mercoledì 9 luglio 2014

LA PREGHIERA GIORNO DOPO GIORNO di Anthony Bloom

Fede come esperienza vitale

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Cristianesimo come esperienza vitale

Fede come esperienza vitale. La pagina di Anthony Bloom, un grande spirituale della nostra epoca, nato un secolo fa, racconta questo. Ne parla papà Francesco quando mette al primo posto la gioia del Vangelo, l'Evangelii gaudium. Ne ha parlato Benedetto XVI nell'enciclica "Deus Caritas est" descrivendo la fede come incontro con la persona di Cristo.
Eppure questa dimensione è scarsamente presente nel vissuto di tanti che si dicono credenti e nel discorso ecclesiale. La spiritualità, questa sconosciuta.
Dio nessuno l'ha mai visto, dice l' evangelista Giovanni (Cfr 1,18). Eppure, per i cristiani, chi vede Gesù vede il Padre (cfr Gv 14,9). È possibile incontrare oggi l' uomo Gesù, fare questa esperienza di Dio? E come? Questa è la grande domanda di chi si misura con la parola cristiana, al di là di catechismi e valori etici. Non è la dottrina che scuote i cuori, ma un' esperienza vitale che sia possibile, accessibile.
Uomini come Anthony Bloom ci dicono che si può, al di là di miracoli, carismi eccezionali e visioni prodigiose, ma nella "normalità" di una vita interiore che si apre all' ascolto.
                 
 Anthony Bloom (19 June 1914 - 4 August 2003)

LA PREGHIERA GIORNO DOPO GIORNO
Metropolitan Anthony

Metropolita Anthony (Bloom +2003): 

"La preghiera giorno dopo giorno"


Metropolitan Anthony arranged for Daily Reading, by H. Wybrew, Springfield 1988 - traduzione: Riccardo Larini, edizioni Qiqajon – Comunità di Bose


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LA PREGHIERA GIORNO DOPO GIORNO 

di Anthony Bloom 

- opera integrale -


PREFAZIONE

Nella premessa a Vivere nella chiesa ci era parso importante sottolineare l’ecclesialità dell’agire del Metropolita Anthony Bloom, quasi un trait d’union delle molteplici forme assunte dal suo servizio alla chiesa ortodossa russa e ai tanti lettori dei suoi scritti spirituali. Una visione della chiesa come “madre di tutti degli uomini”, capace di farlo amare da molti cristiani non ortodossi, e da tantissimi non credenti, per anni fedeli ascoltatori delle sue parole di speranza; ma, ed è ciò che ci ha spinto a presentare al pubblico questo lavoro, un’ecclesialità fondata su un profondo spirito di preghiera.
Anthony Bloom ha scritto soprattutto su quest’ultimo tema, e quasi tutti i suoi libri sono stati tradotti in moltissime lingue, compreso l’italiano.
Perché allora procedere a una nuova raccolta di suoi scritti sulla preghiera? Almeno per due ragioni.
La prima è che ben pochi autori mostrano come Anthony Bloom una semplicità, coniugata a una notevole profondità spirituale. E la semplicità di chi possiede una visione lucida della realtà che vuole descrivere, ma è soprattutto la semplicità di cuore che cresce e si invera a partire da una profonda vita di preghiera. Dalle righe degli scritti del nostro autore emerge con forza l’indicibile esperienza di un profondo rapporto con il Signore.
Così presi per mano, siamo condotti, passo dopo passo, giorno dopo giorno, alla scoperta di un possibile itinerario di preghiera.
Come descrive Bloom stesso quando parla della propria conversione, l’esperienza di fede è indissociabile dalla percezione di una presenza. Tutta la vita “spirituale “, allora, diventa approfondimento del rapporto con questa presenza, che ben presto ci viene svelata come presenza personale. E come ogni incontro, la preghiera comporta due libertà, una capacità di attendere e di attendersi. Come ogni incontro che sia destinato a sfociare in un’amicizia essa comporta una fedeltà, un superamento degli entusiasmi iniziali, una capacità matura di rapportarsi con un altro destinato a rimanere tale. Questo Altro con cui avviene l’incontro nella preghiera, è un partner con tutte queste caratteristiche; ma non solo. Dio è creatore, ed è anche giudice: il rapporto non può essere simmetrico. E tuttavia, per vincere questa asimmetria, Dio si mostra misericordioso. Tutto allora è compreso nella sua misericordia, anche i suoi silenzi, quando ritarda un poco a farsi vivo presso di noi, che pure lo cerchiamo, per evitarci un giudizio inevitabile.
Ai cristiani è data, a parere di Bloom, una misura dello spazio che ci separa da Dio: la Scrittura; essa può attrarci, darci gioia, ferirci, turbarci; il rapporto con la Parola è inevitabile per purificare l’immagine che ci facciamo del Dio a cui ci rivolgiamo. Guidati dallo Spirito, “misurati” dalla Parola, siamo accompagnati a percepire sempre più la presenza dalla quale eravamo partiti, fino a farla diventare la musica, l’armonia di fondo che pervade tutto il nostro agire. La vera umiltà, allora diviene il far sì che questa presenza, che pure ci pone in discussione e ci fa prendere atto del nostro peccato, diventi talmente centrale nella nostra vita da farci diventare dimentichi di noi stessi. Senza illusione di poter possedere Dio, che è e resta un mistero, ma un mistero che attira i nostri cuori affinché contemplino la sua luce ineffabile.
C’è un’altra ragione, però, non meno importante, che ci ha spinti a presentare questa raccolta. Essa è stata pensata e realizzata da un uomo che ha dato e dà tuttora molto al dialogo ecumenico.
Abbiamo conosciuto Hugh Wybrew in occasione del Colloquio ecumenico di Chevetogne del 1994, e siamo rimasti subito affascinati dalla profonda semplicità e dalla capacità di lettura delle diverse tradizioni cristiane che egli ha mostrato in tutti i suoi scritti e che testimonia nella vita, anche attraverso la partecipazione alla Fellawship af St. Alban and St. Sergius, gruppo di dialogo fra anglicani-ortodossi del quale è attualmente vicepresidente. È raro trovare qualcuno capace di cogliere il filo rosso che lega tradizioni differenti dalla propria; ancor più raro è trovare uomini in grado di trasmettere agli altri i frutti della propria ricerca spirituale.


LA VERA PREGHIERA
Per me pregare significa mettersi in rapporto. lo non ero credente; un bel giorno, scoprii Dio ed egli mi apparve improvvisamente come valore supremo e pienezza di vita, ma al tempo stesso come persona. Credo che la preghiera non possa dire assolutamente nulla a chi non ritiene di avere un tu al quale indirizzare la propria lode. Non si può insegnare a pregare a una persona che non avverte la presenza del Dio vivente; si può insegnarle a far finta di credere ma non sarà certo la finzione a costituire quell’atteggiamento spontaneo che è la vera preghiera.
Perciò, come premessa a questo libro sulla preghiera, quel che desidero trasmettere è la mia ferma convinzione che Dio sia una realtà personale con la quale è possibile entrare in relazione. In un secondo tempo chiederò al lettore di trattare Dio come un vicino di casa, come una persona, e di stimare questa conoscenza allo stesso modo in cui si considera il rapporto con un fratello o un amico. Questo, per me, è essenziale.
Una delle ragioni per le quali sia il culto comunitario che la preghiera privata sembrano essere così privi di calore o così convenzionali sta nel fatto che la nostra azione di lode, che ha luogo in un cuore che comunica con Dio, il più delle volte è assente. Ogni espressione, verbale o gestuale, può essere d’aiuto, ma si tratta pur sempre di espressioni di ciò che è essenziale, vale a dire un profondo silenzio di comunione.


DIO IN NOI
L’evangelo ci insegna che il regno di Dio si trova prima di tutto in noi. Se non siamo capaci di trovare dentro di noi il regno, se non riusciamo a incontrare Dio interiormente, nelle profondità stesse del nostro essere, le probabilità che abbiamo di incontrarlo al di fuori sono estremamente remote. Quando Gagarin fece ritorno dallo spazio e pronunciò la famosa frase: “Non ho visto Dio da nessuna parte in cielo” uno dei nostri preti a Mosca osservò: “Se non l’hai visto sulla terra, non lo vedrai mai in cielo”.
Questo vale anche per quello di cui sto parlando. Se non riusciamo a entrare in contatto con Dio sotto la nostra pelle, se così si può dire, allora le possibilità di riconoscerlo, perfino se lo si incontrasse faccia a faccia, si riducono notevolmente.
Giovanni Crisostomo diceva: “Cerca la porta del tuo cuore, scoprirai che essa è la porta che conduce al regno di Dio”. Dobbiamo volgere il nostro sguardo verso l’interno, non verso l’esterno. Ma all’interno in un modo estremamente particolare. Non sto dicendo che bisogna diventare introspettivi. Non dico che si debba entrare nell’intimo come si fa in psicanalisi o in psicologia. Non si tratta di compiere un viaggio nella propria interiorità, ma di incamminarsi attraverso il nostro io, per approdare dal livello più profondo dell’io al luogo dove egli dimora, quel punto dove l’io e Dio si incontrano.


LA NASCITA DELLA PREGHIERA
La preghiera è ricerca di Dio, incontro con Dio, e andare oltre quest’incontro nella comunione. E dunque un’attività, uno stato e anche una situazione; e si tratta di situarsi sia rispetto a Dio che riguardo al creato.
Essa sorge dalla presa d’atto che il mondo in cui viviamo non è semplicemente bidimensionale, imbrigliato in categorie come tempo e spazio, un piatto mondo nel quale si può incontrare solo la superficie delle cose, una superficie opaca che racchiude il vuoto.
La preghiera nasce dalla scoperta che il mondo possiede profondità, che non siamo circondati unicamente da realtà visibili, ma siamo immersi e penetrati dall’invisibile.
E questo mondo invisibile è al tempo stesso la presenza di Dio, realtà suprema e sublime, e la nostra verità più profonda.


PREGHIERA COME INCONTRO
L’incontro è centrale nella preghiera. È la categoria basilare della rivelazione, perché la rivelazione stessa è incontro con un Dio che ci offre una visione nuova del mondo. Ogni cosa è incontro, nella Scrittura come nella vita. Incontro personale e universale, unico ed esemplare.
C’è sempre un duplice aspetto in questo: incontro con Dio e in lui con tutto il creato, incontro con l’uomo nelle sue profondità radicate nella volontà creatrice di Dio, tesa al compimento, quando Dio sarà tutto in tutti.
Questo incontro è personale perché ciascuno di noi deve fame personalmente l’esperienza: non è possibile viverlo per interposta persona. Ci appartiene, ma al tempo stesso possiede un significato universale perché va oltre il nostro io superficiale e limitato.
Un tale incontro è unico perché per Dio, così come per ciascuno di noi (se veramente apriamo gli occhi), ogni persona è unica e insostituibile. Ogni creatura conosce Dio a modo suo. Ciascuno di noi conosce Dio in un modo che nessuno potrà intuire se non saremo noi stessi a descriverlo. Contemporaneamente, però, essendo la natura umana universale, ogni incontro diviene esemplare. È una rivelazione fatta a tutti di ciò che ognuno conosce in modo personale.


INCONTRO NELLA VERITÀ
Un incontro è vero solo quando sono vere le persone che si incontrano. Da questo punto di vista, finiamo costantemente col contraffare l’incontro. Non solo in noi, ma nell’immagine stessa che abbiamo di Dio, ci è assai difficile essere autentici. Per tutto il giorno assumiamo una dopo l’altra una serie di “personalità sociali”, a volte irriconoscibili per chi ci sta innanzi o perfino ai nostri stessi occhi.
Quando viene l’ora della preghiera e desideriamo presentarci a Dio, ci sentiamo spesso smarriti, perché non sappiamo quale di queste personalità sociali sia la verità della nostra persona; non siamo più capaci di distinguere la nostra autentica identità. Le diverse persone che presentiamo a Dio, una dopo l’altra, non sono noi stessi. C’è del nostro in ciascuna di esse, ma la persona nella sua globalità rimane assente.
Ecco perché la preghiera, che pure sarebbe in grado di salire con forza dal cuore di una persona autentica, non trova la sua strada in mezzo al nugolo di marionette che offriamo a Dio. Ognuna di queste dice una parola che è vera nella sua parzialità, ma non esprime le altre personalità parziali che abbiamo assunto durante il giorno. Ritrovare la nostra unità, l’identità fondamentale, diventa oltremodo importante. Se ciò non accade, non possiamo incontrare il Signore nella verità.


IL DIO VERO
Il Dio che incontriamo dev’essere vero tanto quanto lo siamo noi che andiamo alla sua ricerca. Ma Dio non è sempre vero? Non è forse sempre uguale a se stesso, immutabile? Certo che lo è!
Ma non è solo Dio in sé a essere coinvolto nelle nostre preghiere. È anche l’immagine che ci formiamo di lui, poiché il nostro atteggiamento dipende non solo da ciò che egli è in se stesso, ma anche da quello che noi crediamo che lui sia.
Se abbiamo immagini alterate di Dio, il nostro atteggiamento verso di lui e la nostra preghiera risulteranno adulterate di conseguenza. E importante imparare per tutto il corso della nostra vita, giorno dopo giorno, a conoscere Dio come egli è veramente.


LEGGENDO LA SCRITTURA (1)
Quando leggiamo con onestà le Scritture dobbiamo riconoscere che certi brani ci dicono ben poco. Siamo disposti ad acconsentire con Dio perché non abbiamo ragioni per essere in disaccordo con lui. Possiamo approvare questo o quel comando o quell’atto divino perché non ci tocca personalmente, non cogliamo ancora le domande che esso pone alla nostra persona.
Altri passi francamente non ci piacciono affatto. Se ne avessimo il coraggio, diremmo “No!” al Signore. Dovremmo prendere l’abitudine di annotare con cura questi brani. Sono la misura della distanza che ci separa da Dio, nonché della distanza fra ciò che siamo ora e quel che potremmo essere potenzialmente.
L’evangelo, infatti, non è un succedersi di comandi esteriori, ma un’intera galleria di quadri interiori. E ogni volta che diciamo di no all’evangelo, ci rifiutiamo di essere persone nel senso più pieno del termine.


LEGGENDO LA SCRITTURA (2)
Vi sono dei passi dell’evangelo che fanno ardere i nostri cuori, che illuminano la nostra intelligenza e scuotono la nostra volontà. Essi danno vita e forza a tutto il nostro essere fisico e morale. Questi brani rivelano quelle regioni del nostro intimo nelle quali Dio e la sua immagine coincidono di già; mostrano a che punto ci troviamo, anche solo fugacemente, per un attimo, nella via che conduce a quel che siamo chiamati a essere.
Dovremmo prendere nota con cura di questi passi, con attenzione ancora maggiore rispetto a quella prestata ai brani di cui parlavamo poc’anzi. Sono i punti in cui l’immagine di Dio è già realizzata in noi uomini decaduti a causa del peccato. Da questi inizi possiamo lottare per continuare a trasformarci nella persona che sentiamo di voler e dover essere. Dobbiamo sempre restare fedeli a queste rivelazioni.
Almeno in questo, la nostra fedeltà non deve venire mai meno.
Se facciamo quanto ho appena detto, i brani di questo genere aumentano di numero, gli appelli che l’evangelo ci rivolge si fanno più ricchi e circoscritti, le nebbie a poco a poco si diradano e possiamo scorgere l’immagine della persona che dovremmo essere. Allora, possiamo cominciare a presentarci a Dio nella verità.


MEDITARE CON DISCIPLINA
Abbiamo tante occasioni per dedicarci ad abbondanti riflessioni; in un sacco di situazioni nella vita di tutti i giorni ci troviamo senza nulla da fare, eccetto aspettare; se siamo disciplinati - e questo fa parte della nostra educazione spirituale saremo capaci di ritrovare rapidamente la concentrazione per fissare l’attenzione repentinamente sull’oggetto dei nostri pensieri, del nostro meditare. Dobbiamo imparare a farlo obbligando i nostri pensieri ad aderire a un punto focale ben preciso, lasciando cadere ogni altra cosa.
Agli inizi, pensieri indesiderati irromperanno nella mente, ma se li allontaniamo con costanza, ogni volta che si presentano, alla fine ci lasceranno in pace. E solo quando grazie all’allenamento, all’esercizio, all’abitudine, si è divenuti capaci di concentrarsi profondamente e prontamente, che si può continuare per tutta la vita a vivere in uno stato di raccoglimento, noncuranti di quel che si sta facendo.


METODO DI MEDITAZIONE
Spesso consideriamo al più, un paio di punti per poi passare al successivo. E un atteggiamento errato: abbiamo visto infatti che ci vuole un lungo tempo per ottenere il raccoglimento, per divenire come quelle persone che i padri chiamano “vigilanti”, uomini capaci di prestare attenzione a un’idea così bene e talmente a lungo che nulla di essa viene perso per strada.
Tutti gli spirituali del passato e del tempo presente ci diranno: prendi un testo, ritorna su di esso ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a esaurire tutte le sue risorse per l’intelletto e la tua affettività; grazie alla lettura attenta e al costante ritornare su quel testo, sei pervenuto a un nuovo atteggiamento.
Spesso la meditazione non consiste in null’altro che nell’esaminare il testo, girando e rigirando le parole che Dio ci rivolge in modo da diventare del tutto familiari con esse, talmente imbevuti della loro essenza da essere ormai una cosa sola con quelle parole. In questo cammino, anche se non riteniamo di aver scoperto nessuna particolare ricchezza intellettuale, in realtà siamo cambiati.


IL CONTRASTO FRA PREGHIERA E MEDITAZIONE
Meditare è un’attività del pensiero, mentre la preghiera è rifiuto di qualsiasi pensiero. Secondo quanto insegnano i padri dell’oriente, perfino i pensieri più spirituali e le considerazioni teologiche più profonde e sublimi, se compiute nel corso dell’orazione, devono essere ritenute alla stregua di una tentazione, e perciò soppresse; perché, come dicono i padri, è da stupidi pensare a Dio e dimenticare che ci troviamo in sua presenza.
Tutte le guide spirituali dell’ortodossia ci ammoniscono di non sostituire all’incontro con Dio una riflessione su di lui. La preghiera è essenzialmente stare davanti a Dio, faccia a faccia, consapevoli di dover lottare per rimanere raccolti, assolutamente nel silenzio e attenti alla sua presenza, vale a dire serbare una mente, un cuore e una volontà indivisi al cospetto del Signore. E non è affatto facile.
Per quanto possiamo aver imparato dall’educazione ricevuta, una scorciatoia si può sempre aprire in qualsiasi momento: l’unificazione può essere raggiunta da quella persona per la quale l’amore di Dio è tutto, che ha rotto ogni legame, che si è offerta completamente a Dio; allora non c’è più lotta personale, ma solo l’opera luminosa della grazia di Dio.


LO SCOPO DELLA MEDITAZIONE
Fine della meditazione non è praticare una riflessione di tipo accademico; essa non intende essere un’attività puramente intellettuale, né un mero abbozzo di pensiero privo di conseguenze. Essa vuole essere un pensare sotto la guida di Dio e “verso Dio”, e per questo dovrebbe portarci a trarre conclusioni sul nostro modo di vivere. È importante rendersi conto fin da principio che una meditazione si rivela utile quando ci pone in condizione di vivere in modo più preciso e concreto le esigenze dell’evangelo.
Qualunque cosa raccogliamo, sia un versetto, o un comando, un evento della vita di Cristo, dobbiamo anzitutto pesarne il contenuto oggettivo. È estremamente importante, perché il fine per cui si medita non è la costruzione di strutture fantastiche, quanto la comprensione di una verità.
La verità sta lì, è la verità di Dio, e la meditazione si propone di costruire un ponte fra la nostra mancanza di comprensione e la verità rivelata. È un modo per educare la nostra intelligenza, per imparare gradualmente ad assumere “il pensiero di Cristo”, come dice Paolo (1Cor 2,16).


VIVERE IN MODO CREATIVO
La nostra stessa giornata è benedetta da Dio. Questo non significa forse che ogni cosa che essa contiene, ogni evento che accade nel corso di essa è volontà di Dio? Credere che le cose accadono solo per caso non è credere in Dio. E se accogliamo tutto quel che avviene e ogni persona con questo spirito, ci accorgeremo che siamo chiamati a compiere l’opera dei cristiani in ogni cosa.
Ogni incontro è in Dio e in vista di lui. Siamo inviati a tutti quelli che incontriamo nel nostro cammino, sia per dare che per ricevere, a volte senza neppure saperlo. Qualche volta sperimentiamo la meraviglia di dare quel che non possediamo, altre volte ci tocca pagare con il sangue quel che diamo agli altri.
Dobbiamo anche saper ricevere. Dobbiamo essere capaci di incontrare il prossimo, di guardarlo, di ascoltarlo, di tacere, di prestare attenzione; dobbiamo saper amare e rispondere con tutto il cuore a quel che ci viene offerto, che sia gioia o amarezza, una cosa triste o qualcosa di meraviglioso. Dovremmo essere del tutto ricettivi, come della creta nelle mani di Dio. Le cose che accadono nella nostra vita, accolte come doni di Dio ci daranno per questa ragione l’occasione di rinnovare incessantemente la nostra creatività, svolgendo l’opera che compete a un cristiano.


PROFONDITÀ POCO PROFONDE
Se osservi con attenzione la tua vita scoprirai molto presto che ben difficilmente si vive “da dentro a fuori”; rispondiamo piuttosto all’incitamento, all’eccitazione. In altre parole, viviamo di riflesso, per reazione. Qualcosa accade e noi reagiamo, qualcuno parla e noi rispondiamo.
Quando però siamo lasciati senza stimoli per il pensiero, le parole e le nostre azioni, ci accorgiamo che in noi c’è ben poco che possa spingere all’azione, in qualsiasi direzione.
È una scoperta veramente drammatica. Siamo completamente vuoti, non agiamo a partire da quel che sta in noi, ma accettiamo come fosse nostra una vita che in realtà è alimentata dall’esterno; abbiamo fatto il callo ad avvenimenti che ci obbligano a compiere a nostra volta qualcosa d’altro. Come è raro riuscire a vivere semplicemente grazie alla profondità e alla ricchezza che pensiamo esistano dentro di noi.


L’INIZIO DELLA PREGHIERA
Il nostro punto di partenza, se desideriamo pregare, è la certezza che siamo peccatori bisognosi di essere salvati, che siamo separati da Dio e non possiamo vivere senza di lui, e che tutto quel che possiamo offrirgli è il nostro desiderio disperato di essere resi tali da poter essere accolti da Dio, accolti nel pentimento, accolti con misericordia e amore.
Dunque fin dall’inizio la preghiera è davvero la nostra umile ascesa verso Dio, un momento nel quale ci voltiamo verso di lui, avvicinandoci con timidezza, poiché sappiamo che se lo incontriamo troppo presto, prima che la sua grazia abbia avuto il tempo di aiutarci a essere capaci di incontrarlo, allora avverrà il giudizio.
Tutto quel che possiamo fare è rivolgerei a lui con profondo rispetto, con tutta la venerazione, lo spirito di adorazione, il timore di Dio di cui siamo capaci, con tutta l’attenzione e la sincerità che possediamo, per chiedergli di fare per noi qualcosa che ci metta in condizione di poterlo incontrare faccia a faccia; non per il giudizio, non per la condanna, ma per la vita eterna.


LA CONDIZIONE PER UNA VITA DI PREGHIERA
Vorrei ribadire che l’incontro fra Dio e l’uomo è pericoloso. Non è senza motivo che la tradizione orientale zen chiama il luogo in cui si trova colui che cerchiamo “la tana della tigre”. Cercare Dio è una cosa da temerari, a meno che non si tratti di un atto di completa umiltà. Incontrare Dio comporta sempre una crisi, e in greco krisis significa giudizio. L’incontro può avvenire nello stupore e nell’umiltà. Ma può anche aver luogo nel terrore e nella condanna.
Non c’è dunque da stupirsi se i manuali di preghiera ortodossi concedono molto poco spazio alle tecniche e ai metodi, mentre interminabili sono le raccomandazioni sulle condizioni morali e spirituali che debbono assolutamente essere presenti in essa. Richiamiamo anzitutto alla memoria il comando evangelico: “Se vieni al tempio e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta, torna da colui che hai offeso e riconciliati con lui, poi torna a presentare la tua offerta” (Mt 5,23-24).
Questo precetto è ripreso in modo eccellente da Simeone il Nuovo Teologo, il quale ci dice che se vogliamo pregare con un cuore libero, dobbiamo riconciliarci con Dio, con la nostra coscienza, con il prossimo, perfino con gli oggetti che ci circondano. Ciò significa che la condizione per una vita di preghiera è vivere secondo l’evangelo. Una vita che fa dei comandamenti e dei consigli donatici nell’evangelo una seconda natura.

CONVERSIONE
Si vede dunque che non possiamo partecipare profondamente alla vita di Dio se non cambiamo in modo radicale. E dunque essenziale andare a Dio perché egli ci trasformi e ci renda diversi, e questa è la ragione per la quale, tanto per cominciare, dovremmo desiderare la conversione. Conversio in latino significa svolta, mutamento nella direzione del corso degli eventi. Il greco metanoia vuol dire cambiamento della mente.
Conversione significa che invece di passare la vita a guardare in ogni direzione, dovremmo seguire una direzione unica. È abbandonare moltissime cose che riteniamo di valore solo perché sono piacevoli o ci convengono. Il primo impatto con la conversione ci porta a modificare la percezione che abbiamo dei valori: quando Dio è al centro di tutto, ogni cosa viene ricollocata e acquista un nuovo spessore. Tutto quel che è di Dio, tutto ciò che gli appartiene, è positivo e reale. Ogni cosa, al di fuori di lui è priva di valore e di significato.
Ma non basta un cambiamento della mente perché si possa parlare di conversione. Possiamo cambiare mentalità e tuttavia non spingerci oltre; ciò che deve seguire è un atto di volontà, e se la nostra volontà non entra in azione per orientarsi verso Dio, allora non c’è conversione; al massimo c’è un inizio di cambiamento, ancora latente e inattivo.

PENTIMENTO
Il pentimento non va confuso col rimorso, non consiste nel sentirsi terribilmente dispiaciuti perché le cose sono andate male in precedenza; è invece un atteggiamento attivo, positivo, che consiste nel muoversi nella direzione giusta.
Ciò è estremamente chiaro nella parabola dei due figli (Mt 21,28 ) che avevano ricevuto dal proprio padre l’ordine di recarsi a lavorare nella vigna. Il primo disse: “Andrò”, ma poi non lo fece. L’altro disse: “Non andrò”, ma poi provò vergogna e si recò a lavorare.
Questo è vero pentimento, e non dovremmo mai lasciarci prendere dall’idea che lamentarsi del proprio passato sia un modo per pentirsi.
Certo, ei vuole anche questo, ma il pentimento resta sterile e irreale. Noi tendiamo a pensare che dovrebbe sfociare in belle emozioni e spesso ci accontentiamo delle emozioni, invece di cercare cambiamenti reali e profondi.

IL DIO NOTO E IL DIO IGNOTO
Possiamo aver capito un sacco di cose riguardo a Dio, a partire dalla nostra esperienza, da quella degli altri, dagli scritti dei santi, dall’insegnamento della chiesa, dalla testimonianza delle Scritture; possiamo sapere che egli è buono, che è umile, che è un fuoco divorante, che è il nostro giudice, che è il nostro salvatore e altro ancora, ma dobbiamo ricordarci che in ogni istante egli può rivelarsi in un modo mai sperimentato in precedenza, anche all’interno di queste categorie generali.
Dobbiamo prender posto innanzi a lui con riverenza ed esser pronti a incontrare chiunque ei capiterà di incontrare, sia il Dio col quale già siamo familiari, sia un Dio che non riusciamo a riconoscere. Egli può darci la percezione di ciò che è, e questa potrebbe essere assai diversa da quel che ci aspettiamo. Noi speriamo di incontrare Gesù, dolce, compassionevole, affettuoso, e ci viene incontro un Dio che giudica, che ci condanna e non ci lascia avvicinare a lui finché restiamo così come siamo. Oppure veniamo nel pentimento, aspettandoci di essere respinti, e incontriamo compassione.
Dio, in ogni momento, è per noi in parte noto e in parte ignoto. Egli si rivela, e dunque lo conosciamo, ma non lo conosceremo mai in pienezza, rimarrà sempre il mistero divino, il cuore di un mistero che non riusciremo mai a penetrare.

IL SILENZIO DI DIO
L’incontro fra Dio e noi nell’orazione continua parte sempre dal silenzio. Dobbiamo imparare a distinguere due generi di silenzio: il silenzio di Dio e il nostro silenzio interiore. Anzitutto il silenzio di Dio, spesso più difficile da sopportare del suo rifiuto, quel silenzio assente di cui già abbiamo detto. In secondo luogo, il silenzio dell’uomo, più fecondo del nostro parlare, in una comunione più stretta con Dio di quella mediata da qualsiasi parola.
Il silenzio di Dio di fronte alla nostra preghiera può durare solo per un attimo, o può sembrare che vada avanti all’infinito. Cristo restò in silenzio di fronte alle suppliche della cananea, e questo lo condusse a raccogliere tutta la propria fede, la speranza e l’amore umano per offrirli a Dio, per far sì che egli potesse estendere i confini del suo regno al di là del popolo eletto. Il silenzio di Cristo suscitò quindi la risposta della donna, la fece crescere di qualità.
E Dio può fare lo stesso nei nostri riguardi, con silenzi di maggiore o minore durata, che chiamano a raccolta le nostre forze e la nostra fedeltà e ci conducono a un rapporto più profondo con lui rispetto a quello che si sarebbe potuto realizzare se la via fosse stata facile. Ma a volte il silenzio per noi assume il suono tetro dell’irrevocabile.

IL SILENZIO DELL’UOMO
Il silenzio di Dio è la sua assenza, ma anche il silenzio è l’assenza dell’uomo. Un incontro non acquista spessore e pienezza finché le due parti che convergono non diventano capaci di tacere l’una con l’altra. Fino a quando abbiamo bisogno di parole e azioni, di prove tangibili, non abbiamo ancora raggiunto la profondità e la pienezza che cercavamo. Non abbiamo fatto esperienza di quel silenzio che avvolge due persone che condividono una certa intimità. Va molto in profondità, assai più di quello che credevamo, il silenzio interiore in cui incontriamo Dio, e con Dio e in Dio il nostro prossimo.
In questo stato di quiete non c’è bisogno di parole per sentirsi vicini al nostro compagno, per comunicare con lui nel nostro essere più profondo, al di là di noi stessi in qualcosa che ci unisce. E quando il silenzio si fa sufficientemente profondo, possiamo iniziare a parlare dalle sue profondità, pur con prudenza e cautela per non rovinarlo con il disordine rumoroso che sta nelle nostre parole. Allora, il nostro pensiero è contemplazione.
La mente, invece di cercare di distinguere fra forme molteplici, come è abituata a fare, cerca di fame emergere di semplici e radiose dagli abissi del cuore. La mente sta compiendo il suo vero lavoro. Serve colui che esprime qualcosa di più grande di lei. Scrutiamo profondità che ci trascendono e cerchiamo di esprimere qualche frammento di quel che abbiamo trovato con timore e rispetto. Parole di questo genere, quando non rendono volgare o cerebrale quest’esperienza nel suo insieme, non rompono il silenzio, ma lo esprimono.

CONCENTRARSI SU DIO E NIENT’ALTRO
Dio deve restare sempre al centro della nostra attenzione, perché il nostro raccoglimento può essere falsificato in molti modi; quando preghiamo per qualcosa che ci preoccupa profondamente, ci sembra che tutto il nostro essere converga in un’unica preghiera e pensiamo di essere in uno stato di raccoglimento profondo, autentico, colmo di preghiera; ma non è vero: al centro dell’attenzione non c’era Dio, ma l’oggetto della nostra preghiera.
Quando siamo coinvolti emotivamente nessun pensiero alieno s’intromette, perché siamo completamente dediti all’oggetto della nostra preghiera; la nostra attenzione si dissolve repentinamente solo quando ci mettiamo a pregare per qualche altra persona o esigenza; questo indica che non era il pensiero di Dio, né l’avvertire la sua presenza a provocare la nostra concentrazione, bensì le nostre preoccupazioni umane.
Questo non vuol dire che la sollecitudine per ciò che è umano sia senza importanza, ma è indice del fatto che il pensiero di un amico può ben di più che il pensare a Dio, e questo è un fatto serio.

PREGARE NEL REGNO
Per poter pregare, dobbiamo trovarci in quella situazione che definiamo “regno di Dio”. Dobbiamo riconoscere che lui è Dio, che è re, dobbiamo arrenderci a lui. Dobbiamo quantomeno preoccuparci della sua volontà, anche se ancora non siamo in grado di compierla.
Se però non lo siamo, se trattiamo Dio come quel giovane ricco che non poteva seguire Cristo perché aveva troppe ricchezze, come possiamo incontrarlo? Il più delle volte quel che perseguiamo attraverso la preghiera, mediante quel profondo rapporto con Dio che tanto desideriamo, non è altro che un nuovo periodo di felicità; ma non siamo preparati a vendere tutti i nostri averi per comprare la perla di grande valore.
Ma come dovremmo procurarci, allora, questa perla di grande valore? È a essa che si rivolgono le nostre attese? Non avviene forse lo stesso nei rapporti umani: quando un uomo e una donna provano amore l’uno per l’altra, gli altri non hanno più la stessa importanza di prima. Per dirla con una formula concisa del tempo antico: “Quando un uomo ha una donna al suo fianco, non è più circondato da uomini e donne, ma dalla gente”. Non potrebbe essere, anzi, non dovrebbe essere così per ciò che concerne ogni nostra ricchezza quando volgiamo il nostro sguardo verso Dio?

DIO AL PRIMO POSTO
L’amore e l’amicizia non crescono se non siamo disposti a sacrificare molte cose per coltivarli, e allo stesso modo dobbiamo esser pronti a mettere da parte tante realtà per assegnare a Dio il primo posto.
“Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente” (Lc 10,27). Sembra che questo sia un comando semplice, eppure sono parole che contengono molto di più di quello che si percepisce a prima vista. Noi tutti sappiamo cosa significhi amare qualcuno con tutto il cuore; sappiamo il piacere, non solo di incontrare ma perfino di richiamare alla mente la persona amata, con il caldo conforto che ne consegue. E in quel modo che dovremmo cercare di amare Dio, e ogni volta che il suo Nome viene menzionato, il nostro cuore e la nostra anima dovrebbero riempirsi di un calore infinito. Dio dovrebbe essere nella nostra mente in ogni istante, ma purtroppo noi pensiamo a lui solo di rado.
Possiamo amare Dio con tutte le forze solo se ci disfiamo deliberatamente di tutto ciò che non appartiene a Dio in noi; con uno sforzo di volontà dobbiamo volgere costantemente lo sguardo verso Dio, sia nella preghiera, il che è più semplice, perché in essa già siamo posti in Dio, che nell’azione, cosa che richiede un certo allenamento, poiché nel nostro agire siamo concentrati su obiettivi materiali e dobbiamo orientarli a Dio con uno sforzo speciale.

IL MISTERO DELL’ESSERE
Qualunque cosa facciamo, quale che sia il nostro livello di conoscenza di Dio, per quanto gli siamo vicini (e ciò vale ancor più fra Dio e l’uomo che fra gli uomini), permane un mistero centrale che non è mai possibile dissipare. Nel libro dell’Apocalisse c’è un passo meraviglioso nel quale Giovanni dice che quanti entreranno nel regno riceveranno in consegna una pietra bianca nella quale è scritto un nome, e tale nome è noto soltanto a Dio e a ciascuno di essi.
Questo nome non è quello con il quale siamo etichettati e chiamati in questo mondo. Il nostro vero nome, il nostro nome eterno è plasmato con accuratezza per noi, calza perfettamente sul nostro essere. Ci definisce e ci esprime completamente. È noto solo a Dio, ed è lui a comunicarcelo. Nessun altro può conoscerlo, perché esprime il nostro legame unico con colui che ci ha creati.
Quante volte i nostri rapporti umani vanno in sfacelo perché una persona vuole rivelare se stessa al di là del possibile, oppure l’altro vuole indagare in un, territorio che è consacrato unicamente a Dio. È un desiderio vano e non può essere adempiuto. È come un bambino che cerca di risalire alle fonti di una sorgente, al punto dove ha origine il flusso d’acqua, quel punto prima del quale l’acqua non c’è. In questo modo si può solo distruggere, non si può scoprire.

PREGHIERA PIENA DI SIGNIFICATO
A meno che la preghiera che intendi offrire a Dio non sia importante e piena di significato anzitutto per te, non sarai in grado di presentarla al Signore. Se non presti attenzione alle parole che proferisci, se il tuo cuore non risponde loro, o se la tua vita non è orientata in sintonia con la preghiera, questa non sarà protesa verso Dio.
Dunque devi per prima cosa scegliere una preghiera che puoi dire con tutta la mente, con tutto il cuore e con tutta la volontà, una preghiera che non ha necessariamente bisogno di essere un modello di arte liturgica, ma che dev’essere autentica, qualcosa che non sia inadeguato a ciò che vuoi esprimere. Devi comprendere la tua preghiera, in tutta la ricchezza e la precisione che essa possiede.
Devi anche mettere tutto il tuo cuore nell’atto con cui adori, un atto con cui riconosci Dio, ti prendi cura di lui, e questo è il vero significato dell’amore, un’azione che ti coinvolge nella mente, nel cuore, un’azione totalmente adeguata a ciò che sei tu.

AL DI LÀ DEGLI UMORI
Quando assumiamo il giusto quadro mentale, quando il cuore è colmo di adorazione, di sollecitudine per gli altri, quando, come dice Luca, le nostre labbra parlano dalla pienezza del cuore (Lc 6,45), non è un problema pregare; parliamo a Dio con libertà facendo uso delle parole a noi più familiari.
Ma se dovessimo abbandonare la nostra vita di preghiera alla mercè dei nostri stati d’animo, finiremmo probabilmente per pregare di quando in quando con fervore e sinceramente, ma perderemmo per lunghi tratti qualsiasi contatto orante con Dio. Grande è la tentazione di differire la preghiera fino al momento in cui ci sentiamo vivi innanzi a Dio, e di considerare privi di sincerità qualsiasi preghiera e ogni passo in direzione di Dio compiuti in tempi nei quali la sincerità è carente. Sappiamo tutti dall’esperienza che in noi abita tutta una serie di sentimenti che non emergono in ogni momento della nostra vita; la malattia o la stanchezza possono nasconderli alla nostra consapevolezza. Anche quando amiamo profondamente, vi sono dei momenti in cui non ce ne rendiamo conto e tuttavia sappiamo che l’amore è vivo dentro di noi.
Lo stesso rimane vero riguardo a Dio; ci sono cause interne ed esterne che rendono difficile a volte la percezione del fatto che crediamo, che abbiamo in noi la speranza, che davvero amiamo Dio. In quei momenti dobbiamo agire confidando non in ciò che sentiamo, ma in quello che sappiamo.

L’IRRILEVANZA DELLE EMOZIONI
Nel nostro sforzo per cercare di pregare le emozioni sono pressoché irrilevanti; quel che dobbiamo portare a Dio è la nostra determinazione piena e ferma a essergli fedeli e a sforzarci di farlo dimorare in noi. Dobbiamo ricordare che frutto della preghiera non è questo o quello stato emotivo, ma un cambiamento profondo nell’insieme della nostra personalità.
Noi aspiriamo a esser resi degni di stare davanti a Dio e di concentrarci sulla sua presenza, essendo tutti i nostri desideri rivolti verso Dio, e aspiriamo a ricevere la potenza, la forza, tutto ciò di cui abbiamo bisogno perché la volontà di Dio si compia in noi. Che si compia in noi la sua volontà dovrebbe essere l’unico scopo della nostra preghiera, ed è anche il criterio per discernere se stiamo pregando in modo corretto. La buona preghiera non è data da una sensazione mistica o dalle nostre emozioni.
Teofane il Recluso dice: “Ti domandi: ‘Oggi ho pregato?’. Non cercare di sondare la profondità delle tue emozioni, o quanto profonda sia la tua comprensione delle cose divine; chiediti piuttosto: ‘Sto compiendo la volontà di Dio meglio di prima?’. Se è così, la preghiera ha dato i suoi frutti; se non è così, per quanta comprensione tu possa aver tratto dal tempo che hai trascorso in presenza del Signore, e quali che siano le emozioni che hai provato, la preghiera non ha dato i suoi frutti”.

VOLONTÀ E VITA CRISTIANA
La concentrazione, sia nella meditazione che nella preghiera, la si può raggiungere solo grazie a uno sforzo di volontà. La nostra vita spirituale si edifica a partire dalla fede e dalla determinazione, e qualsiasi gioia inerente a essa è un dono di Dio. Serafino di Sarov, a quanti gli domandavano cosa fa sì che alcuni rimangano peccatori senza mai progredire mentre altri diventino santi, viventi in Dio, era solito rispondere: “Null’altro che la determinazione”.
Le nostre attività devono essere determinate da un atto della volontà, il che, di solito, va in direzione opposta ai nostri desideri; questa volontà, fondata sulla fede, cozza sempre contro un’altra volontà, che viene dal nostro istinto. In noi risiedono due volontà, di cui una è quella cosciente, che si possiede in misura più o meno elevata, e che consiste nella capacità di costringere noi stessi ad agire in accordo con le nostre convinzioni. La seconda è qualcosa d’altro. Sono le voglie, le aspirazioni, i desideri di tutta la nostra natura, spesso contrari al primo tipo di volontà.
Paolo parla delle due leggi in lotta l’una con l’altra (Rm 7,23). Descrive il nuovo e l’antico Adamo che sono in noi, che si fanno guerra. Non basta puntare alla vittoria del bene contro il male; ciò che è perverso, ovvero i desideri della nostra natura decaduta, dev’essere assolutamente, anche se gradualmente, trasformato in un ardente desiderio, in sete di Dio. La lotta è dura e a tutto campo.

DISCIPLINA NELLA SEQUELA
Fare la volontà di Dio è una disciplina nel senso più nobile del termine. È anche una verifica della nostra lealtà, della fedeltà che abbiamo verso Cristo. È agendo in ogni dettaglio, in ogni momento, con tutte le nostre forze, al limite delle nostre possibilità, con la più grande integrità morale, facendo uso della nostra intelligenza, dell’immaginazione, della volontà, dei carismi e dell’esperienza che possiamo gradatamente imparare a essere strettamente e onestamente obbedienti al Signore Dio.
Se non facciamo questo la nostra sequela è illusoria e tutta la nostra vita di disciplina, quando risulta essere un insieme di regole autoimposte nelle quali ci dilettiamo e che ci rendono orgogliosi e autogratificati, non ci porta da nessuna parte, perché la spinta essenziale della nostra sequela sta nella capacità di rinnegare noi stessi, permettendo a Cristo Signore di essere la nostra mente, la nostra volontà e il nostro cuore. A meno di rinunciare a noi stessi e di accettare la sua vita al posto della nostra, a meno di ambire a ciò che Paolo descrive dicendo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), non saremo mai né disciplinati né discepoli.

DISCIPLINA E GRAZIA
La disciplina spirituale è una strada, un cammino nel quale ci apriamo a Cristo, alla grazia di Dio. Questa è tutta la disciplina, tutto quel che possiamo fare. È Dio che, rispondendo al nostro sforzo ascetico, ci dà la sua grazia e porta a compimento i nostri sforzi.
Tendiamo a pensare che ciò a cui dobbiamo ambire è una vita mistica elevata e profonda. Non è a questo che dovremmo tendere. Una vita mistica è dono di Dio; in sé non è opera nostra e ancor meno l’espressione della nostra dedizione a Dio.
Ciò a cui dobbiamo mirare in risposta all’amore che Dio ha dichiarato e manifestato in Cristo, è diventare discepoli autentici offrendoci in sacrificio a Dio; da parte nostra è lo sforzo ascetico a costituire la vetta della nostra lealtà, della fedeltà e dell’amore. Dobbiamo offrire questo a Dio ed egli adempirà ogni promessa che ci ha fatto. “Figlio, dammi il tuo cuore: esaudirò ogni cosa”.

PREGHIERA E VITA
Finché continuiamo a occuparci profondamente di tutte le trivialità della vita, non possiamo sperare di pregare con tutto il cuore; queste finiranno sempre per colorare il treno dei nostri pensieri. Lo stesso vale per i nostri rapporti quotidiani con la gente, rapporti che non dovrebbero consistere soltanto nel pettegolezzo ma che dovrebbero essere basati su ciò che in ciascuno di noi è essenziale; in caso contrario, potremmo trovarci incapaci di raggiungere un livello differente quando volgiamo la nostra attenzione a Dio.
Dobbiamo estirpare ogni cosa priva di significato e volgare che dimora in noi e nei nostri rapporti con gli altri, per concentrarci su quelle cose che saremo in grado di portare con noi nell’eternità.
Non è possibile diventare un’altra persona nel momento in cui iniziamo a pregare, ma vigilando sui propri pensieri si impara gradualmente a differenziare il loro valore. E nella vita quotidiana che coltiviamo i pensieri che irrimediabilmente vengono a galla nell’ora della preghiera. La preghiera, a sua volta, muterà e arricchirà la nostra vita di tutti i giorni, divenendo il fondamento di un rapporto nuovo e reale con Dio e con quanti ci circondano.

PREGHIERA E IMPEGNO
Le parole della preghiera possiedono la caratteristica di essere sempre parole che impegnano. Non puoi proferire parole di preghiera senza intendere implicitamente: “Se dico questo, allora è quanto mi accingo a compiere, non appena si presenterà l’occasione”. Quando dici a Dio: “A qualsiasi prezzo, a qualsiasi prezzo, salvami, Signore”, devi ricordarti che devi porre in ciò tutta la tua volontà, perché un giorno Dio dirà: “Ecco il prezzo da pagare”.
Gli anziani scrivevano: “Dai il tuo sangue e Dio ti darà lo Spirito”. Questo è il prezzo da pagare. Abbandona tutto, riceverai il paradiso; abbandona la schiavitù, acquisirai la libertà. Così come la tua volontà è già coinvolta non solo nell’atto del pregare ma in ogni conseguenza della tua preghiera, allo stesso modo deve accadere per il corpo, perché un essere umano non è soltanto un’anima intrappolata provvisoriamente in un corpo. E un essere che è anima e corpo, un unico essere: l’uomo.
C’è uno sforzo fisico che si deve compiere nella preghiera, un’attenzione fisica, una maniera fisica di pregare. Il digiuno, se il cibo ti ha reso troppo pesante per la preghiera, fa parte di tale sforzo. Se fai queste cose, sarà per te come bussare a una porta.

PREGHIERA CRISTIANA
Caratteristica della preghiera cristiana è che si tratta della preghiera di Cristo, portata a suo Padre, di generazione in generazione in situazioni sempre nuove, da quanti sono, per grazia e partecipazione, la presenza di Cristo in questo mondo; è una preghiera continua e incessante a Dio, perché si compia la sua volontà, perché tutto avvenga secondo il suo disegno sapiente e pieno d’amore.
Questo significa che la nostra vita di preghiera è al tempo stesso una lotta contro tutto ciò che non è di Cristo. Prepariamo il terreno per la preghiera ogni volta che lasciamo perdere qualcosa che non appartiene a Cristo, che non è degna di lui, e solo la preghiera di chi, come Paolo, può dire “Io vivo, non io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) è vera preghiera cristiana.

SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ
Dato che la chiesa è un’estensione della presenza di Cristo nel tempo e nello spazio, in qualsiasi preghiera cristiana dovrebbe essere Cristo stesso che prega, sebbene questo implichi una purezza di cuore che noi non possediamo. Le orazioni della chiesa sono le preghiere di Cristo, particolarmente nella preghiera eucaristica, dove è Cristo che prega dall’inizio alla fine; ogni altra preghiera, però, nella quale chiediamo qualcosa che riguardi una situazione concreta è sempre preceduta da un “se”.
Nella maggior parte dei casi non sappiamo per cosa avrebbe pregato Cristo in una simile situazione, e per questo introduciamo il “se”, volendo significare che per quanto ci è dato di vedere, per quel che sappiamo della volontà di Dio, questo è quanto desideriamo avvenga perché si compia la sua volontà.
Ma il “se” significa anche: ripongo in queste parole il mio desiderio che avvenga la cosa migliore; per questo tu puoi mutare questa richiesta concreta in qualsiasi cosa di tuo gradimento, assumendo la mia intenzione, il desiderio che si compia la tua volontà, anche se io sono così stolto da esporre come mi piacerebbe che essa venga compiuta (Rm 8,26).

IL SILENZIO DELLA SEQUELA
La sequela inizia con il silenzio e l’ascolto. Quando ascoltiamo qualcuno, pensiamo di essere in silenzio perché non parliamo; ma le nostre menti continuano a lavorare, le nostre emozioni reagiscono, la nostra volontà si schiera pro o contro quel che stiamo ascoltando; possiamo anche spingerei oltre, in pensieri e sentimenti che ronzano nella testa e che nulla hanno a che vedere con quello che viene detto. Questo non è il silenzio di cui la sequela ha bisogno.
Il vero silenzio al quale dobbiamo tendere come punto di partenza è un riposo totale della mente, del cuore e della volontà, il silenzio totale di tutto ciò che è in noi, compreso il nostro corpo, di modo che possiamo essere pienamente consapevoli delle parole che stiamo udendo, completamente all’erta e tuttavia nella quiete più totale.
Il silenzio di cui sto parlando è il silenzio della sentinella che monta la guardia in un momento critico: vigile, immobile, con lo sguardo fisso e tuttavia attenta a ogni suono, a ogni movimento. Questo silenzio di attesa è il primo requisito della sequela, e non lo si ottiene senza un certo sforzo. Richiede da parte nostra che alleniamo l’attenzione, il corpo, la mente e le emozioni, perché ogni cosa sia mantenuta completamente e perfettamente in ordine.

UN CORPO PACIFICATO
Dobbiamo imparare ad acquisire un corpo pacificato. Quale che sia la nostra attività psicologica, il nostro corpo reagisce a essa, e il nostro stato corporeo determina in una certa misura il tipo o la qualità della nostra attività psicologica.
Teofane il Recluso, nei suoi consigli rivolti a chi desidera dedicarsi alla vita spirituale, afferma che una delle condizioni indispensabili per riuscire in essa è non permettersi mai la rilassatezza del corpo: “Siate come corde di violino, accordate secondo una nota ben precisa, senza rilassamento o tensione eccessiva, con il corpo eretto, le spalle dritte, un portamento agile della testa, le tensioni di ogni muscolo orientate verso il cuore”.
Molto è stato scritto e detto sui modi in cui il corpo può essere sfruttato per aumentare la capacità di attenzione; ma a un livello accessibile a molti, il consiglio di Teofane suona semplice, preciso e pratico. Dobbiamo imparare a rilassarci e contemporaneamente a essere pronti. Dobbiamo dominare il nostro corpo in modo che non sia d’intralcio, ma renda più facile il raccoglimento.

PREGHIERA PURIFICATA
A volte pensiamo che non siamo degni di pregare, e perfino che non ne abbiamo il diritto. È una tentazione. Ogni goccia d’acqua, da qualsiasi parte provenga, da una pozzanghera come dall’oceano, viene purificata mediante l’evaporazione; lo stesso è di ogni preghiera che sale a Dio.
Più ci sentiamo avviliti, e più abbiamo bisogno di pregare. E senz’altro quello che provò un giorno Ivan di Cronstadt quando, mentre pregava sotto lo sguardo di un demonio, questi gli borbottò: “Tu, ipocrita, come osi pregare con la tua mente sudicia, piena dei pensieri che vi ho letto?”. Egli rispose: “È proprio perché la mia mente è colma di pensieri che mi disgustano e contro i quali combatto che sto pregando Dio”.

PREGHIERA SPONTANEA
La preghiera spontanea è possibile in due situazioni: essa ha luogo in momenti nei quali avvertiamo vivamente la presenza di Dio, quando questa consapevolezza ci chiede una risposta orante, gioiosa, quando richiama tutte le forme di risposta che siamo in grado di offrire, essendo noi stessi e presentandoci al Dio vivente; oppure quando, improvvisamente, ci accorgiamo del pericolo mortale nel quale ci troviamo venendo a Dio, momenti nei quali improvvisamente sale dalle nostre profondità un grido di disperazione e di scoramento, o anche dalla sensazione che non vi sia speranza di salvezza per noi a meno che sia Dio a salvarci.
La preghiera spontanea deve sgorgare dall’anima, non possiamo semplicemente girare un rubinetto e aspettarci che esca. Non è lì perché possiamo attingerla e usarla in ogni momento. Viene dalle profondità della nostra anima, dallo stupore o dall’angoscia, ma non viene dalla situazione media nella quale non siamo né sommersi dalla presenza divina né sopraffatti dalla percezione di chi siamo e dove ci troviamo. In quei momenti di grigiore, cercare di ricorrere alla preghiera spontanea è un esercizio completamente illusorio.

PREGHIERA DI CONVINZIONE
Abbiamo bisogno di alcune forme di preghiera profondamente radicate nella convinzione, diverse dalla preghiera spontanea. Per trovare tali forme si può attingere a molte orazioni che sono a nostra disposizione. Possediamo infatti già un ricco armamentario di preghiere scritte negli spasmi della fede, dallo Spirito santo.
Abbiamo ad esempio i Salmi; possediamo un gran numero di preghiere lunghe e brevi nel tesoro liturgico di tutte le chiese, e a esse possiamo attingere. Quel che conta è imparare e conoscere un numero sufficiente di tali preghiere e avere, al momento giusto, la possibilità di trovare le parole giuste per pregare. E questione di apprendere a memoria un certo numero di passi significativi, dei Salmi come delle preghiere dei santi.
Imparate quei passi, perché nel giorno in cui sarete così demoralizzati, così profondamente disperati da non poter far emergere dalla vostra anima nessuna espressione spontanea, nessuna frase che sia vostra, scoprirete che queste parole emergono e si offrono a voi come un dono di Dio, un dono della chiesa, un dono della santità, che viene in soccorso alla nostra mancanza di forze. Allora sì che si ha bisogno delle preghiere che si sono imparate e che abbiamo reso una parte di noi.

PREGHIERA CONTINUA
Un ultimo modo per pregare è l’utilizzo, più o meno ininterrotto, di preghiere vocali che fungano da sottofondo, da bastone da passeggio, lungo tutto l’arco della giornata e per tutta la vita.
Penso a qualcosa che si riferisce in modo specifico alla tradizione ortodossa. È quella che chiamiamo la “preghiera di Gesù”, una preghiera incentrata sul nome di Gesù. “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Questa preghiera è usata non solo da monaci e monache ma anche da semplici cristiani.
È la preghiera della stabilità, perché non è un’orazione discorsiva - non ci muoviamo da un pensiero a un altro pensiero - è una preghiera che ci pone faccia a faccia con Dio mediante una professione di fede in lui, e definisce una situazione che riguarda noi stessi. È una professione di fede che, secondo il pensiero di molti asceti e mistici ortodossi, riassume in sé tutto l’evangelo.

PREGHIERA COSTANTE
È difficile pregare per un giorno intero. A volte proviamo a immaginare come potrebbe essere. Pensiamo alla vita liturgica dei monaci contemplativi oppure alla vita di preghiera di un anacoreta. Non ci capita spesso di pensare a una vita di preghiera che abbia luogo in una vita ordinaria, nella quale tutto diventi preghiera o occasione di preghiera. Ma questo è un modo facile per pregare, sebbene sia ovviamente molto esigente.
Alziamoci al mattino e offriamoci a Dio. Ci siamo risvegliati da un sonno che ci separa dalla giornata precedente. Il risveglio ci offre una nuova realtà, un giorno mai esistito prima, un tempo e uno spazio sconosciuti si spiegano davanti a noi come un campo di neve intatta. Chiediamo al Signore di benedire questa giornata, e di benedire noi in essa.
Quando abbiamo fatto questo, prendiamo sul serio la nostra richiesta, così come la risposta silenziosa che ci è stata data. Siamo benedetti da Dio, la sua benedizione sarà sempre con noi, in ogni nostra azione perché questa sia capace di accogliere tale benedizione. La perderemo solo quando volgeremo lo sguardo lontano da Dio. E Dio sarà con noi anche allora, pronto a venire in nostro aiuto, disposto a renderci la grazia che abbiamo respinto.

DOMANDA
Molte delle nostre preghiere sono preghiere di domanda, e sembra che la gente pensi alla domanda come alla forma più bassa della preghiera; più in alto c’è la gratitudine, in cima la lode.
Ma in realtà sono la gratitudine e la lode a essere espressione di un rapporto inferiore. Al nostro livello mediocre di fede è più facile cantare inni di lode o rendere grazie a Dio piuttosto che fargli fiducia in misura sufficiente da chiedergli qualcosa con fede. Anche persone che credono tiepidamente possono volgersi a ringraziare Dio quando qualcosa di piacevole capita nella loro vita; e ci sono momenti di esaltazione in cui tutti sono capaci di cantare a Dio.
Ma è ben più difficile avere una tale fede indivisa da rivolgere una domanda con tutto il cuore e con tutta la mente, nella fiducia più totale. Nessuno dovrebbe guardare con sussiego alla preghiera di domanda, perché la capacità di dire tali preghiere è una verifica dell’autenticità della nostra fede.

SFERRUZZANDO DAVANTI A DIO
Ricordo che una delle prime persone che venne a chiedermi consigli dopo che ero stato ordinato presbitero fu una vecchia signora che disse: “Padre, ho pregato quasi incessantemente per quattordici anni, e non ho mai avvertito la presenza di Dio”. Allora le dissi: “Gli ha dato una chance di proferire anche solo una parola?”. “Oh no” mi disse, “ho parlato io per tutto il tempo, non è forse questa la preghiera?”. Le dissi: “No, non penso che lo sia, e quel che le suggerisco è di mettere da parte quindici minuti ogni giorno, restando seduta a sferruzzare davanti al volto di Dio”.
E così fece. Con quale risultato? Presto venne da me e disse: “È straordinario, quando prego Dio, in altre parole quando gli parlo, non sento nulla, ma quando mi siedo nella calma, faccia a faccia con lui, allora mi sento avvolta dalla sua presenza.
Non sarai mai in grado di pregare Dio realmente e con tutto il tuo cuore se non impari a tacere e a gioire a causa del miracolo della sua presenza, o se preferisci, del tuo stare faccia a faccia con lui anche se non lo vedi.

IL SENSO DELLA PRESENZA DI DIO
Se impari a far uso di una preghiera che hai scelto nei momenti in cui puoi dedicare tutta la tua attenzione alla presenza divina e offri a Dio questa preghiera, quello che accade poco alla volta è che la consapevolezza di Dio cresce in te a tal punto che sia che tu stia in mezzo alla gente, ascoltando e parlando, sia che te ne stia solo a lavorare, questa consapevolezza è così forte che anche se sei con delle persone riuscirai ancora a pregare.
Quando piove su di noi una grande gioia, un grande dolore o un grande dispiacere, non li dimentichiamo nel corso della giornata. Ascoltiamo la gente, svolgiamo la nostra attività lavorativa, leggiamo, facciamo quel che dobbiamo fare, e il dolore per quel che abbiamo perso, o la consapevolezza della nostra gioia, della notizia esilarante, rimane incessantemente con noi. Lo stesso dovrebbe accadere con il senso della presenza di Dio.
E se il senso della presenza di Dio è così chiaro, allora si può pregare mentre si è occupati in altre faccende. Si può pregare mentre si fa un lavoro fisico, ma anche quando si sta con la gente, in ascolto o anche impegnati in qualche forma di conversazione o di relazione. Non è comunque questa la prima cosa che ci succede, e dobbiamo educare noi stessi anzitutto ad acquisire un atteggiamento di attenzione adorante e un cuore contrito, in condizioni che permettono di sviluppare questi atteggiamenti, perché è facile distrarsi, scivolando nella preghiera dalla vigilanza al sogno.

CONTEMPLAZIONE E INTERCESSIONE
Il fatto che siamo presenti in una situazione la cambia profondamente perché Dio si rende allora presente con noi, mediante la nostra fede. Ovunque siamo, a casa con la nostra famiglia, con gli amici quando sta per scoppiare una lite, al lavoro o semplicemente in metropolitana, per la strada, in treno, possiamo raccoglierei e dire: “Signore, io credo in te, vieni in mezzo a noi”.
È grazie a questo atto di fede, in una preghiera contemplativa che non ha bisogno di vedere, possiamo intercedere presso Dio che ha promesso di essere presente quando noi lo invochiamo. A volte ci mancano le parole, altre volte non sappiamo come comportarci in modo sensato, ma possiamo sempre chiedere a Dio di venire e di rendersi presente. E ci accorgeremo che muterà spesso l’atmosfera, avranno fine le liti, verrà la pace.
Questo non è un modo meno importante di intercedere, quantunque sia meno spettacolare di un grande sacrificio. In esso vediamo ancora una volta come contemplazione e azione siano inseparabili, e come l’azione cristiana sia impossibile senza la contemplazione. Vediamo pure come la contemplazione non sia allora una visione di Dio e basta, ma una visione profonda di ogni realtà che ci mette in condizione di coglierne il significato eterno. La contemplazione non è la visione di Dio e nient’altro, ma del mondo in lui.

PREGHIERA SENZA RISPOSTA
“Chiedete e vi sarà dato”(Mt 7,7). Queste parole sono una spina nel fianco per la coscienza dei cristiani, e non possono essere accolte né essere respinte. Rifiutarle vorrebbe dire un rifiuto dell’infinita gentilezza di Dio, e tuttavia non siamo ancora abbastanza cristiani da accettarle.
Sappiamo che il Padre non darà pietre a chi chiede pane (Mt 7,9), ma non pensiamo a noi stessi come a bambini che non sanno quali sono i loro veri bisogni e ciò che è bene e male per le loro vite. Tuttavia sta qui la risposta a molte preghiere inesaudite.
Possiamo trovare risposta anche nelle parole di Giovanni Crisostomo: “Non siate angosciati se non ricevete subito quanto avete domandato: Dio vuole farvi un bene maggiore attraverso la vostra perseveranza e la vostra preghiera”.

PREGHIERA DEL PERFETTO SILENZIO
Vi sono delle occasioni nelle quali non abbiamo bisogno di alcuna parola di preghiera, né delle nostre né di quelle di qualunque altra persona; allora preghiamo in perfetto silenzio. Questo silenzio è la preghiera ideale, sempre che, s’intende, sia un silenzio reale e non sia un sognare a occhi aperti.
Abbiamo ben poca esperienza di cosa significhino un silenzio profondo del corpo e dell’anima, quando una completa serenità riempie l’anima, e una pace totale penetra in tutto il corpo; quando scompare ogni tumulto e agitazione e ci troviamo davanti a Dio, completamente disponibili in un atto di adorazione. Ci possono essere delle volte in cui ci sentiamo fisicamente e mentalmente rilassati, stanchi di parlare perché abbiamo già usato tante parole; non vogliamo smuovere le acque e ci sentiamo felici in questo fragile equilibrio; siamo veramente sul confine da cui si può scivolare in un sogno a occhi aperti.
Il silenzio interiore è assenza di qualsiasi genere di movimento di pensieri o di emozioni nell’intimo, ma è un perfetto stato di veglia, di apertura a Dio. Dobbiamo custodire il silenzio quando ci è possibile, senza mai lasciare che questo degeneri in semplice appagamento. Per evitare che questo avvenga i grandi scrittori dell’ortodossia ci ammoniscono di non abbandonare mai le forme usuali dell’orazione, perché anche coloro che hanno raggiunto questo silenzio contemplativo hanno trovato necessario, ogni volta che hanno rischiato di cadere nella fiacchezza spirituale, reintrodurre parole di preghiera fino a giungere nuovamente a rinnovare il silenzio con la preghiera stessa.

COMUNIONE DI SANTI E DI PECCATORI
La chiesa non fa distinzione fra i vivi e i morti. Dio non è il Dio dei morti, ma è il Dio dei viventi. Per lui tutti gli uomini sono in vita, e così è pure per la chiesa.
In questa prospettiva escatologica possiamo vedere la morte come la grande speranza e attendere con gioia il giudizio e la venuta di Cristo. Possiamo dire con lo Spirito della chiesa: “Vieni presto, Signore Gesù” (Ap 22,20). Storia ed eternità sono una cosa sola, nell’éscathon come nell’eucaristia.
La preghiera della chiesa include non solo i membri della chiesa ma per mezzo di loro e grazie a loro il mondo intero. Essa percepisce la globalità del mondo come chiesa potenziale, quella chiesa totale per la quale spera. E nella chiesa, in questa prospettiva escatologica, tutte le cose hanno già raggiunto il compimento e contemporaneamente vanno ancora dispiegandosi nel tempo. Abbiamo un rapporto vivo con tutti i morti e tutti i viventi nella comunione dei santi e dei peccatori.

PREGHIERA PER I MORTI
Se credete che le orazioni per i vivi siano loro di aiuto, perché non pregare per i morti? La vita è una, perché Luca dice: “Egli non è il Dio dei morti ma dei vivi” (Lc 20,38). La morte non è la fine, ma una tappa nel destino dell’uomo, e questo destino non viene pietrificato nell’ora della morte.
L’amore espresso dalle nostre preghiere non è sprecato; se l’amore avesse potere sulla terra e non ne avesse dopo la morte finirebbe tragicamente per contraddire la parola della Scrittura secondo cui l’amore è forte come la morte (Ct 8,6), e l’esperienza della chiesa, secondo cui l’amore è più forte della morte, perché Cristo ha vinto la morte nel suo amore per l’umanità.

PREGHIERA AI MORTI
Non preghiamo solo per certe persone ma anche rivolti a delle persone. Preghiamo Maria e i santi. Non ci rivolgiamo a loro però per allontanare da noi il giudizio severo di Dio grazie alla loro dolcezza. Sappiamo che la loro volontà coincide con quella di Dio e questa armonia ingloba nella carità tutti i vivi e i morti. Se è vero che il nostro Dio non è il Dio dei morti ma dei viventi, non è forse naturale il nostro pregare rivolti a coloro che sono per noi esempi così luminosi?
Ciascuno di noi può trovare fra i santi una figura che lo attrae in modo particolare. Noi non operiamo tuttavia distinzioni radicali fra chi è santo e chi non lo è. Certi santi sono stati messi da parte da Dio come esempio per tutti i cristiani. Questo non significa che altri non lo siano stati. Ed è decisamente giusto che si preghi rivolgendosi ai genitori e agli amici defunti, senza che questo costituisca una bestemmia.

LA VERA UMILTÀ
L’umiltà non consiste nel cercare sempre di umiliarsi e di rinunciare alla dignità che Dio ci assegna e pretende da noi, perché siamo suoi figli e non suoi schiavi. L’umiltà come la cogliamo nei santi non nasce solamente dalla loro consapevolezza di essere dei peccatori, perché perfino un peccatore può portare a Dio un cuore spezzato e contrito, e una parola di perdono è sufficiente a cancellare tutto il male presente e passato.
L’umiltà dei santi viene dalla loro visione della gloria, della maestà, della bellezza di Dio. Non è nemmeno la percezione di un contrasto che dà origine alla loro umiltà, ma la consapevolezza che Dio è così santo, una tale rivelazione di bellezza perfetta, di un amore che colpisce in maniera tale che la sola cosa che essi possono fare al suo cospetto è prostrarsi davanti a lui in adorazione, nella gioia e nello stupore.
Quando Teresa provò la grande esperienza dell’amore straripante che Dio ha per noi, essa cadde in ginocchio, piangendo di gioia e di meraviglia; quando si alzò era una persona nuova, nella quale la presa di coscienza dell’amore di Dio lasciò “una sensazione di impagabile riconoscenza”. Questa è umiltà, non l’umiliazione.

SANTITÀ
È molto importante per la comprensione della santità capire che essa ha due poli: Dio e il mondo. La sorgente, il fulcro e il suo contenuto è Dio; ma il punto di applicazione, il luogo in cui nasce, si sviluppa e viene espressa poi in termini di salvezza cristiana, è il mondo, questo ambiguo mondo che da una parte fu creato da Dio ed è oggetto di un tale amore che il Padre ha dato per la sua salvezza il suo Figlio unigenito, e dall’altra è caduto nella schiavitù del peccato.
Questo polo della santità che riguarda il mondo ha perciò due aspetti: una visione del mondo come è stato pensato e amato da Dio, e al tempo stesso un ascetismo che ci chiede di liberarci dal mondo e di liberare il mondo dalla presa di Satana.
Questo secondo elemento, questa lotta che è la nostra vocazione, è parte integrante della santità. I padri del deserto, gli asceti delle origini, non fuggivano il mondo nel senso in cui a volte gli uomini moderni cercano di sfuggire alla sua morsa per trovare un porto sicuro in cui ripararsi; essi partivano per vincere il nemico in battaglia. Con la grazia di Dio, nella forza dello Spirito, si dedicavano al combattimento.

LA SANTITÀ DI DIO IN NOI
Tutta la santità è santità di Dio in noi: è una santità che è partecipazione e, in un certo modo, più che partecipazione, perché col partecipare a ciò che riceviamo da Dio diventiamo rivelazione di ciò che ci trascende. Luci limitate, riveliamo la luce.
Ma dovremmo ricordare anche che in questa vita nella quale ci sforziamo di raggiungere la santità, la nostra spiritualità andrebbe definita in termini molto oggettivi e puntuali. Quando leggiamo libri di spiritualità o ci dedichiamo allo studio di questa materia, vediamo che essa, esplicitamente o implicitamente, è costantemente definita come un atteggiamento, uno stato dell’anima, una condizione interiore, un tipo d’interiorità, e così via.
In realtà, se cerchiamo la definizione ultima e cerchiamo di scoprire il nucleo intimo della spiritualità, troviamo che essa non consiste negli stati dell’anima a noi familiari, ma nella presenza e nell’azione dello Spirito in noi, attraverso di noi e per mezzo di noi nel mondo. Non vi è altra santità all’infuori di quella di Dio; è come membra del corpo di Cristo che ci è possibile partecipare alla sua santità, in Cristo e nello Spirito.

LA CHIESA COME LUOGO SANTO
Quando costruiamo una chiesa o isoliamo un luogo di culto facciamo qualcosa che va ben al di là del significato immediato di quello che stiamo costruendo. Il mondo intero che Dio ha creato è divenuto luogo nel quale l’uomo ha peccato; il divisore è all’opera, un combattimento procede incessantemente; non c’è luogo sulla terra che non sia stato sporcato dal sangue, dalla sofferenza o dal peccato.
Quando scegliamo una piccola porzione di mondo, invocando il potere stesso di Dio in riti che trasmettono la sua grazia, per benedire tale porzione, quando la purifichiamo dalla presenza dello spirito del male e la separiamo affinché diventi punto di appoggio di Dio sulla terra, riconquistiamo a Dio una piccola fetta di questo mondo sconsacrato.
Possiamo dire che questo è un luogo in cui il regno di Dio si rivela e si manifesta con potenza. Quando veniamo in chiesa dovremmo essere consapevoli del fatto che stiamo entrando in terra santa, in un luogo che appartiene a Dio, e dovremmo comportarci di conseguenza.

CORPO E ANIMA
Il corpo è stato preparato per la sepoltura; esso non è un logoro pezzo di stoffa, come pare piaccia pensare a certi devoti, gettato via affinché l’anima sia libera. Un corpo è molto più di questo per un cristiano; non vi è nulla che accada all’anima a cui anche il corpo non prenda parte. Riceviamo delle impressioni da questo mondo come pure da quello divino, anche attraverso il corpo.
Ogni sacramento è dono di Dio, conferito all’anima per mezzo di azioni fisiche; le acque del battesimo, l’olio del crisma, il pane e il vino della mensa eucaristica sono tutti presi dal mondo materiale. Non possiamo compiere né il bene né il male senza operare in unione col nostro corpo.
Il corpo non esiste solamente per far sì che l’anima nasca, maturi e poi se ne vada, abbandonandolo; il corpo, dal primo all’ultimo giorno, ha cooperato con l’anima in ogni cosa ed è, assieme all’anima, l’uomo totale. Rimane segnato per sempre dall’impronta dell’anima e dalla vita che insieme hanno condiviso. Legato all’anima, il corpo è anche unito, mediante i sacramenti, allo stesso Gesù Cristo. Noi comunichiamo al suo corpo e al suo sangue, e il corpo viene quindi unito a pieno titolo al mondo divino con il quale entra in contatto.

PERDONO
Il giudizio non porterebbe a noi null’altro che terrore se non avessimo la speranza certa del perdono. E il dono stesso del perdono è contenuto implicitamente nell’amore di Dio e in quello degli uomini. Tuttavia non basta che sia garantito il perdono, dobbiamo essere pronti ad accoglierlo, ad accettarlo.
Dobbiamo acconsentire a essere perdonati con un atto di fede coraggiosa e di generosa speranza, dobbiamo dare umilmente il benvenuto al dono ricevuto, come a un miracolo che solo l’amore, amore umano e divino, può operare, restando riconoscenti in ogni tempo per la sua gratuità, il suo potere di restaurare, di guarire, la sua forza rigenerante.
Non dobbiamo mai confondere il perdonare col dimenticare, o immaginare che queste cose procedano insieme. Esse non solo non si accompagnano l’una all’altra, ma si escludono a vicenda. Cancellare il passato ha ben poco a che vedere con un perdono costruttivo, ricco d’immaginazione, pieno di frutti; la sola cosa che deve andarsene, che dev’essere cancellata dal passato, è il veleno; l’amarezza, il risentimento, l’allontanamento; ma non la memoria.

CROCE E INCARNAZIONE
Per comprendere il significato della morte redentrice di Cristo, dobbiamo cogliere il senso dell’incarnazione. Ognuno di noi è nato nel tempo, dal non-essere. Entriamo in una vita precaria e fugace, per crescere nella stabilità della vita senza fine. Chiamati dal nulla dalla Parola di Dio entriamo nel tempo, ma nel tempo possiamo trovare l’eternità, perché l’eternità non è un flusso di tempo che, non ha mai fine. L’eternità non è qualcosa. È Qualcuno. L’eternità è Dio stesso, che è possibile incontrare nel fluire effimero del tempo e attraverso quest’incontro, tramite la comunione che Dio ci offre per grazia e amore nella libertà reciproca, possiamo accedere all’eternità e condividere la vita stessa di Dio, diventare, nelle parole audaci di Pietro: “Partecipi della natura divina” (2Pt 1,4).
La nascita del Figlio di Dio è diversa dalla nostra. Egli non entra nel tempo dal nulla. La sua nascita non è l’inizio di una vita, di una vita destinata a crescere per sempre; è la limitazione di una pienezza che esisteva prima che il mondo avesse inizio. Colui che possedeva la gloria eterna con il Padre, prima di tutti i secoli, entra nel nostro mondo, nel mondo creato, nel quale l’uomo ha portato il peccato, la sofferenza, la morte. La nascita di Cristo è per lui non l’inizio della vita, bensì l’inizio della morte. Egli accetta tutto ciò che appartiene alla nostra condizione e il primo giorno della sua vita sulla terra è il primo giorno della sua ascesa verso la croce.

MORTE E RESURREZIONE
La gioia della resurrezione è qualcosa che anche noi dobbiamo apprendere dall’esperienza, ma possiamo sperimentarla soltanto se prima impariamo la tragedia della croce. Per sorgere nuovamente, dobbiamo morire. Morire al nostro egoismo che ci ostacola, morire alle nostre paure, morire a tutto ciò che rende il mondo così angusto, così freddo, così piccolo, così crudele. Morire perché le nostre anime possano vivere, possano esultare, possano scoprire dove ha origine la vita. Se facciamo questo allora la resurrezione di Cristo sarà scesa anche su di noi.
Ma senza la morte in croce non c’è resurrezione, resurrezione che è gioia, gioia di una vita ritrovata, gioia della vita che nessuno potrà mai più rapirci! La gioia di una vita sovrabbondante, che come un torrente scende dai colli portando con sé il cielo stesso riflesso nello scintillio delle acque.
La resurrezione di Cristo è una realtà storica come fu reale la sua morte in croce, ed è in quanto appartiene alla storia che noi vi crediamo. Non è solo coi nostri cuori, bensì con la totalità della nostra esperienza che conosciamo il Cristo risorto. Possiamo conoscerlo giorno dopo giorno come gli apostoli. Non il Cristo della carne, ma il Cristo che vive per sempre. Il Cristo dello spirito di cui parla Paolo, il Cristo risorto che appartiene al tempo e all’eternità perché morto una sola volta sulla croce, ora vive per sempre.

IN ADORAZIONE DEL MISTERO
Dobbiamo essere pronti a scoprire che l’ultimo passo del nostro rapporto con Dio è un atto di pura adorazione, faccia a faccia con un mistero nel quale non è possibile entrare.
Cresciamo nella conoscenza di Dio gradualmente, di anno in anno, fino alla fine della nostra vita, e continueremo a farlo lungo tutta l’eternità, senza mai giungere al punto di poter dire di sapere ormai tutto quel che è conoscibile in Dio. Questo processo di graduale svelamento di Dio ci porta in ogni momento a essere con alle spalle la nostra esperienza passata e innanzi a noi il mistero di Dio, conoscibile e ancora sconosciuto.
Quel poco che sappiamo di Dio ci rende difficile imparare di più, perché il di più non può essere aggiunto semplicemente al poco, dato che ogni incontro porta un tale mutamento di prospettiva che quel che era noto in precedenza diviene quasi non vero alla luce di quello che si apprenderà più tardi.



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