giovedì 9 gennaio 2014

La fine dei libri

La fine dei libri
La fine dei libri

La fine dei libri

Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no.
Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.

Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a internet. Il primo è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga.
Il secondo fattore è che gli spazi e i tempi un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online, e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere ebooks. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi, molti. Tutto quel tempo, non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso.

La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea (vediamo anche di dire che il libro ha spesso costretto, “per scrivere un libro”, a stirare in lunghezze ridondanti buone riflessioni da cinquanta pagine, se non dieci): ma qui starei alla larga dai litigi inutili su cosa sia meglio e cosa sia peggio e se il mondo peggiori o migliori con il declino dei libri. Limitiamoci a registrarlo e capire cosa succede.
Il “pubblicare un libro” come sintesi e sanzione di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Da una parte perché quelli che leggono quella sanzione, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno. Dall’altra perché il mezzo è superato anche su questo. Mi capita qualche volta che qualcuno – editori o amici – mi suggerisca di scrivere un libro, per “dare un senso” e “concretizzare” le molte cose che scrivo online, e mostrarle a “un numero maggiore di lettori”, “perché restino”. Una volta rispondevo che sono pigro e non sono tanto capace di applicarmi su un lavoro di impegno e tempo così esteso e assiduo. Adesso spiego loro che le loro ragioni non valgono più e sono invertite: se c’è un posto dove quello che scrivo “resta” e “raggiunge più lettori”, è internet. I libri spariscono dalla vendita e dall’attenzione – e dall’esistenza – dopo pochi mesi, o pochi anni al massimo (salvo rare eccezioni): ne escono a centinaia ogni mese, e se non vi passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Vi ricordate il successo – molto pompato – che ebbe quel libretto “Indignatevi”? Cos’era, due anni fa? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette. Questo post, con buona approssimazione, sarà letto da circa diecimila persone: è un numero che sarebbe considerato un buon successo per un saggio di qualunque autore di non grandissima fama come me (il mio libro Un grande paese ha venduto poco di più), e che rende economicamente sempre meno. E questo post, sarà ancora ricircolato tra un anno, tra due, tre (se non altro per rinfacciarmi di quanto poco ci avessi preso di fronte al grande boom dei libri del 2017).
Poi, ripeto, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere e c’è la bellezza, eccetera (e internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la sua crescita e le sue evoluzioni. I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile.

http://vimeo.com/24508359

p.s. ho ritrovato questo, in America se n’erano già accorti tre anni fa.

 risposte a La fine dei libri


Partiamo dai numeri: secondo l’Istat i libri pubblicati in Italia nel 2005 sono stati 59.743; nel 2011 59.237. Praticamente in sette anni non c’è stato alcun decremento. Ma la vera sorpresa è andare a vedere cosa succedeva, per esempio, nel 1980, quando la stella di internet era ancora lontana: i libri pubblicati in Italia in quell’anno furono 17.800. Sì, avete letto bene, oltre 40.000 in meno di quelli immessi sul mercato librario negli ultimi anni. Del resto non occorre affidarsi alle statistiche; se siete fra quanti affollano le librerie da decenni, vi sarete accorti che anno dopo anno sui banchi vengono riversati sempre più titoli. La qualità degli stessi è inversamente proporzionale alla loro crescita. Il libro non sarà più centrale nella cultura contemporanea, come sostiene Sofri, ma resta il fatto che chiunque desidererebbe pubblicarne almeno uno: sportivi, comici, attori, chef, a chiunque oggi è offerta la possibilità di approdare in libreria con un proprio titolo. A chiunque tranne, forse, a chi scrive di mestiere.
La questione della fine del libro è assai complessa e nessuno di noi oggi è in grado di comprendere quale sarà la situazione fra vent’anni. La sola cosa certa è che se il libro è destinato davvero a finire, una bella fetta di responsabilità se la dovranno prendere gli editori. I cosiddetti grandi prima degli altri.
Riguardo ai lettori la questione è tutto sommato più semplice da decifrare: in Italia si è sempre letto poco e si continua a leggere poco. Non credo affatto che chi oggi trascorre il suo tempo in treno o in tram gingillando con uno smartphone, un tempo leggeva libri. Non funziona così. Chi non leggeva prima continua a non leggere oggi, ma non certo perché intrappolato nella rete di videogiochi, social network, video online, e via discorrendo. Anche in questo caso i numeri ci raccontano la verità. Sempre secondo un’indagine Istat, nel 2012 le persone che non hanno letto neppure un libro sono state il 67,5% in Puglia, il 66,6% in Campania, il 65,1% in Sicilia, il 63,6% in Calabria. In fondo alla classifica il Trentino Alto Adige, dove solo (si fa per dire) il 39,1% della popolazione non ha letto neppure un libro in tutto l’anno. Non dispongo di dati al riguardo, ma sono pronto a scommettere che la situazione si invertirebbe se indagassimo la diffusione di dispositivi elettronici fra la popolazione. Solo per dire che si può benissimo convivere con smartphone e tablet e tuttavia continuare a leggere libri. A condizione, naturalmente, che lo si faceva già prima.

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