violenza e alla mancanza di prospettive dell’Asia e dell’Africa. Si legge nel francese acerbo, da adolescenti, della lettera ritrovata sul cadavere di un giovane guineano: «Se vedete che ci sacrifichiamo e rischiamo la vita è perché soffriamo troppo in Africa, e abbiamo bisogno di voi per lottare contro la povertà».

Chi cerca di penetrare la "gabbia dorata" del Nord del mondo, dell’America, dell’Europa «si sacrifica», «rischia la vita». Il Mediterraneo che fa da sfondo al dramma di tanti rifugiati è un mare che ha inghiottito migliaia di vite umane. Il muro che separa Messico e Stati Uniti è una barriera sulla quale giornalmente s’infrangono i sogni di uomini, donne, bambini. Vite paragonate, nel film citato, alla «canna da zucchero, che tagli e non prova dolore».

Ma ci si sacrifica e si rischia la vita per un sogno, per una speranza. Nel caso dell’America Latina è il sogno di sfuggire alla violenza delle maras, la speranza di una società non così atrocemente divisa tra ricchi e poveri. Ecco, quel che preme alle frontiere del Nord o alle nostre coste, quel che si muove alla base della muraglia americana è un’onda di speranza, è il rifiuto della rassegnazione e della disperazione, è la scommessa aperta e fiduciosa sul futuro.

Un’onda di speranza che non vediamo, avvitati in un discorso vittimista e autoreferenziale sulla crisi o ripiegati sulle nostre cronache e sul nostro disagio. Quanto potremmo imparare da questa rivolta della speranza. Da un’umanità giovane, confusa senz’altro, magari sbagliata, ma anche fiduciosa e ottimista. Da un’umanità che, per citare il sociologo Bauman e papa Francesco, non vuol essere un insieme di vite di scarto e non vuole che le sia rubata la speranza. Per tanti migranti i nostri Paesi sembrano illuminati. Qualcuno li vede addirittura dorati.

È vero, sono giovani, non sanno, vivono lontano. Noi, qui, conosciamo bene i limiti e le contraddizioni dell’Occidente. Sappiamo quanto bronzo si mescola al poco oro della nostra società. Ma, anche noi, non lasciamoci rubare la speranza. Papa Francesco ha detto con forza evangelica: «A tutti dico: non lasciatevi rubare la speranza! Forse la speranza è come le braci sotto la cenere; aiutiamoci con la solidarietà, soffiando sulle ceneri, perché il fuoco venga un’altra volta. La speranza non è di uno, la speranza la "facciamo" tutti! La speranza dobbiamo sostenerla fra tutti, tutti voi e tutti noi che siamo lontani. La speranza è una cosa vostra e nostra. È cosa di tutti!».

Ecco – pensavo guardando il film – non rinchiudiamoci in una gabbia dorata. Non scartiamo nessuna vita. Non permettiamo che nessuna speranza venga rubata. Proviamo a stare dalla parte della speranza e di chi la coltiva. Proviamo a scommettere sulla solidarietà, sulla salvezza di tutti e sul futuro di tutti, nessuno escluso.

Marco Impagliazzo

*
Aumentano i matrimoni
(grazie agli stranieri)
Una società sempre più secolarizzata e in cui ci si sente precari, dove ci si sposa più tardi, magari più volte e, per quanto riguarda gli italiani, sempre meno. Non riserva grandi novità l'annuale rapporto Istat sul matrimonio, che conferma una tendenza in atto ormai da vent'anni. A voler cercare, però, un paio di segnali incoraggianti si trovano.

Il primo è l'inversione di segno, seppur lieve, del dato complessivo dei matrimoni (207.138) rispetto al 2011: dopo una lunga stagione di segni "meno", nel 2012 per la prima volta si è registrato un segno "più" (+2.308). Il dato è da prendere con cautela, in quanto si spiega con il forte aumento (+ 4.107) delle nozze in cui almeno uno degli sposi è straniero. Tendenza che, a sua volta, è motivata da una sentenza della Corte Costituzione del luglio 2011 che bocciò la legge del 2009 che rendeva obbligatorio il permesso di soggiorno per contrarre matrimonio in Italia: obbligo che era stata all'origine di un drastico calo del fenomeno.

L'altro segnale di cauta speranza è che, smentendo una convinzione diffusa, la propensione a sposarsi cresce con l'aumentare del livello di istruzione. Tra il 2003 e il 2012, ad esempio, il tasso di prima nuzialità degli sposi con basso titolo di studio è sceso del 25% per gli uomini e del 28% per le donne, mentre per gli sposi con livello di istruzione medio-alto il calo è stato del 18% per gli uomini e del 14% per le donne.
Per il resto, lo scenario che il rapporto descrive è tristemente noto. Tre italiani su quattro si sposano ancora in chiesa (dato relativo alle prime nozze tra cittadini italiani), ma prosegue la diminuzione dei matrimoni religiosi (122.297 in totale, -2.146 rispetto al 2011) mentre le seconde nozze, per quanto diminuiscano in termini assoluti (32.555, erano 34.137 nel 2008), rappresentano il 15,7% del totale (rispetto al 13,8% del 2008). Al Nord le unioni con rito civile sono la maggioranza (53,4%) e al Centro la metà (49,4%), sul dato nazionale il 41%.

A completare il quadro c'è il fenomeno in crescita delle unioni di fatto, che per l'Istat avrebbero superato il milione (di cui 594mila tra partner celibi e nubili): nel 2012 oltre un figlio su quattro è nato da genitori non coniugati.

Sale l'età in cui si convola a nozze: per gli uomini 34 anni e per le donne 31. Questo si spiega in parte con il fenomeno diffuso delle convivenze prematrimoniali, ma anche con la sempre più prolungata permanenza dei figli in famiglia: il 52,3% dei maschi e il 35% delle femmine tra 25 e 34 anni vivono ancora con i genitori.

Anna Maria Brogi

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