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venerdì 15 febbraio 2013

Letture per la Quaresima <> Luciano Manicardi & Renè Voillaume

"Con Gesù nel deserto"

Luciano Manicardi: "L'umano soffrire" 1




Pensando e pregando per Benedetto XVI e per tutti coloro che soffrono, nel corpo e nello spirito...
* * *
La sofferenza ha qualcosa da dirci
sull’uomo e su Dio
Evangelizzare le parole sulla sofferenza è l’intento di queste pagine, che accostano la nostra esperienza dell’umano soffrire con l’esempio lasciato da Gesù nel prendersi cura dei malati e nel farsi carico della sofferenza per trasfigurarla. Se imparassimo a essere “ospiti” dell’umano che è in noi, ne avremmo cura come di un dono prezioso e saremmo condotti alla sollecitudine verso l’umano sofferente che è nell’altro. Malattia fisica e psichica, crisi nel cammino della vita, sofferenza e invecchiamento non sono “per la morte”, ma appelli al credente perché risvegli la propria umanità rendendola più conforme a quella di Cristo. Nella consapevolezza che, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, “Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione / sazia il corpo e l’anima del suo pane / muore in croce per cristiani e pagani / e a questi e a quelli perdona”.
Luciano Manicardi (Campagnola Emilia 1957), monaco di Bose e biblista, collabora alla rivistaParola, Spirito e Vita. Attento all’intrecciarsi dei dati biblici con le acquisizioni più recenti dell’antropologia, riesce a far emergere dalla Scrittura lo spessore esistenziale e la sapienza di vita di cui è portatrice. Presso le nostre Edizioni ha pubblicato Il corpo e, assieme a Enzo Bianchi, Accanto al malato e La carità nella chiesa.
Introduzione
IL VOLTO DEL SOFFERENTE
La sofferenza è esperienza universale. L'uomo è anche homo patiens (1)Quando queste affermazioni diventano esperienza vissuta, spesso drammatica, a volte tragica, esse ci segnano. E noi comprendiamo, non semplicemente in modo razionale, ma anche con le viscere, che la sofferenza costituisce il caso serio dell' esistenza. O quantomeno un' esperienza che può aprirci una strada verso ciò che nella vita è essenziale e vero. Può. Non è detto che avvenga. Tante persone sono state indurite, intristite e abbrutite dal dolore. Il credente, poi, sa e sente che attorno alla sofferenza si gioca qualcosa di decisivo riguardo sia all'uomo che a Dio, all'immagine dell'uomo e all'immagine di Dio. Di fronte alla sofferenza le domande si moltiplicano e le risposte spesso mostrano la loro falsità o debolezza o inconsistenza. Il credente interroga anche Dio e questa interrogazione è terribile. Di fronte al bambino morto, all'inerme ucciso, all'uomo torturato, a chi nasce malformato, noi diventiamo un interrogativo, la realtà diviene un enigma. E Dio stesso diventa un interrogativo per noi. Da questo interrogativo radicale nasce la sete di autenticità umana, di giustizia, di compassione, e sorge pure il desiderio della ricerca e di un'indagine che interpelli le Scritture e la tradizione cristiana, ma anche le scienze umane, l'antropologia e la sociologia, la psicologia e la psichiatria, le scienze della comunicazione, eccetera. Nella convinzione che la sofferenza ha qualcosa da dirci sull'uomo e su Dio.
In particolare, la fede cristiana, che ha al suo cuore la rivelazione inaudita dell'incarnazione, del Dio che si è fatto uomo, carne fragile, non può ritenere estraneo a sé nulla di ciò che è umano. Sofferenza, malattia e morte comprese. Anzi, è convinzione di chi scrive che ciò che è autenticamente umano è anche autenticamente spirituale, e che l'autenticità spirituale deve sempre passare attraverso il vaglio di ciò che è autenticamente umano. Le pagine che seguono nascono proprio da questo intento: ripensare i discorsi cristiani su malattia, sofferenza e morte radicandoli nel terreno della rivelazione biblica, evangelica in particolare, e restituirli alla concretezza dell'umano sofferente. Insomma, il senso è di evangelizzare e di umanizzare il discorso cristiano su sofferenza, malattia e morte. Cosa che comporta il tenere sempre presente il soggetto sofferente più che la sofferenza, la persona malata più che la malattia, l'uomo morente più che la morte. Nell'ambito di cui ci stiamo occupando l'uso dell'astratto può corrispondere a una volontà di fuga, a quel non coinvolgimento che impedisce l'incontro con il concreto sofferente, malato, morente. Cioè, con il suo volto.
Inoltre questo libro vorrebbe aiutare, propugnare e auspicare il radicarsi sempre più convinto e profondo di una cultura dell' ascolto. E in particolare, dell' ascolto del sofferente. Sappiamo di trovarci in un contesto culturale che, circa il soffrire e il morire, si muove tra rimozione e spettacolarizzazione: vi è chi ha parlato di "rimozione della morte ed epopea del macabro" (2). La spettacolarizzazione del dolore, la morte in diretta, lo scialo di sofferenza esibita alla curiosità morbosa, la sofferenza "vera" degli altri vista attraverso la mediazione protettiva dei mass media, sembrano far parte di un grande rito di esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa. Sorge la domanda: sappiamo sostenere la visione di un concreto volto sofferente? Ha ancora un senso e una praticabilità la compassione o è oramai soffocata tra indifferenza, rimozione, abitudine, paura?
Umberto Galimberti ha posto l'accento sull' assenza di una cultura dell' ascolto che sappia farsi attenta alla solitudine e alle sofferenze degli uomini. In particolare, che sappia dare tempo e accoglienza al depresso:
Educati come siamo alla cultura dell'applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell' ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz'ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso non lo troviamo mai. Con i farmaci, utili senz' altro, interveniamo sull' organismo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra, chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? Tale è la nostra cultura (3).
Certo, sappiamo bene come sia difficile ascoltare, se ascoltare indica l'atto di aprirsi e accogliere la sofferenza dell' altro: "La maggior parte degli orecchi si chiude alle parole che cercano di dire una sofferenza" 4. Si innalzano barriere per evitare che la sofferenza passi da chi la vive e la esprime a chi la ascolta. Eppure, senza questa cultura dell' ascolto del sofferente noi condanniamo l'altro alla solitudine e all'isolamento mortale e precludiamo anche a noi la possibilità di una consolazione e di una comunicazione nella nostra sofferenza. Prosegue Galimberti:


Ascoltare non è prestare l'orecchio, è farsi condurre dalla parola dell' altro là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c'è il silenzio dell'altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel volto di pietra del depresso, tace per non confondersi con tutte le altre parole (5).


La domanda che qui si deve porre è: sappiamo dare tempo, attenzione ed energie all'ascolto di chi soffre? E sappiamo ascoltare la sofferenza profonda che è in noi, premessa indispensabile per porci sempre più attentamente in ascolto della sofferenza dell' altro? Ascoltare significa dare la parola, dare tempo e spazio all' altro, accoglierlo anche in ciò che egli rifiuta di sé, dargli diritto di essere chi lui è e di sentire ciò che sente e fornirgli la possibilità di esprimerlo. Ascoltare è atto che umanizza l'uomo e che suscita l'umanità dell' altro. Ascoltare è far nascere, dare soggettività, permettere all'uomo di realizzare il proprio nome e il proprio volto. Ovvero la propria umanità.
Il volto, infatti, è l'emergenza dell'identità. Il volto è epifania dell'umanità dell'uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità:
La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c'è una povertà essenziale ... Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere (6).
La sofferenza può dunque sfigurare il volto e cancellare, con la sua brutale violenza, l'umanità della persona, ma la sofferenza può anche, paradossalmente, restituire umanità al volto del violento.
Gli internati nei campi di sterminio nazisti si vedevano annientare umanamente venendo spogliati del nome e ridotti a numero, quindi privati del proprio volto: si doveva eliminare dal volto del detenuto ogni residuo di individualità. Ha testimoniato Primo Levi:
Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l'un l'altro (7).
La fatica, la paura, il terrore, la fame, gli orrori quotidiani, tolgono carne alla pelle che resta fragile involucro di ossa:
Prima della morte fisica, regna nei campi la liquidazione dell'individualità attraverso lo smantellamento del volto, la cancellazione dei tratti sotto la durezza delle ossa che ricopre una pelle privata di carne. La stessa magrezza... che conforta l'aguzzino nel sentimento di non avere a che fare con uomini, ma con un residuo che bisogna eliminare ponendosi solo problemi amministrativi e tecnici (8).
Ed Elie Wiesel testimonia:
Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un'intossicazione. Fui trasferito all' ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte. Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più (9).
Al tempo stesso è anche vero che la sofferenza può ridare dignità a chi la violenza l'aveva usata fino al giorno prima. Con toccante lucidità Barbara Spinelli commenta così le immagini del volto di Saddam Hussein violato dalle mani del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati e dall'ispezione dei suoi denti, come fosse una bestia da soma cui, al mercato, si spalanca la bocca per guardare lo stato e l'età della dentatura e si controlla se nel suo pelo non s'annidino pidocchi:
Ecco un dittatore feroce... il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositore, e tuttavia d'un tratto non sembrava più l'orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignità che poco prima non possedeva, uno sguardo di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanità e precisamente questa umanità è stata imbestialita dai modi dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione ... Quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario ... è un'incalcolabile sconfitta morale (10).
Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato dal dolore, deformato dalla malattia, devastato da cicatrici, ustionato, alterato dall' alienazione), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l'umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci pone di fronte a quello sguardo d'amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose (11). Sintetizziamo la narrazione: Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l'anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: "Ma tu sei il mio Mumintroll". E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l'estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima. Insomma, non solo ci è necessaria una cultura dell' ascolto, ma anche una cultura dello sguardo: e questo con urgenza ancora maggiore considerando lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui mass media. Sappiamo volgere uno sguardo umano e umanizzante al sofferente?
Il percorso disegnato dai capitoli di questo libro si muove attorno all'idea che l'umanità di Gesù, narrata nei vangeli, può insegnarci a vivere il confronto con la sofferenza e l'incontro con i malati. Può umanizzarci. E renderci più evangelici.
Può anche farci comprendere che essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo. Dietrich Bonhoeffer, che dalla lettura di un testo di Maritain era stato colpito da una citazione di Karl Marx che diceva: "È facile essere un santo quando non si vuole essere un uomo" (12), si sofferma su questa essenzializzazione dell' esperienza cristiana:
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d'uomo, ma l'uomo. Non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo (13).
L'aprirci al dolore di Dio nel mondo, nella vita quotidiana, è anche il destarci all'umano lacerato, oscurato, menomato nella persona sofferente, nel portatore di handicap, nella persona segnata dalla malattia fisica o psichica; è cogliere la passione di Dio nel dolore e nella sofferenza dell'umano che è nell'uomo. Parlando dell'umano che è nell'uomo intendo riferirmi a qualcosa che è comune a ogni singola persona, a ogni singolo viso, ma che al contempo va oltre il singolo individuo, e non coincide neppure con la cosiddetta "specie" umana. Del resto, vi è la possibilità di un'umanità disumana: l'uomo non è naturalmente umano e umanizzato, così come non è naturalmente libero. L'umanità e la libertà sono conquiste per cui si lotta e doni alla cui accoglienza occorre aprirsi. Si verificano spesso disumanità nella chiesa, nelle relazioni fraterne comunitarie, così come nei rapporti familiari, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra anziani e giovani, e poi nelle relazioni sociali e politiche, così come nelle relazioni più personali e intime, nelle relazioni sessuali, nell'amore (o in ciò che chiamiamo tale). Quante volte dobbiamo constatare che il nemico è l'amico, è il vicino, il familiare, il confratello... Dovremmo imparare pertanto a considerarci ospiti dell'umano che è in noi. Ospiti, non padroni. Così potremmo imparare anche ad aver cura dell'umano che è in noi e a essere solleciti verso l'umano sofferente che è nell'altr014. Forse, l'umano che è in noi è esattamente il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio (cf. Gen 1,26-27). Si comprende come il divenire umani sia per il cristiano l'opera della fede e implichi l'obbedienza alla parola del Dio creatore che ha detto: "Facciamo l'uomo" (Gen 1,26). Anche noi, anche gli uomini, sono implicati in quel "facciamo"! L'uomo è chiamato a collaborare con Dio affinché cresca in lui quell'umanità che è il vero riflesso della luce divina nel mondo, è il luogo di Dio nel mondo, luogo che - come l'azione dello Spirito - va ben oltre le confessioni cristiane e gli spazi ecclesiali! Umanità che non può essere eliminata neppure dalla più devastante sofferenza. E la sofferenza, nei suoi molteplici volti, è oramai appello al credente perché risvegli la propria umanità rendendola sempre più conforme a quella di Cristo (15).
Una poesia di Dietrich Bonhoeffer, intitolata Cristiani e pagani, mi pare che si presti bene a chiudere questa introduzione e a condurre alla lettura delle pagine successive:





Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l'anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona 
(16).








[1] Cf. v. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998.[2] S. Natoli, "Rimozione della morte ed epopea del macabro", in Parola, Spirito e Vita 32 (I995), pp. 341-358.
[3] U. Galimberti, "Pantani nel deserto dei depressi", in La Repubblica, I8 febbraio 2004.[4] C. Chalier, Sagesse des senso Le regard et l'écoute dans la tradition hébraique, Albin Miche!, Paris 1995, p. 91.
[5] U. Galimberti, "Pantani ne! deserto dei depressi".[6] E. Lévinas, Etica e infinito. Il Volto dell'Altro come alterità etica e traccia dell'Infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 100.
[7] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, p. 42.
[8] D. Le Breton, Des visages. Essai d'anthropologie, Métailié, Paris 1992, p. 287.
[9] E. Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, p. 112.
[10] B. Spinelli, "Saddam, i due minuti di odio", in La Stampa, 21 dicembre 2003.
[11] T. Jansson, Racconti dalla valle dei Mumin, Salani, Firenze I995.
[12] Si veda l'edizione critica: D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, a cura di C. Gremmels, E. e R. Bethge, in collaborazione con I. Tödt, Queriniana, Brescia 2002, p. 504, n. 7.
[13] Ibid., p. 499.
[14] Cf. P. Sequeri, L'umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002.
[15] Cf. L. Manicardi, L'umanità della fede, Qiqajon, Bose 2005 (Testi di meditazione 123).
[16] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, pp. 480-481.


BIBLIOGRAFIA
In questa breve bibliografia riporto solamente titoli di opere non citate nelle note del libro.


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NELLA MALATTIA


La malattia come evento spirituale


Che significa parlare della malattia come evento spirituale? Anzitutto non significa discettare su un'ipotetica "spiritualità del malato". Sono i malati stessi a rifiutare questa ipotesi ghettizzante, stando almeno alle parole dell'Union catholique des malades:
Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono una cappella d'infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di una spiritualità ecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una nuova scuola di spiritualità, in cui tutti i problemi della vita siano esaminati e adattati alla situazione di coloro che hanno familiarità con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto attraverso un'ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta di rivolgersi a noi e di parlarci "in quanto malati" come se non si volesse sapere null' altro di noi; prima di essere malati, siamo degli uomini e dei figli di Dio ... Dovunque altrove, nella famiglia, nella professione, nella città, siamo forzatamente distaccati dalle attività comuni, un po' messi a parte, se non tenuti in disparte. Il sentimento di questa distinzione, di questo isolamento e di questa inutilità è forse ciò che vi è di più penoso nella malattia. Perché volerei mettere ancora a parte anche nella chiesa (1)?


Unica è infatti la spiritualità cristiana, e il battezzato, con il suo sensus fidei, cercherà di vivere in Cristo ogni situazione della sua vita.
La malattia si presenta come evento spirituale anzitutto in quanto fa emergere o risveglia nei malati stessi una dimensione spirituale prettamente antropologica che si pone sul piano del senso della vita e dei valori dell' esistenza. Mostrando che l'uomo non ha potere su di sé, che la vita e la salute non sono realtà scontate né dovute né immediatamente disponibili, la malattia guida l'uomo a un ri-centramento, a considerare ciò che nella vita è veramente serio ed essenziale. Nella malattia emerge la domanda spirituale dell'uomo, o meglio, l'uomo stesso si manifesta come domanda di senso, come bisogno di riconoscimento personale, come appello che chiede ascolto, come desiderio di gratuità, come esigenza di presenza. Il malato non è riducibile alla parte del corpo o all' arto menomato, ma è
 una totalità sofferente. La malattia, infatti, investe il piano fisico e psichico dell'uomo, e mette in crisi i valori e le scelte, le relazioni e le attività che hanno presieduto a un'intera vita. Insomma, questa dimensione spirituale è a monte delle forme religiose del trascendente e diviene nel malato il compito umanissimo di dotare di senso la malattia (2).Questo faticoso cammino non è certo risparmiato al cristiano il quale non conosce vie che aggirino o evitino il dolore, ma solo una via che lo attraversa insieme con il Dio a cui egli può sempre rivolgersi con la preghiera. Il senso cristiano dell' esperienza di malattia non è già dato, non è una ricetta da applicare impersonalmente, ma avviene nell'incontro fra lo Spirito santo e la particolare umanità del malato, la sua fede, l'ambiente familiare ed ecclesiale che gli è vicino. In base alle sue particolari condizioni psicofisiche e alla sua fede, il malato cercherà di vivere anche la malattia nella fede del Cristo che ha condiviso la totalità della condizione umana, anche la sofferenza e la morte. Allora la malattia potrà essere non solo subita, ma anche vissuta, e vissuta spiritualmente come un'immersione battesimale, come una partecipazione all' evento pasquale. Si tratterà di dare il nome di croce alla propria malattia, cioè di vivere con Cristo nella malattia come nella salute (cf. 1Ts 5,10). Il Cristo crocifisso, infatti, ha abitato le situazioni infernali della sofferenza e della disperazione umana. Allora la malattia può diventare, per il cristiano, una via di coinvolgimento con la morte e resurrezione di Cristo. Il teologo Xavier Thévenot ha distinto tre tempi nella sofferenza accostandoli in modo suggestivo al triduo santo:
Un tempo di "siderazione" in cui si è paralizzati dallo shock, dallo "stupro" della disgrazia che ci coglie (la perdita di un figlio, essere colpiti da una malattia grave, restare handicappati da un grave incidente). All'inizio, una vera sofferenza è sempre troppo forte. Poi, il tempo dell'elaborazione del lutto, in cui si impara a liberarsi dai propri sogni attraverso la rivolta, la depressione, la regressione, eccetera. Un terzo tempo, infine, che è quello del lavoro di Pasqua. Si ritrova qui la struttura del triduo pasquale. Il venerdì santo, in cui si è come schiacciati dall' eccesso rappresentato dal male; il sabato santo che è il tempo del silenzio in cui si riorganizza la propria vita, la propria memoria, le proprie speranze; il tempo di Pasqua che è un tempo di speranza, ma una speranza che non si confonde con il riposo completo. È ancora un lavoro, l'intraprendere un cammino. Il Dio in cui si trova riposo non è affatto un Dio di tutto riposo(3).


Ecco la malattia come evento spirituale! Lo Spirito di Dio e lo spirito dell'uomo (cf. Rm 8,16) cooperano all' elaborazione del senso della malattia: l'uomo assume coscientemente la propria debolezza e infermità aprendosi con la fede e la preghiera all' azione dello Spirito santo che viene in aiuto alla sua debolezza (cf. Rm 8,26) e lo porta a leggere la propria malattia come debolezza in Cristo (cf. 2Cor 13,4).


La reazione alla malattia


Chi legge il libro di Giobbe si trova di fronte alla reazione rabbiosa, alla protesta e alle bestemmie di un uomo di fronte alle sventure della vita e massimamente di fronte alla malattia che l'ha colpito. La malattia sconvolge il quadro familiare in cui Giobbe vive innestando conflitti e tensioni, incomprensioni e insofferenze nelle relazioni con le persone vicine. Il disfarsi del corpo di Giobbe si accompagna ad alterazioni psichiche e alla messa in questione dell'immagine di Dio, creatore del corpo umano stesso. E così vediamo Giobbe che accusa, maledice, protesta contro Dio, così come arriva a litigare e combattere con gli amici che, venutolo a trovare, ben presto si trasformano in suoi nemici (4).
Ora, noi sappiamo che il difficile iter di assunzione di una malattia grave comprende diverse tappe tra cui c'è il momento della protesta, dell'aggressione, della rivolta. È un momento di sfogo emotivo, di scoppio violento dei sentimenti di chi si rende conto di essere effettivamente stato colpito da una malattia grave o di restare paralizzato a causa di un incidente, eccetera. L'aggressione, la rabbia, non avendo un oggetto preciso contro cui indirizzarsi, si scagliano indistintamente contro tutto ciò che si presenta a tiro e tutti possono esserne bersaglio. Tutto può divenire occasione di rimostranza e di lamento. L'aggressione può anche essere portata contro di sé con desideri o manifestazioni di autodistruzione. È dunque particolarmente importante, in questa fase, la vicinanza intelligente delle persone che accompagnano il malato. Non si tratta tanto di zittire le imprecazioni del malato, di soffocare con imbarazzo i suoi lamenti per non disturbare gli altri o per non far fare brutta figura ai parenti, di correggere le cose sconvenienti che il malato pronuncia. Non si tratta cioè di ergere barriere per fermare ciò che deve trovare sfogo. È vero che il malato può dire cose irrazionali o ingiuste, ma è ancor più vero che questa fase di ribellione è un passo importante nel cammino di assunzione della crisi che la malattia comporta, e rientra nella resistenza a cui il malato è chiamato. Il malato cerca, in quel modo, di esprimere ciò che sta accadendo alla sua vita, di dire il proprio dolore, ed è indubbio che questa operazione costituisca la tappa iniziale del cammino verso una possibile guarigione. Il nostro dramma, rispetto a Giobbe e all'uomo biblico in genere, è che l'età moderna ha perso completamente la capacità di esprimere e dare forma ai sentimenti e agli affetti fondamentali della nostra esistenza e del nostro corpo. Nei salmi spesso l'uomo malato grida, urla, sfoga la propria angoscia, chiede "perché", protesta contro Dio: noi oggi, invece, siamo privi di questa facoltà di esprimere la nostra sofferenza. Prima di morire fisicamente moriamo della morte della parola in noi, siamo monchi della capacità di esprimere la sofferenza. La società moderna inibisce la manifestazione del dolore, soffoca la protesta, spegne il lamento, anestetizza e sterilizza non solo gli ambienti ospedalieri, ma anche le emozioni e i sentimenti dei malati. Non si può non ricordare qui come il Salterio sia una riserva di linguaggio e una scuola che può insegnare al malato le parole, la grammatica e la sintassi dell' esprimere la propria sofferenza (5).
E come dimenticare le parole di Giobbe stesso ai suoi amici: "Al malato è dovuta la pietà degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio" (Gb 6,14). E Dio stesso, stando alla finale del libro di Giobbe, gradisce maggiormente le invettive di Giobbe piuttosto che le prediche dei suoi amici (cf. Gb 42,8). Quando il malato vive questi momenti cosi critici, chi gli è vicino e l'accompagna è chiamato al faticoso compito di accoglierlo cosi com'è, per ciò che sente e per come esprime ciò che sente. Quando l'accompagnatore, o colui che sta accanto al malato accetta come un semplice fatto che il malato senta ciò che sente e lo esprima, il malato si sente autorizzato a smettere di tentare di convincerlo e può tentare di cominciare a comprendere che cosa c'è dietro ai suoi sentimenti cosi irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e il malato non ha bisogno di consigli o di risposte di altri. Potrà dare la sua risposta.
Il momento dell' espressione della collera e della protesta sono manifestazioni di vitalità, di reazione e non di resa alla malattia. Allora le lacrime, il pianto, il grido, divengono valvole di sfogo importanti attraverso cui il malato, esprimendo - anche se non con linguaggio discorsivo - la propria sofferenza, manifesta un potere sulla sua malattia. Accogliere il malato anche nella sua ribellione diventa cosi un fattore essenziale per i suoi accompagnatori, affinché il malato stesso non si rinchiuda nella prigione dell'isolamento di chi si ribella contro tutti e contro tutto e neppure resti preda delle spire dell' autodistruzione.


Malattia e preghiera


L'etimologia collega la preghiera alla precarietà. La malattia, che fa sentire all'uomo la precarietà del suo esistere, il suo essere sovrastato da forze che lo dominano e la sua condizione di corpo minacciato, è una situazione in cui a volte anche l'uomo non credente vede sorgere in lui un' apertura al trascendente, una preghiera, o almeno un' attività linguistica che ha un "dio" come destinatario sia di suppliche che di invettive, di invocazioni e di bestemmie. Per il cristiano la preghiera è ricerca di integrazione fra la vita tutta e tutte le situazioni esistenziali, dunque anche la malattia, e il Dio rivelato in Gesù Cristo (6).
Se la preghiera è l'eloquenza della fede, la malattia, che mette in crisi l'integrità psicofisica dell'uomo, costituisce anche una prova della fede, dell'immagine di Dio che il malato nutre, e segna l'inizio di un cammino per rifare l'unità spezzata fra la propria vita personale e l'immagine di Dio, tra fede e vita. Che altro è, infatti, la preghiera se non il cammino in cui il credente, a partire dalle prove della propria vita, purifica e converte le proprie immagini di Dio ponendole davanti al Cristo crocifisso, piena e definitiva rivelazione del volto di Dio?
L'esempio di Paolo è significativo. Afflitto da una "spina nella carne" che con tutta probabilità consiste in una malattia, egli prega intensamente il Signore di liberarlo da questa sofferenza, ma la sua preghiera incontra questa risposta del Signore: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9). La preghiera di Paolo resta non esaudita, ma non inefficace: essa infatti porta Paolo ad accogliere la volontà di Dio e a mutare la sua immagine di Dio vedendosi maggiormente conformato all'immagine di Dio che è il Cristo crocifisso. La preghiera cristiana aiuta la conformazione del credente al Cristo crocifisso.
Abbiamo qui un criterio importante della preghiera cristiana e della preghiera di domanda in particolare. La preghiera esprime una relazione filiale e manifesta la fiducia con cui un figlio si rivolge al Padre: in questa relazione tutto può essere chiesto, anche - ovviamente - la guarigione, non solo la forza di sopportare la prova. Del resto, quando l'uomo prega porta tutto se stesso nella preghiera, anche il desiderio di pienezza di vita, anche le persone con cui vive o ha vissuto, anche la sua storia passata e il suo anelito di futuro. L'Antico e il Nuovo Testamento sono pieni di domande di guarigione rivolte a Dio e a Gesù e la tradizione cristiana ha forgiato quell'immagine del "Cristo medico" cui sono rivolte bellissime preghiere e in base alla quale Ambrogio scrive: "Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se bruci dalla febbre, egli è la fonte d'acqua; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita" (7).
Al tempo stesso, la relazione di filialità espressa nella preghiera all'Abba, trova per il cristiano un esempio normante nella preghiera del Figlio, Gesù Cristo. E la preghiera di Gesù al Getsemani chiede sì che, se possibile, il calice passi da lui, ma subito aggiunge: "Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36), "Non come voglio io, ma come vuoi tu" (Mt 26,39). Vi sono un modo e un contenuto che rappresentano i limiti al cui interno la preghiera cristiana di domanda deve sempre accettare di avvenire: modo e contenuto che si sintetizzano nella croce di Cristo. La preghiera cristiana non chiede che Dio faccia la volontà dell'uomo, ma porta l'uomo a discernere e a sottomettersi alla volontà di Dio. La preghiera del malato è dunque anche una lotta nella quale egli potrà arrivare a dare il nome di croce alla propria malattia che non guarisce.
In questo suo cammino faticoso è certamente consigliabile al malato la preghiera dei salmi: questi, infatti, rappresentano una riserva di linguaggio estremamente ricca per uomini moderni che sono incapaci di "dire" la sofferenza, di "dire" il proprio corpo (il malato che prega nei salmi sempre legge e dice il proprio corpo, mostrando così che pregare è leggere la propria situazione esistenziale davanti a Dio per vivere in obbedienza a Dio), e di dirli "davanti a Dio". I salmi, in cui spesso l' orante prega a partire da una situazione di sofferenza, sono al tempo stesso una testimonianza e un modello: testimonianza di chi si trova nella malattia o l'ha traversata, modello per chi oggi vive un' analoga esperienza e, mediante l'appropriazione, trova nelle parole del salmo le parole con cui dire la sua situazione. Certo, normalmente la malattia fa emergere la qualità e la misura di preghiera cui si era abituati: se non si è mai pregato, sarà difficile inventare la preghiera nei momenti più critici. Ma anche quando non si sa o non si riesce a esprimere verbalmente una preghiera, per mancanza di forze, per impotenza, la fede riconosce che il malato, nella sua stessa debolezza e fragilità, è supplica vivente rivolta al Signore, è preghiera.
L'accompagnatore poi, che ha a lungo ascoltato il malato, può arrivare a discernere se è possibile proporre al malato di pregare insieme, di ascoltare insieme la parola del Signore contenuta nella Scrittura, nei vangeli. E comunque l'accompagnatore potrà sempre pregare intimamente, in cuor suo, di fronte alla non disponibilità del malato. Di certo, l'accompagnatore è chiamato a stare vicino al malato anche nella distanza da lui, e questo con l'intercessione. Nell'intercessione, nel ricordare davanti al Signore il malato, l' orante ottiene in dono uno sguardo rinnovato e purificato su di lui, uno sguardo più conforme allo sguardo di Dio stesso.
E non si dimentichi mai che la preghiera per il malato e con il malato non può non rivestire una dimensione ecclesiale: una comunità cristiana locale che si riunisca in preghiera attorno a un malato riconosce nella sua persona il sacramento del Cristo che edifica la comunità con la potenza della sua debolezza.


I salmi dei malati


All'interno del Salterio vi sono alcuni salmi pronunciati da uomini malati (8). Vi possiamo annoverare almeno i salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri salmi (ad esempio, salmo 107,17-22), e ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per "dirci nella malattia", per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dare forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza, per parlare a Dio o, almeno, cercarne il volto, nella situazione di angoscia e dolore. Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di "linguaggi della sofferenza", estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell'afasia, nell'incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l'uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (cf. Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in salmo 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso salmo 88)9, è protesta che chiede conto a Dio ("Perché": Sal 22,2; "Fino a quando?": Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (cf. Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (cf. Sal 5,2), è pianto (cf. Sal 6,7-9).
Chi prega, infatti, nei salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo. L'esperienza di malattia costringe l'uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l'orante dei salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all' orizzontalità che anticipa la morte (cf. Sal 6,3; 102,4). Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l'orante che si sente privato dell'integrità della vita (cf. Sal 13,4; 38,11; 88,10). L'orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell' angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell' aridità di chi soffre la sete (cf. Sal 31,10: accanto a "occhi" e "ventre" è ovvio che l'ebraico nefesh significa" gola", non" anima" come traduce la Bibbia CEI). Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l'uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell' energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno (cf. Sal 22,15; 38,11; 102,5). La carne in cui non c'è più nulla di sano (cf. Sal 38,4.8), i fianchi che ardono infiammati (cf. Sal 38,8), il ventre torturato dalla pena (cf. Sal 31,10), le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l' orante cerca di ritrovare davanti a Dio l'unità vitale infranta dalla malattia. Pregare i salmi manifesta dunque un aspetto liberante che
consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter "parlare" ciò di cui abbiamo preso l'abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale (10).
E i salmi ci ricordano che l' orante è un corpo orante:


Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all' anima, ma al contrario, perché l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di "mormorio", "sussurro". Il corpo è il luogo dell' anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: "Tutte le mie ossa diranno: 'Chi è come te, Signore?'" (Sal 35,10) (11).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l' orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: nel salmo 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui sta il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto sta il tempo di Dio, colui "i cui anni non hanno fine" e a cui egli si rivolge chiedendo che "presto" intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere... Le notti insonni, l'alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l'angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con cui si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il salmista nella sua malattia.
Nei salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l'orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell' esistenza di un uomo. Là dove c'è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi salmi l'orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cf. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di "morte nella vita" (12).
La supplica, dunque, linguaggio dell'uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita ("Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore": Sal 115,17-18).
Ma forse, l'elemento che più colpisce all'interno dei salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso. Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l' orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all'interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose. Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l'uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimesso nelle mani del Signore della vita e recuperato al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All' orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i salmi, "perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie" (Sal 103,3)13.


Fede e guarigione


Carissima Chiara, condivido la tua convinzione che lo sviluppo e l'evoluzione delle malattie subisce forti influssi da parte del cervello delle persone ammalate. In particolare questo è vero quando si tratta di patologie nelle quali è coinvolto il sistema immunitario come appunto la xxx. Ne consegue che nella storia della tua malattia ha certamente influito 1'atteggiamento "attivo" da te sempre mantenuto nel contrastarne la progressione... La tua fiducia tanto volitiva da apparire talvolta caparbia, indipendentemente da quale ne sia la fonte (la fede in un Dio misericordioso, il tuo forte carattere, la tua formazione o altro), secondo il mio modesto parere di medico curante ha senza dubbio contribuito a migliorare la prognosi inizialmente pessimistica dell'illustre immunologo (un' aspettativa valutata al di sotto dei dieci anni) che per primo confermò il mio sospetto clinico ... Non so se fede e volontà possano effettivamente modificare l'attività del sistema immunitario tanto da alterare l'evoluzione naturale di malattie come la xxx, posso comunque testimoniare che l'evoluzione della tua malattia è stata fortemente condizionata dal tuo modo di affrontarla (14).
Con queste parole dello specialista che l'ha seguita fin dagli inizi della sua malattia vent' anni prima, termina il libro di Chiara M. in cui l'autrice presenta, attraverso stralci dai suoi diari e brani di lettere scritte a diversi amici (tra cui spicca Chiara Lubich), la vicenda drammatica e luminosa dell'insorgere e aggravarsi di una rara malattia sempre vissuta nella fede cristiana e con fiducia verso il futuro. Un libro che costituisce una testimonianza di fede preziosa capace di dare conforto e speranza a chi vive situazioni di malattia che conducono a gravi forme di disabilità, ma anche e soprattutto una lezione di fede e di essenzialità verso chi è in buona salute.
E le parole finali del medico curante pongono l'accento sull'impatto che la fede può avere nel decorso di una malattia. Ora, che il "fattore fede" (si tratti semplicemente di fede-fiducia nella medicina, nel metodo terapeutico usato, nel personale medico curante o di fede religiosa) intervenga nel processo di guarigione di una persona è asserito in ambito medico soprattutto là dove si attua un approccio olistico alla malattia in cui il medico e il personale curante si aprono anche al mondo spirituale e psichico del paziente e tengono conto del rapporto di interazione mente-corpo. Allora si può vedere come il "fattore fede" possa intervenire nella guarigione del paziente o in una prolungata remissione della malattia o in una sopravvivenza molto più lunga rispetto a quella deducibile dalle statistiche o ipotizzata inizialmente dai medici (15).
Ora, il rapporto tra fede e guarigione è attestato esplicitamente più volte nei vangeli: Marco 9,23-24 (prima della guarigione del ragazzo epilettico Gesù dice al padre del ragazzo: "Tutto è possibile a chi crede" e questi risponde: "Credo! Aiuta la mia incredulità!"); Matteo 15,28 (alla donna cananea che lo supplica di guarire sua figlia, Gesù dice: "O donna, la tua fede è grande"); 8,13 (la guarigione del servo del centurione è preceduta dalle parole di Gesù: "Va', ti avvenga come hai creduto"); 9,22 (la guarigione della donna emorroissa è accompagnata dalle parole di Gesù: "Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata"); 9,28-29 (a due ciechi che lo supplicano Gesù chiede: "Credete che io possa fare ciò?" ed essi rispondono: "Si, Signore"; e Gesù a loro: "Vi avvenga secondo la vostra fede"); Luca 17, 19 (al lebbroso che, vistosi guarito, torna a ringraziarlo, Gesù dice: "La tua fede ti ha salvato").
Gli stessi racconti evangelici delle guarigioni operate da Gesù presentano una struttura dialogica in cui Gesù non guarisce in modo magico, ma sempre costruendo una relazione autentica con il malato o con colui che intercede per il malato, sicché l'uomo non è mai puramente passivo in queste narrazioni, ma opera in sinergia con Gesù con la fede e la preghiera. Questo è talmente vero che alcuni di questi racconti, come la guarigione della figlia della donna straniera (una sirofenicia in Marco 7,24-30, una cananea in Matteo 15,21-28) autorizzano la domanda: chi ha compiuto il miracolo e chi ha creduto?
In Marco 7,24-30 Gesù, di fronte a una donna sirofenicia che lo supplica di guarire la figlia, reagisce ricordando alla straniera che l'economia della salvezza conosce la priorità di Israele sulle genti. "Prima" Israele, poi le genti: "Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". La donna riprende logica e immagini di Gesù, operando però una variante che spiazza Gesù stesso e che si rivela vincente. Poiché sul piano dei tempi della storia di salvezza (prima i giudei, poi i pagani) la donna non ha alcuna possibilità di vittoria, ella, riprendendo la parola di Gesù sui cagnolini sposta la questione sul piano dello spazio delle genti: "I cagnolini sotto la tavola". La donna mostra il suo rispetto per il piano di salvezza, accoglie le parole di Gesù (anche quella sui" cani", termine applicato in ambiente giudaico alle genti) e, con umiltà, sposta il discorso sul terreno dello spazio che appartiene alle genti. A quel punto Gesù sposa le parole e il comportamento della donna e, dichiarandosi vinto, le annuncia la guarigione della figlia a causa della parola che lei stessa ha pronunciato. La redazione di Matteo (15,21-28) sottolinea l'ostinazione della donna che non si scoraggia di fronte al rifiuto di risponderle anche una sola parola da parte di Gesù, poi al fastidio che provoca nei discepoli, e infine alle parole di Gesù che sembrano escludenti e senza speranza per lei. Ma è Gesù che deve poi arrendersi e riconoscere la grandezza della fede della donna: la testardaggine si è rivelata segno di fede grande, coraggiosa e perseverante. La guarigione avviene conformemente alla volontà della donna ("Ti avvenga come vuoi"). Quasi che Gesù dicesse: "Sia fatta la tua volontà". Anche qui sorge la domanda: a chi va attribuita la guarigione? Chi la compie (16)?
Ora, secondo questi racconti evangelici la fede comporta alcuni elementi.
La volontà di guarire. Il desiderio di vivere e l'atto di concentrare le proprie energie interiori e spirituali verso questo fine è un elemento spesso attestato nei racconti di guarigione. La volontà di vivere non è un' astrazione teorica, ma una realtà anche fisiologica che possiede caratteristiche terapeutiche (17).
La collaborazione per guarire. Nelle guarigioni di Gesù è sempre attiva la sinergia tra malato e Gesù. In Marco 8,22-26 questa collaborazione è plasticamente espressa: il cieco si lascia condurre fuori dal villaggio, si lascia mettere la saliva sugli occhi, risponde alle domande che Gesù gli pone, accetta la ripetizione dei gesti terapeutici. Insomma si lascia prendere per mano da Gesù (cf. Mc 8,23).
La preghiera. La preghiera (si pensi soprattutto ai salmi) come protesta e invocazione, come espressione di speranza o grido angosciato che crede e cerca un interlocutore capace di intervenire, è passo importante di guarigione, esprime la volontà di non darla vinta al male, è reazione vitale e atto in cui si nomina ciò che sta avvenendo alla propria vita e lo si porta davanti a Dio.
L'abbandono fiducioso. Rimettersi al Signore in un abbandono fiducioso e sereno (cf. Sal 131; Rm 8,35) comporta l'accettazione di sé e la gratitudine per il Signore, e questo diviene forza vitale nel credente: "Per avere un effetto risanatore, la fede deve essere un abbandono fiducioso alla provvidenza di Dio" (18).
Credere anche quando tutto sembra perduto. La fede cristiana, che crede la resurrezione dai morti e confessa il Crocifisso-Risorto quale salvatore del mondo, è forza capace di traversare le tenebre, è luce nelle tenebre. Si può applicare alla fede e alla sua forza terapeutica quanto fu scritto da una vittima della shoah: "Credo al sole anche quando non brilla, credo all' amore anche quando non si mostra, credo in Dio anche quando tace" (19).
L'intercessione. La fede degli altri, di coloro che portano il malato a Gesù o pregano Gesù perché guarisca il malato sono un elemento che interviene con efficacia nei racconti evangelici e che mostra come la struttura dialogica dei racconti di guarigione sia la struttura stessa dell' amore. E che la forza della fede è nell'amore che la abita e la muove.











[1] L. Lochet, "Au service des malades: l'Union catholique des malades", in La Vie Spirituelle 353 (1950), pp. 63-64.
[2] Cf. V. E. Frankl, Homo patiens.
[3] X. Thévenot, "Une véritable provocation au changement", in L'Actualité Religieuse dans le Monde 75 (I990), pp. 26-27.
[4] Cf. G. Ravasi, Giobbe, Boria, Roma I979; Ph. Nemo, Giobbe e l'eccesso del male, Città Nuova, Roma I98I; M. Ciampa, Domande a Giobbe. Modernità e dolore, Bruno Mondadori, Milano 2005.
[5] Cf. B. Bozak. "Suffering and the Psalms of Lament. Speech for the Speechless, Power for the Powerless", in Église et Théologie 23 (1992), pp. 325-338.
[6] Cf. E. Bianchi, s. v. "Preghiera", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, a cura di G. Cinà, E. Lacci, C. Rocchetta e L. Sandrin, Edizioni Camilliane, Torino 1997, pp. 927-937.
[7] Ambrogio, Sulla verginità 16,99.
[8] Cf. H. Duesberg, Le Psautier des malades, Éditions de Maredsous, Maredsous 1952; L. Manicardi, "Il Salterio dei malati", in Parola, Spirito e Vita 40 (1999), pp. 41-63.
[9] Cf. Id., '''Perché, Signore, mi respingi?' (Sal 88)", in Parola, Spirito e Vita 30 (1994), pp. 61-80.
[10] M. Collin, Le livre des Psaumes, Cerf, Paris 1995, pp. 52-53.
[11] P. Beauchamp, "La prière à l'école des Psaumes", in Concordance de la Bible. Les Psaumes, a cura di O. Odelain e R. Séguineau, Desclée de Brouwer, Paris 1980, p. XVII.
[12] Cf. H.-J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, pp. 270-272.
[13] Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere. Saggio di filosofia morale, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 163-170.
[14] Chiara M., Crudele dolcissimo amore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 251-252.
[15] Cf. Th. A. Droege, The Faith Factor in Healing, Trinity Press lnternational, Philadelphia I99I; H. Benson, The Mind-Body Effect, Simon & Schuster, New York I979; N. Cousins, Head First: the Biology of Hope and the Healing Power of the Human Spirit, Penguin Books, New York I990.
[16] Cf. E. Pousset, "Les récits de guérison dans les évangiles synoptiques. Essai de lecture et conséquences théologiques", in Atelier de théologie du Centre Sèvres, La guérison du corps, MédiaSèvres, Paris 1992, pp. 95-110.
[17] Cf. N. Cousins, La volonté de guérir, Seuil, Paris 1980.
[18] K. Rahner, "Potere di guarigione ed energia risanatrice della fede", in Id., Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 19692, p. 505.
[19] Citato in B. Siegel, L'amour, la médecine et les miracles, Robert Laffont, Paris 1989, p. 184.






ACCANTO AL  MALATO
Accompagnare il malato
Oramai da alcuni decenni l'espressione" accompagnamento del malato" si è venuta diffondendo negli ambienti della pastorale sanitaria e in tutti quegli ambienti interessati a umanizzare la situazione di sofferenza in cui il malato si trova (1). Di che cosa si tratta? Non si tratta di una relazione tra funzioni o ruoli (medico-malato), ma tra persone: essa afferma il primato della relazione e la qualità personale del malato. Non è una prestazione che debba venire remunerata con denaro, ma sta nello spazio della gratuità. Non è una visita occasionale, ma si inscrive nella durata ed esige la fedeltà e la perseveranza dell'accompagnatore. Non è lasciata semplicemente alla spontaneità, ma è una scelta: e una scelta sia da parte del malato (che desidera tale accompagnamento o accetta la proposta di essere accompagnato) che dell'accompagnatore (che fa di tale attività un atto di libertà e di responsabilità e che deve anche essere aperto a ricevere dei rifiuti da parte del malato). Non è una scienza, ma un'arte che si impara giorno dopo giorno. Non è tanto una "buona azione", quanto una "buona relazione", o almeno la faticosa e quotidiana costruzione di tale relazione buona. Essa è pertanto molto esigente, coinvolgente, e non può essere lasciata semplicemente all'improvvisazione. Essendo anzitutto una relazione in cui l'accompagnatore si pone in una situazione di radicale accoglienza e ascolto del malato, essa esige da lui una profonda qualità umana. E anzitutto richiede conoscenza di sé e l'attitudine a quel lavoro interiore che porta alla chiarificazione dei motivi che spingono una persona a volersi impegnare in tale relazione. Si tratterà infatti di divenire "presenza" per il malato, ma mantenendo quella distanza salutare che impedisce la fusionalità, custodisce la libertà del malato e mantiene la relazione in uno spazio di autenticità. Inoltre questa distanza assicura anche all' accompagnatore momenti e tempi di "respiro", di tranquillità con se stesso. Infatti, la relazione di accompagnamento di un malato impegna profondamente anche a livello emotivo e l'accompagnatore dovrà saper essere maturo ed equilibrato in questo gioco relazionale: capace di lasciare trasparire le proprie emozioni all'interno di una comunicazione sincera, ma anche di non lasciarsene travolgere o di non turbare il malato con un' emozionalità non controllata. Questa conoscenza della propria umanità è dunque un requisito essenziale per un accompagnatore.
L'autenticità deve sempre trasparire nell' agire e nella persona dell'accompagnatore: se l'accompagnamento è vissuto come un dovere, fosse pure santo e virtuoso, esso entra nell'inautenticità; se l'accompagnatore ha come obiettivo quello di "convertire" il malato o di convincerlo a "diventare come lui", non fa opera di accompagnamento, ma di sciacallaggio. L'accompagnatore deve poi sapere che la difficile relazione in cui si è impegnato richiede pazienza, attesa dei tempi dell'altro, il rimettersi al malato come guida della relazione (così che anche l'accompagnatore si trova a sua volta accompagnato). L'ascolto del racconto del malato esige molta attenzione e un atteggiamento di accoglienza. Certo, non sempre l'incontro sarà abitato da parole e si esprimerà in un colloquio (2), ma l'ascolto richiede attenzione anche al linguaggio del corpo, ai lineamenti del viso, agli sguardi: il corpo, infatti, è trasparenza delle emozioni, soprattutto quando ci si trova in situazioni di debolezza e di sofferenza, e chi ha praticato accompagnamento di malati conosce l'intensità di comunicazione che può essere raggiunta da uno sguardo o da un contatto tattile. Conoscere le proprie facoltà sensoriali, le proprie capacità mentali, la propria intelligenza e la propria volontà, deve andare di pari passo con la conoscenza dei propri limiti e delle proprie fragilità e debolezze, che divengono anche l'umile coscienza dei limiti del proprio accompagnamento: conoscendo i nostri limiti sapremo di non essere onnipotenti, di non poter seguire tutti i malati, e sapremo soprattutto quali sono le nostre deficienze in quelle relazioni in cui ci impegneremo. Inoltre, nella coscienza della propria reale debolezza ci si situa nella propria intima verità e ci si rende più vicini a colui che vive la debolezza della malattia. L'accompagnatore deve anche riconoscere diritto di esistenza e di ospitalità al sentimento di stanchezza o al senso di affaticamento che vede eventualmente nascere in sé nei confronti del malato, a quei sentimenti e a quelle emozioni che potrebbero ingenerare una colpevolizzazione, ma che vanno riconosciuti, nominati e affrontati. Insomma, egli non deve temere la propria umanità (3).
L'accompagnatore spesso non ha competenze mediche o psicologiche specifiche, ma deve avere una competenza umana che renda significativa la sua relazione con il malato. Poi, è certamente necessario un approfondimento della conoscenza di "ciò che avviene" durante una relazione di aiuto ed è bene approfondire la conoscenza dell' ambiente in cui vive il malato e del suo funzionamento; è bene intrattenere relazioni con il personale medico e infermieristico che ha rapporti con il malato; è cosa buona se si riesce a instaurare un legame cordiale con i familiari del malato... Insomma, sono necessarie l'apertura e la disponibilità a un lavoro di formazione {studio e acquisizione di competenze, ma anche duttilità umana e creazione di rapporti} continuo: può essere "accompagnatore" solo colui che è "in cammino". Si tratta infatti di camminare accanto a qualcuno per un tratto di strada, e una strada particolarmente accidentata come quella della malattia. Sempre rispettando la volontà del malato, l'accompagnatore potrà veder venire il momento in cui proporre una preghiera insieme o l'accostamento a un gesto sacramentale. Certo, nulla può essere predeterminato nel cammino di accompagnamento del malato, ma occorre disponibilità illimitata verso il volere del malato e apertura all' azione dello Spirito santo, prontezza di spirito e creatività!
Infine, è importante ricordare che 1'accompagnatore non è isolato, non agisce individualisticamente, in proprio nome, ma a nome di un'istituzione, e l'accompagnatore cristiano compie un' azione ecclesiale, opera a nome della comunità cristiana, e pertanto cercherà sempre di comportarsi come "inviato" che agisce a nome della chiesa e di vivere la relazione con il malato come una relazione a tre, in cui il Terzo presente fra lui e il malato è il Signore stesso.
Visitare il malato
Due testi biblici, uno dell'AT e uno del NT, attestano l'estrema importanza della visita al malato (4). In Siracide 7,35 si esorta: "Non esitare nel visitare gli ammalati, perché per questo sarai amato". Il testo significa che, visitando il malato, l'uomo obbedisce al comando di amare il prossimo ed è a sua volta riamato. In Matteo 25,36 Gesù, giudice escatologico, proclama: "Ero malato e mi avete visitato". La visita al malato diviene incontro misterioso eppure reale con il Cristo presente nel malato: visitando il malato, si fa l'esperienza del Cristo che ci visita nel malato stesso. Eppure la Bibbia attesta che la visita al malato è operazione delicatissima e rischiosa: i conoscenti che visitano il malato nel salmo 41 diventano i suoi nemici; gli amici che visitano Giobbe in realtà falliscono l'incontro e sono percepiti da Giobbe come "medici da nulla" (Gb 13,4), "consolatori stucchevoli" (Gb 16,2), "raffazzonatori di menzogne" (Gb 13,4), come presenze moleste e nemiche. L'esempio del loro fallimento è istruttivo per molti che volendo fare un' opera di misericordia corporale pensano che basti la buona intenzione di "fare" tale visita per aver compiuto il bene. Ma la visita al malato non va da sé: è sempre difficile incontrare l'altro, ma ancor più difficile è incontrare in verità il malato. L'errore degli amici di Giobbe, che spesso è il nostro, consiste nel presentarsi al malato come "salvatori", cioè nella convinzione di sapere, meglio del malato stesso, ciò che il malato deve fare; nella certezza che, visitando il malato, si sta facendo il bene per lui e davanti a Dio; che si è senza dubbio capaci di consolarlo e di aiutarlo. Spesso poi si va dal malato "a mani piene" e non "a mani vuote": cioè, armati di strumenti (Bibbia, libro spirituale, doni, eccetera) che più che aiutare un incontro autentico, diventano elementi di difesa e di presa di distanza dall'impotenza del malato. Andando dal malato come "salvatori" gli amici di Giobbe innescano un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori e finendo per divenire a loro volta i bersagli delle accuse e del risentimento di Giobbe. Così ciascuno dei due attori del dramma (visitatore e malato) appare di volta in volta persecutore e vittima, a partire dalla pretesa del visitatore di essere salvatore, dunque figura di cui il malato ha bisogno. Ma una relazione di necessità e di bisogno esce dalla gratuità e dalla libertà che sono essenziali alla sua riuscita. Per visitare il malato occorre entrare nell' ottica che non si ha potere sul malato e che solo tentando di condividere, per quanto possibile, la sua impotenza e la sua debolezza, lo si potrà incontrare.
Occorre comprendere che il capezzale del malato non è il luogo per una predica o per una lezione di morale o di teologia e che la debolezza del malato non può divenire l'inconscia conferma della propria forza. La visita al malato si situa nello spazio dell'incontro significativo per l'altro, incontro che fa emergere la qualità personale del malato: egli non è un "numero" o un "caso clinico", ma una persona che vive il drammatico oggi della malattia (5). Guai se la visita divenisse l'occasione con cui il visitatore si sente valorizzato dalla debolezza del malato e rafforzato nella sua significatività! È al malato che si deve lasciare guidare la visita, è lui che deve essere ascoltato, è a lui che deve essere lasciata la parola, è lui il maestro da ascoltare: è in lui che si identifica il Cristo, non nel visitatore (cf. Mt 25,36).
Se poi la visita avviene a domicilio, nella casa del malato, allora ci si deve assolutamente attenere, con infinita discrezione, al quadro relazionale posto dal malato: i muri della sua casa sono impregnati di ricordi significativi, sono ricchi di storia affettiva, sono lo spazio vitale del malato. Va poi tenuto conto della inevitabile asimmetria tra malato e visitatore: quest'ultimo fa parte del mondo dei "sani"; quando si avvicina al malato che giace nel letto rischia di guardarlo dall'alto in basso, visibilizzando così il potere che ha sul malato: chiunque accompagni un malato sa che deve chinarsi e porsi al livello degli occhi del malato per poter comunicare con lui. Il malato - e qui emerge la fatica della visita autentica - chiede al visitatore di abbassarsi, di indebolirsi, di impoverirsi, gli chiede di entrare in una comunicazione fatta non solo e non tanto di parole, ma soprattutto di silenzio vigile, di ascolto, di discernimento del linguaggio del proprio corpo. Soprattutto nelle situazioni estreme si comunica con gli occhi e con le mani, con lo sguardo e con il tatto. Il malato, che spesso è un corpo manipolato e costretto a subire approcci tattili che, pur essendo curativi, sono intrusivi e aggressivi, vedendosi destinatario di gesti di tenerezza e delicatezza, si sente accolto nel suo corpo debole e dunque rispettato nell'intimità del suo essere personale. Così è essenziale al malato il sentirsi accolto nei suoi stati emozionali senza alcun atteggiamento di censura da parte del visitatore. Se la visita al malato è così delicata, è bene non lasciarla in balia dell'improvvisazione e delle buone intenzioni senza discernimento, ma occorrerà sempre, almeno, porsi due domande: perché vado a visitare un malato? Come lo visito? Allora si comprenderà come l'arte della visita all'uomo nella malattia non è solo qualcosa da fare, un'opera facendo la quale noi compiamo il bene sempre e comunque, ma un evento che richiede un profondo lavoro su di sé e un discernimento su ciò che ci abita, sulle motivazioni profonde che ci guidano; in definitiva, su chi siamo e sul senso che hanno gli altri per noi.
Condividere la verità del malato
Un testo biblico presenta una situazione che spesso, anche oggi, il malato vive con profonda angoscia. Si tratta del salmo 41, in cui un uomo malato viene visitato da conoscenti. Dice quest'uomo dei suoi visitatori:
Chi viene a visitarmi dice parole false,
raccoglie cattiverie nel suo cuore
e, uscito, sparla nelle piazze.
Contro di me mormorano i miei nemici:
"L'ha colpito un male incurabile,
non si alzerà più dal letto in cui giace"
 (Sal 41,7-9).
Il malato sente come nemici i suoi visitatori. Perché? Perché egli percepisce che essi si comportano con lui in modo non limpido: dicono il falso, oppure sanno ma non dicono. Con lui si esprimono con parole false, o forse, meglio, inconsistenti, cioè con parole banalmente rassicuranti ("Vedrai che presto ritorni a casa", "Ti vedo meglio"), con parole che parlano di un futuro che in realtà non ci sarà e a cui essi stessi non credono, tant'è vero che, usciti fuori, esprimono ciò che veramente pensano, ovvero che il malato non ha scampo né speranza ("Hai visto com' è ridotto?", "Poverino, non gli resta molto da vivere"). Dietro alle parole di circostanza, vuote, non all' altezza della gravità dell'evento della malattia e dell' approssimarsi della morte di un uomo, si nasconde la rimozione della morte e la non volontà di farvi i conti. Il malato però intuisce la doppiezza e la falsità dei suoi amici-nemici e questo lo deprime, lo avvilisce e lo irrita (6).
Siamo di fronte al difficile problema della comunicazione al malato della reale gravità della sua malattia, soprattutto quando si ha a che fare con una prognosi infausta (ad esempio, il cancro), problema che crea alcune delle più penose situazioni che si verificano al capezzale di un malato: la congiura del silenzio, l'inganno pietoso, la creazione di un clima di ipocrisia in nome di un malinteso affetto nei confronti del malato, i silenzi imbarazzati, le risposte evasive, le frasi che spengono le domande insistenti del malato ("Ma cosa dici?", "Non pensare a queste cose..."), l'umiliante paternalismo. Tutto questo accresce l'insicurezza del malato, alimenta i suoi dubbi e soprattutto lo lascia solo in un momento critico e decisivo della sua esistenza facendolo magari sentire tradito dai suoi stessi cari. Ovviamente su questo problema, impropriamente chiamato della "comunicazione della verità al malato", non esiste alcuna legge da applicare astrattamente: occorrerà sempre vagliare caso per caso, ascoltare ogni malato e adattarsi al suo linguaggio e alle sue modalità recettive tenendo presenti le sue condizioni psicologiche, la sua eventuale fede cristiana, la sua levatura culturale, la sua capacità di ricevere e assumere positivamente la comunicazione anche infausta (a volte questa comunicazione e la sua stessa modalità può causare stati depressivi o pulsione di suicidio) (7). Si tratterà perciò di una comunicazione graduale, personalizzata, in cui dovranno essere coinvolti non solo i medici e il personale sanitario, ma anche i familiari, le persone care, soprattutto le persone rilevanti e significative affettivamente per il malato. Solo da chi conosce e ama il malato (e anche dal personale curante, se ha stabilito rapporti di stima e fiducia, di rispetto e confidenza con il malato) potrà venire non una brutale sentenza di morte, ma una comunicazione compartecipata e compassionevole (8). Occorre inoltre tener presente che il malato intuisce e sa, molto più di quanto si sia disposti a credere, la sua malattia e il suo reale stato.
Ciò che rende arduo il problema è la cultura di rimozione della morte in cui si è immersi: occorre avere chiaro che la morte è parte costitutiva dell' esistenza e che la malattia è una modalità dell' esistenza. Se questo è vero, allora il malato ha il diritto di essere a conoscenza del suo stato di salute e dell'eventuale gravitào mortalità della sua malattia perché ciò che è in gioco non è una "verità" su di lui posseduta da altri, ma è la sua stessa vita, è lui stesso con la rete di relazioni affettive, familiari, professionali, sociali, eccetera, che deve ora fronteggiare nella nuova situazione. Il problema non è dunque comunicare la verità al malato, ma condividere la verità del malato. Una diagnosi infausta scatena meccanismi di autodifesa e di elusione anche nei familiari e nel personale curante e richiede un lavoro su di sé di assunzione della morte e del dolore da parte di chi deve poi anche comunicarla e fame partecipe il malato. Il diritto del malato a essere informato sul suo stato di salute, come sulle medicine che gli vengono somministrate e sulle terapie che gli vengono prospettate, va di pari passo con il dovere del medico o di chi è al corrente della reale condizione del malato di non giocare questo sapere come potere. Ciò che è in gioco è l'autenticità della relazione con il malato e la verità umana, esistenziale del malato stesso: questa non può essergli sottratta, non può essergli celata da altri che la gestiscono contro la sua volontà. Ne va della sua dignità umana. Del resto, tra i diritti stabiliti dalla Carta del malato utente dell' ospedale vi è il diritto di essere informato. Per il cristiano poi è una necessità insita nella sua stessa fede conoscere l'esito mortale a cui lo sta portando la malattia da cui è afflitto: così egli potrà assumere gradualmente la sua situazione ed elaborarla nella fede cogliendola come" debolezza in Cristo", e potrà prepararsi alla morte, che per lui è anche momento di passaggio da questo mondo al Padre. E così egli potrà non essere sorpreso dalla morte come da evento inatteso, ma fare della morte un compimento del vissuto e l'inizio di una nuova vita.
Portare il malato, portare il fratello
È frequente, nei vangeli, l'annotazione che dei malati "vengono portati" a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt'al più essere sostenuti, essi sono semplicemente "accompagnati", "condotti", "guidati" fino a Gesù. È così che gli vengono presentati "malati oppressi da varie malattie e sofferenze" (Mt 4,24) e "molti indemoniati" (Mt 8,16). In alcuni casi si può esitare circa il significato esatto del verbo utilizzato, potendo questo designare sia l'atto di "condurre", "accompagnare", sia quello di "portare": dipende dal livello di autonomia del malato in questione. Questo vale per il verbo phérein (letteralmente "portare") usato in Marco 1,32 (tutti i malati e gli indemoniati), in 7,32 (una persona sorda e muta), in 8,22 (un cieco), in 9,17. 19-20 (un giovane che ha uno spirito muto). Ma in alcuni casi è assolutamente certo che il malato viene portato, essendo egli steso su un giaciglio, su una barella. In Marco 6,55 si annota che, giunto Gesù a Genesaret, gli abitanti della zona "cominciarono a portargli malati sulle barelle". Interessante è soprattutto il brano di Marco 2, 1-12 (con i paralleli in Matteo 9, 1-8 e Luca 5,17-26). Dice il testo di Marco:
Essendo entrato di nuovo a Cafarnao, alcuni giorni dopo, si seppe che era in casa. E si radunarono molti, così che non c'era più posto neppure davanti alla porta; ed egli annunziava loro la Parola. E vennero, portando a lui un paralitico, sorretto da quattro persone. E non potendolo presentare a lui a causa della folla, scoperchiarono la terrazza dalla parte dove era [Gesù] e, fatta un'apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico. E Gesù vedendo la loro fede, disse al paralitico: "Figlio ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,1-5).
Segue la discussione con gli scribi e la guarigione del paralitico a cui Gesù si rivolgerà con queste parole: "'Dico a te, alzati, prendi la tua barella e va' a casa tua'. E quello si alzò e subito, presa la barella, uscì dinanzi a tutti" (Mc 2,11-12). Colpisce la figura dei quattro uomini che portano il malato sorreggendo la pesante barella (forse il pagliericcio, il lettuccio su cui giaceva il malato a casa sua): persone anonime, forse familiari o amici o semplicemente conoscenti del malato che si sono offerti per realizzare quello che possiamo supporre fosse un desiderio profondo del malato stesso: incontrare Gesù. I quattro sono anonimi, definiti solamente da quell'atto di "portare il malato". E si indovina il legame profondo tra il malato e i suoi portatori: c'è un'intesa, un'inseparabilità, una complicità buona che si instaura tra essi. Questo gesto di portare il malato che è impotente a muoversi, che non ha l'autonomia di camminare è oggi conosciuto da molti, sia che sostengano una barella, sia che spingano una carrozzella, sia che sorreggano colui che non si regge in piedi, ed è un gesto che chiede di combinare forza e delicatezza, decisione e amore, intelligenza e carità. È un gesto che esprime la carità in cui si manifesta la fede. Una carità già conosciuta da Giobbe che dice di sé: "lo ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo" (Gb 29,15), dove il farsi pietoso accompagnatore del cieco e sostegno dello zoppo viene visto come un divenire parte del corpo del malato, tale è il rapporto intimo che si stabilisce fra i due. Il portatore dona un po' della sua forza all'invalido, il malato condivide un po' della sua debolezza con il portatore. Questa condivisione, questa relazione, questa partecipazione è talmente intima e profonda che diviene corporea: uno sceglie di portare il peso che il malato è, mentre il malato accetta di lasciarsi portare. Ed è proprio questa condivisione che rende non umiliante per il malato l'esperienza di sapersi peso che viene portato: occorre al malato l'umiltà di accogliere la propria dipendenza, la propria non-autonomia, e al portatore la delicatezza e l'intelligenza di compiere una cosa assolutamente naturale e normale, in nome dell' affetto, dell' amicizia o, almeno, dell'umanità. Così il gesto non appare tanto di "assistenza", quanto l'espressione naturale della relazione vitale, umana, che unisce i due. C'è perfino da chiedersi se in quella esperienza non vi sia una sorta di realizzazione molto concreta dell' esperienza ecclesiale di sentirsi membra di uno stesso corpo, un corpo in cui un membro non può dire all'altro "io non ho bisogno di te" (cf. 1Cor 12,21).
Nel brano di Marco la determinazione dei portatori emerge di fronte alle difficoltà e agli ostacoli che trovano sul loro cammino. Non riuscendo a portare il paralitico davanti a Gesù perché la folla e la calca lo impedivano, non esitano a salire sul tetto della casa in cui si trova Gesù e "fatta un' apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico" (Mc 2,4). È un tipo di casa costituita dal solo pianterreno e il cui "tetto" è una terrazza fatta di fango e paglia e sostenuta da traversine di legno. Era pertanto abbastanza facile salire sulla terrazza, attraverso una scala esterna, togliere lo strato di fango e paglia secchi, e fare un buco attraverso la travatura di legno. Quel gesto diviene per Gesù visibilizzazione della fede dei portatori: Gesù, infatti, "vista la loro fede" (v. 5), perdona e guarisce il paralitico. L'atto di portare il malato all'incontro con Cristo diviene dunque una vera e propria intercessione. Etimologicamente "inter-cedere" significa "fare un passo tra", "interporsi" fra due parti, indicando così una compromissione attiva, un prendere sul serio tanto la relazione con Dio, quanto quella con gli altri uomini. In particolare, è fare un passo presso qualcuno a favore di qualcun altro. L'intercessione è la preghiera in cui con più evidenza si manifesta la pienezza del nostro essere come relazione con Dio e con gli uomini. E l'intercessione mostra anche l'unità profonda fra responsabilità, impegno storico, carità, giustizia e solidarietà da un lato, e preghiera dall'altro (9).
Abbiamo qui, inoltre, una bella immagine della solidarietà che si dovrebbe vivere nelle comunità cristiane: vi è l'esperienza di essere portati dagli altri nelle proprie miserie e malattie, nei propri peccati e nelle proprie debolezze. È l'esperienza di essere portati perché si è incapaci di camminare da soli. Qui, il gesto di portare il malato assume un connotato di sacramentalità e di esemplarità: è segno di ciò che il Padre fa con il credente e il modello di ciò che dovrebbe avvenire nella chiesa tra i fratelli. In questo gesto vi è il sacramento di una verità spirituale che riguarda ogni cristiano: ognuno è bisognoso di essere portato dall' altro. Scrive Dietrich Bonhoeffer:
"Portare i pesi gli uni degli altri" (Gal 6,2). La legge di Cristo è una legge del "portare". Portare vuol dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano. Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Nel portare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. E i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo.
La Scrittura parla spesso di "portare". Essa esprime con queste parole tutta l'opera di Cristo: "Erano le nostre malattie che egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato"
 (Is 53,4) (10).
Un gesto così semplice, che tanti uomini e donne compiono quotidianamente, si rivela dunque così ricco di implicazioni spirituali e teologiche: portare il malato, portare il fratello, portare la croce. Il tutto reso possibile dal Cristo che ha preso su di sé e portato i nostri peccati e le nostre malattie (cf. Mt 8,17). Nella fede, infatti, Cristo ci porta, e nella fede i credenti possono ascoltare le parole di Cristo che dice: "Venite a me voi tutti... imparate da me che sono mite e umile di cuore... Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,28-30).
Una storiella che si narra nella vita di abba Bishoi, un monaco copto del IV-V secolo (morì nel 417 d.C.), dice che, poiché egli fruiva di frequenti visioni di Cristo, alcuni monaci gli chiesero di guidarli a incontrare Cristo. Avendo egli ricevuto un messaggio dal Signore, disse ai monaci di recarsi in un certo posto nel deserto, dove avrebbero trovato Cristo ad attenderli. Lungo il cammino essi videro, ai lati della strada, un uomo anziano, malato e sfinito, che chiedeva loro di portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Ma essi, desiderosi di incontrare Cristo, ignorarono le suppliche dell'anziano. In coda al loro gruppo giunse Bishoi che, quando vide l'anziano malato, se lo caricò sulle spalle portandolo lungo la strada. Giunto là dove i monaci attendevano Cristo, sentì il peso dell'uomo farsi più leggero, poté rialzare la schiena e constatare che l'anziano era scomparso. Allora rivelò: Cristo era seduto lungo la strada, e aspettava qualcuno che lo aiutasse. Nella loro fretta di vedere Cristo, gli altri monaci si erano dimenticati di essere cristiani. Lui, portando di peso l'anziano malato, aveva portato Cristo stesso (11).
Accanto al morente
Sappiamo bene come la cultura in cui siamo immersi operi una rimozione della morte dalla scena sociale: la morte oggi è de-socializzata, ridotta a fenomeno individuale, ed è nascosta, celata, strappata ai luoghi del vivere (la propria casa) e relegata, il più delle volte, a quegli ambienti asettici che sono gli ospedali: oggi si muore in modo certamente più igienico di un tempo, ma anche in una maggiore solitudine (12). La rimozione della morte è fenomeno constatabile nella paura della stessa parola "morte", spesso sostituita da quei pietosi e illusori camuffamenti che sono gli eufemismi: oggi non si muore, ma si scompare, si viene a mancare all'affetto dei propri cari, si passa a miglior vita... La repulsione di fronte alla salma, l'allontanamento dei bambini dalla visione di un morto, la riduzione della malattia mortale a problema tecnico affidato a personale specializzato, il carattere burocratico delle pratiche funerarie, sono ulteriori manifestazioni di questo fenomeno che relega la morte nella non-vita, la allontana dalla società rendendola oscena (nel senso etimologico di escluderla dalla "scena" del vivere).
Eppure la morte è parte integrante e momento culminante dell' esistenza. Ridare umanità e dignità al morire così che la morte possa essere vissuta come un atto umano che non solo pone fine alla vita, ma che la porta anche a compimento è dovere urgente per una cultura che voglia essere autenticamente rispettosa dell'umano. Questa rimozione della morte spiega anche perché si sia smarrito a livello sociale e familiare il valore dell'accompagnamento del morente (13). In verità, il tempo che precede la morte è estremamente prezioso: è occasione per il malato di fare un bilancio della propria vita e di riaffermare le opzioni che hanno guidato la sua esistenza; è momento in cui egli manifesta il bisogno di riconciliarsi con il proprio passato (con sé e con le persone con cui è in tensione o in conflitto) per potersi congedare serenamente dalla vita; è tempo di sistemare affari e situazioni economiche o di lavoro per non lasciare pendenze; è tempo necessario per rivedere le persone care e dire loro" addio" (14)... Stare accanto a un malato terminale significa stare accanto a chi sta vivendo un momento cruciale dell' esistenza: non dovremmo neppure parlare di "morenti", ma di persone che vivono gli ultimi giorni o settimane della loro vita. E chi vive questo accompagnamento può sperimentare come chi sta per morire possa insegnare molto a chi resta in vita: il confronto con la morte dell'altro ci rinvia subito a ciò che è essenziale e 'Centrale nell' esistenza (15).
Il malato terminale conosce certamente dolore fisico, ma anche angoscia, svalutazione di sé, smarrimento spirituale, sensi di colpa: è essenziale che egli possa trovare uno spazio umano che gli consenta di esprimere e dar voce a ciò che prova; se egli viene curato a casa propria, questo è certamente più facile. Valorizzando i gesti semplici della vita quotidiana e offrendogli la possibilità di una conversazione vera, in cui egli può esprimere se stesso, il malato può sentire accanto a sé quella presenza amorosa che è terapeutica non meno delle cure farmacologiche e di cui egli ha assolutamente bisogno. Il familiare o l'accompagnatore che è accanto al malato cercherà di mettere in atto una forma di comunicazione tale da poterlo raggiungere: la parola, certo, ma quando questo non è possibile, ecco che lo sguardo, il sorriso, le lacrime, il toccare con delicatezza e tenerezza, il tenere la mano del malato, diventano vie percorribili. Infatti, c'è una voce che tocca, un tono di voce che carezza, e c'è una mano che parla, un gesto che sussurra. Nei momenti di disperazione e angoscia può avvenire che il moribondo, come un bambino piccolo, chiami la madre: allora, il gesto di "cullare" il malato, di adagiarlo sul proprio petto e abbracciarlo con tenerezza potrebbe dargli la sicurezza e il senso di protezione che lo rasserenano. L'accompagnatore non ha tanto da fare: deve solo comunicare la propria presenza amorosa. È questa vicinanza che strappa il malato alla più penosa delle sensazioni: quella di essere abbandonato, escluso dal mondo dei vivi. Del resto, opportunamente interpretata ascoltando la sofferenza da cui scaturisce, la domanda di "farla finita" che il malato a volte formula, nella maggior parte dei casi non è affatto una richiesta di "eutanasia", quanto una supplica con cui il malato chiede alleviamento del dolore e di non essere lasciato nella solitudine. Egli chiede se interessa ancora ai vivi, se è ancora degno di amore, se può ancora considerarsi tra gli esseri umani (16). Qui si colloca l'importante compito dell' accompagnatore di confermare il malato nella sua dignità e nella sua preziosità, anche se la malattia lo paralizza o lo sfigura rendendolo irriconoscibile a se stesso. Questo il messaggio che l'accompagnatore dà al malato: tu sei e resti un essere umano, nella pienezza della tua dignità. Lo stesso respiro irregolare del morente dichiara che, nella sua angoscia, egli cerca una presenza personale che stia insieme a lui e lo tranquillizzi. In questa tranquillità, il malato si sentirà anche autorizzato, quando sente che la sua ora è venuta, di lasciare i legami con la vita e oltrepassare la soglia della morte. E anche quando il malato appare assente, sembra non capire, non comunicare e non rispondere, occorre perseverare nel restargli accanto: se lo si lasciasse e ci si astenesse dallo stargli vicino e dal continuare 'a parlargli o a comunicare con lui in modo non verbale, lo si considererebbe già morto e lo si abbandonerebbe alla morte. Chi è accanto al malato terminale è posto a confronto con la propria sofferenza e vulnerabilità, e con le emozioni che la morte dell' altro suscita in lui: egli deve riconoscere ma anche governare e tenere a distanza tutto ciò, perché la propria sofferenza non si sovrapponga a quella del malato impedendo all' accompagnatore di ascoltare il dolore e i bisogni del malato stesso. È certamente faticoso e pesante accompagnare un morente, ma è un atto di grande umanità che può arricchire profondamente chi lo compie. In un contesto culturale che esalta il piacere, l'efficacia, la bellezza patinata, il successo, è difficile cogliere il senso e il valore degli ultimi istanti di un uomo agonizzante. Anzi, lo spettacolo della fragilità umana, di un corpo privo di forze, scosso dai rantoli può essere sentito terrificante! Ma quelli sono anche gli ultimi momenti, gli ultimi gesti, gli ultimi sguardi, magari gli ultimi sorrisi di una persona con cui abbiamo condiviso un percorso di vita. E questo è di importanza straordinaria. Il cristiano poi, potrebbe affrontare questo compito autorizzandosi a una parafrasi certamente legittima di Matteo 25,35-36: "Ero morente, e mi siete stati accanto" .

[1] Cf. M.-G. de Klopstein, Aaompagner les malades, Les Éditions de l'Atelier-Editions Ouvrières, Paris 2000; A. Brusco, La relazione pastorale di aiuto. Camminare insieme, Edizioni Camilliane, Torino 1993.
[2] Cf. R. Buckman, Cosa dire? Dialogo con il malato grave, Edizioni Camilliane, Torino 1990.
[3] Cf. G. Piret, "Les émotions et l'accompagnement des malades", in Vie consacrée 2 (1997), pp. 112-117.
[4] Per una esposizione più ampia e dettagliata del nostro tema rinvio ad altri miei contributi: L. Manicardi, "Il malato e gli altri. Riflessioni sulla visita al malato", in Parola, Spirito e Vita 2 (1999), pp. 183-200; Id., "La visita al malato nella sacra Scrittura", in Camillianum II (2004), pp. 363-372; Id., "Visitare i malati: approccio biblico", in Firmana 2-3 (2005), pp. 79-88.
[5] Cf. D. Casera, s.v. "Visita al malato", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, pp. 1377-1381.
[6] Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere, pp. 179-194.
[7] Cf. I. Schinella, "Condivisione della verità all' ammalato", in Rassegna di teologia 5 (1990), pp. 487-501; cf. anche C. Iandolo, Parlare col malato. Tecnica, arte ed errori della comunicazione, Armando, Roma 1993, pp. 171-183.
[8] Cf. M. Faggioni, S.v. "Verità al malato", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, pp. 1351-1360.
[9] Cf. E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, pp. 117-120 (sulla preghiera di intercessione).
[10] D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 19798, pp. 127-128.
[11] Cf. O. F. A. Meinardus, Monks and Monasteries of the Egyptian Deserts, The American University in Cairo Press, Cairo 1992, p. 105.
[12] Cf. N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1985.
[13] Cf. M. Abiven, P. Baudry, B. Cassaigne, O. de Dinechin, M. Domergue, M. Tavernier, X. Thévenot, J. Trublet, P. Verspieren, Avec celui qui meurt, Assas, Paris 1992. Il testo contiene la dichiarazione dei vescovi francesi Respecter l'homme proche de sa mort. [14] Cf. D. Hons, "Maladie grave et fin de vie. Réflexions sur la souffrance et son accompagnement", in Nouvelle Revue Théologique 2 (1997), pp. 252-255.
[15] Cf. M. de Hennezel, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 1998.
[16] Cf. Ead., La dolce morte, Sonzogno, Milano 2002.

LINGUAGGI
Guarire con la solidarietà
La parabola evangelica del buon samaritano consente di riflettere sul rapporto tra solidarietà e guarigione. Si tratta di un testo molto noto e che proprio per questo necessita di una lettura rinnovata, forse inedita, per manifestare tutte le sue potenzialità (1) .
La parabola del buon samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell' altro è appello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà. È importante cogliere la parabola vera e propria (cf. Lc 10,30-35) in continuità con il breve dialogo tra il dottore della legge e Gesù che la precede (cf. vv. 25-29): si vedrà così che la parabola è la narrazione con cui Gesù insegna la vera solidarietà al dottore della legge che gli pone la domanda simbolo della non responsabilità e della non solidarietà: "Chi è il mio prossimo?". In particolare Gesù invita il dottore della legge a passare dal sapere al fare: egli risponde bene, rettamente, in modo ortodosso (orth6s: v. 28) alla domanda postagli da Gesù (cf. Lc 10,26-27), ma sembra non arrivare a fare il legame tra sapere e fare, tra conoscenza delle Scritture e sofferenza dell'uomo, tra corpo delle Scritture e corpo dell'uomo ferito, tra spirito e mano. Non arriva ad amare realmente e dunque a compiere la Scrittura. Capiamo così l'ammonimento ripetuto due
 volte: "Fa questo e vivrai!". (Lc 10,28); "Va' e anche tu fa' lo stesso" (Lc 10,37). Gesù insegna che la solidarietà è un reale farsi prossimo all'altro nella sua sofferenza: la solidarietà, dunque, come arte della vicinanza, della presenza all'altro nel suo bisogno.
Ora, il sacerdote e il levita vedono l'uomo ferito, quasi morto, ma passano dall' altra parte della strada: perché? Perché questo rifiuto della solidarietà? Forse per non contrarre impurità con un quasi-cadavere, ma certamente vi è qualcosa di più radicale e che anche noi sperimentiamo: l'uomo malato, ferito o morente può farci paura. E allora noi capiamo che per entrare nella vera compassione che sfocia poi nella solidarietà non basta vedere l'uomo ferito, ma occorre vedere anche le proprie resistenze alla compassione, vedere la propria vulnerabilità, riconoscere che compassione e solidarietà suscitano in noi anche rifiuto e ripugnanza. Non è da escludere che la presenza dell'uomo ferito sia sentita come una vera e propria scocciatura che riempie di collera sacerdote e levita: perché costui è là a interrompere il mio cammino, i miei ritmi già prefissati e pacifici? N asce in me la volontà di escluderlo dal mio orizzonte perché mi infastidisce: allora passo dall'altra parte della strada.
Io credo che per leggere onestamente questa parabola dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita, e che i tre personaggi sono tre momenti dell'unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi, per arrivare alla vera solidarietà, siamo chiamati a riconoscere le opposizioni alla solidarietà e alla compassione che ci abitano. Anche noi, per incontrare il sofferente dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo, e averne compassione.
E forse dovremmo cercare di guardare la scena della nostra parabola mettendoci nei panni dell'uomo ferito. Si entrerebbe in un' altra visione del mondo e si potrebbe entrare nella storia di quest'uomo che conosce quattro tappe:
1. È un uomo normale, come me, come tutti, che sta facendo la sua strada (v. 30a).
2. L'inatteso rende quest'uomo sventurato, quasi morto, a causa della violenza. Costui diviene uomo picchiato, ferito, rapinato, maltrattato, condotto a un passo dalla morte (v. 30b).
3. Davanti al sacerdote e al levita quest'uomo diviene l'uomo di cui non ci si prende cura, che patisce l'indifferenza omicida: sperimenta di essere un nulla, uno da evitare (vv. 31-32).
4. Davanti al samaritano diviene l'uomo aiutato, soccorso, che conosce chi si prende gratuitamente cura di lui, diviene colui che sperimenta la compassione dell'altro (vv. 33-35).
Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po' in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: "Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia". Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un'unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura che impedisce di cogliere quella di chi è impotente, in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all'altro sofferente è la paura dell'isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all' altro e diventare presenza nella sua solitudine. Scrive Emmanuel Lévinas:
Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all' altro, l'invocazione all'altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all' altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell' altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell' altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità (2).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere la compassione è attitudine essenziale. È l'attitudine del samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione (esplanchnisthe)" (Lc 10,33) e fece divenire responsabilità e solidarietà la compassione. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell'uomo, nel suo intimo, ed evitare di ridursi ad attivismo per cui si fanno tante cose per gli altri, ma si fallisce l'incontro con la persona che il bisognoso è, e non si cambia nulla in se stessi. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta, e la solidarietà testimonia che ogni uomo è un fratello e che io ne ho una responsabilità. Il samaritano manifesta la sua responsabilità facendo tanto per quell'uomo; due serie di sette verbi (nel testo greco) dicono la totalità dell'impegno del samaritano: ha fatto tutto quello che poteva. E la doppia ricorrenza del verbo epimélomai (vv. 34-35) dice a cosa tende la compassione che rende l'uomo solidale con l'altro uomo:prendersi cura dell' altro uomo.
Un'ultima suggestione: il dialogo tra Gesù e il dottore della legge verteva sull' amare il prossimo. La parabola mostra che il samaritano è colui che si è fatto prossimo all'uomo ferito: lui è il prossimo. Colui che ama il prossimo allora è forse il ferito che, nella sua assoluta impotenza, concede all' altro l'occasione di divenire se stesso, di farsi umano a immagine di Dio, di divenire compassionevole come Dio è compassionevole. Non abbiamo qui la rivelazione velata dell'amore universale che dal crocifisso morente e impotente scende su ogni uomo? Non abbiamo qui l'esperienza che spesso facciamo quando diciamo che stando accanto a un malato o a un morente scopriamo che è più ciò che lui ha dato a noi che non il contrario?
Non abbiamo qui forse il sacramento della potenza della debolezza? Non abbiamo qui forse lo svelamento del fatto che colui che ha vissuto la solidarietà in modo radicale è il Signore Gesù Cristo nel suo farsi uomo, fino alla condizione dello schiavo, fino alla morte di croce, fino a condividere l'impotenza e gli inferi dell'uomo?
La compassione
Scenario: un campo allestito da Médecins sans frontières al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l'arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emotivi: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere. Di fronte a una giovane donna sventrata la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c'è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. E di morire così due volte. "Accompagnando la solitudine dell' essere vivente fino all' estremo limite in cui è possibile tenergli compagnia, Daniel ha abolito la solitudine di questa donna morente e, nello stesso tempo, ora lo so con certezza, la solitudine umana universale, per un istante". Questa la testimonianza di Xavier Emmanuelli nel suo libroPrélude à la symphonie du nouveau monde (3)E questa a me sembra la più plastica e drammatica espressione della compassione. Non a caso simile a quelle rappresentazioni, diffuse in occidente tra il XIII e il XVII secolo, tendenti a raffigurare la compassione del Padre e chiamate "trono di grazia" (il Padre, assiso, sostiene la croce cui è appeso il Figlio) o "la pietà del Padre" (il Padre sostiene il corpo morto del Figlio) (4).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere, la compassione è attitudine essenziale. Dal punto di vista teologico la Bibbia attribuisce la compassione anzitutto a Dio e ne fa l'elemento in base al quale Dio "vede" la sofferenza del popolo e si appresta a intervenire in suo favore (cf. Es 2,23-25; 3,7-8); Cristo poi, appare nei vangeli come narrazione e personificazione della compassione di Dio, ben espressa nell' atteggiamento del buon samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione" (Lc 10,33). Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell' altro, il samaritano è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso. La compassione non è solamente un sentimento che si impone al cuore dell'uomo, ma diviene scelta, responsabilità. Essa è risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell'uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte; è il no radicale all'indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell'altro uomo. La compassione, facendo della sofferenza una sofferenza per l'altro, spezza l'isolamento in cui l'eccesso di sofferenza rischia di rinchiudere l'uomo. L'impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l'umanità dell'uomo che riconosce l'altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell'incontro con l'altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. Il gesto di compassione del medico ricordato sopra è costituito da una vicinanza fisica fatta di tenerezza e delicatezza (che trasmette calore al corpo sofferente), da parole pronunciate (che esprimono una comunicazione, danno senso e instaurano una vicinanza comunionale), da una presenza che rimane accanto (e non abbandona chi se ne va). Certo, la compassione nasce in chi accetta di lasciarsi ferire e colpire dalla sofferenza dell' altro, sicché solo chi riconosce la propria vulnerabilità sa aprirsi alla sofferenza altrui. Scrive Emmanuel Lévinas: "Solo un io vulnerabile può amare il prossimo" (5). E di fronte al malato per cui non c'è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, parlandogli, esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? Scrive Agostino: "lo non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l'alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri" (6). Sì, nella compassione vi è la rivelazione di qualcosa che è profondamente umano e autenticamente divino.
Perdonare per guarire
Perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subito. Fare anche del male ricevuto l'occasione di un dono. Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di chi ha commesso il male: il perdono perdona ciò che non è scusabile, ciò che è ingiustificabile - il male commesso - e che tale resta (7). Il perdono non toglie l'irreversibilità del male subito, ma lo assume come passato e, facendo prevalere un rapporto di grazia su un rapporto di giustizia, crea le premesse di un rinnovamento della relazione tra offensore e offeso. Il perdono pertanto si oppone alla dimenticanza (si può perdonare solo ciò che non è stato dimenticato) e suppone un lavoro della memoria. Il ricordo del male subito apre la via al perdono nella misura in cui elabora il senso del male subito: noi uomini non siamo infatti responsabili dell' esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente (e magari nell'infanzia o comunque in situazioni di assoluta nostra impotenza a difenderci e magari da persone da cui avremmo dovuto aspettarci solo bene e amore), ma siamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito (8). Il lavoro del ricordo che sfocia nel perdono può così liberare l'offeso dalla coazione a ripetere che lo potrebbe portare a riprodurre e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito (9). Dietro all'atto con cui una persona perdona vi è già la guarigione della memoria: non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell' ombra lunga del male subito, ostaggi del proprio passato. Al tempo stesso il perdono implica un "lasciar andare", uno spezzare non certo il ricordo, ma il debito contratto da chi ha commesso il male. In questo si coglie l'essenza del per-dono come dono sovrabbondante (10). L'atto del perdono si mostra così capace di guarire non solo l'offensore, ma anche l'offeso: il perdono "è la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata" (11), agisce in maniera gratuita, non condizionata dall'atto che l'ha provocato, e quindi libera dalle conseguenze del male sia colui che l'ha commesso, sia colui che l'ha subito. Il perdono, mentre libera l'offensore dal debito contratto facendo il male, libera anche l'offeso dal rischio di vivere i suoi giorni in ostaggio del male subito un tempo.
Certo, il cammino del perdono è lungo e faticoso (12).
Per non darla vinta al male che abbiamo subito e che potrebbe continuare a legarci a sé impedendoci di proiettarci nel futuro, occorre anzitutto, come primo passo, rinunciare alla volontà di vendicarsi, di compiere ritorsioni. Cedere a questa tentazione equivarrebbe a entrare nella spirale del male da cui si vuole uscire!
Quindi occorre riconoscere che si soffre per il male subito, riconoscere la propria ferita e la propria povertà. Ovvero si tratta di riconoscere che il male subito ci ha tolto quell'integrità che avremmo potuto avere e ci ha resi diversi, più vulnerabili perché vulnerati, più poveri perché abbiamo perso irrimediabilmente qualcosa. Il male subito ha realmente ucciso una parte di noi, una possibilità di vita che avremmo avuto se... non fosse successo quello che è successo.
Essenziale nel cammino di guarigione dal male subito è allora il poter condividere con qualcuno la propria sofferenza. Raccontare la propria sofferenza a chi
 sa ascoltare con amore e partecipazione significa essere liberati da quella penosa sensazione di assoluta solitudine che chi ha subito il male nutre in sé: egli infatti vede che il peso della propria sofferenza è condiviso da un altro. Può iniziare così un processo di riconciliazione con l'immagine dell'altro che non è sequestrata unilateralmente dalla dimensione odiosa e negativa dell'offensore. A questo punto l'altro rappresenta anche un volto amico, accogliente e affidabile.
Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male subito: solo così si può farne il lutto e assumerne la perdita. Vi sono infatti dei mali subiti che noi rimuoviamo impedendoci di guardarli in faccia e di accettarli. Ma così ne restiamo succubi. È anche importante, in questo itinerario verso il perdono, dare alla collera il permesso di esistere in noi, accettare il fatto che noi vorremmo ripagare l'altro con la stessa moneta. Ed è importante poterla esprimere, tale collera. Del resto, perdonare non è naturale, ma a noi è molto più facile la ritorsione, la ripicca.
Ulteriore tappa è quella del necessario perdono a se stessi. Spesso il male subito, soprattutto se da persone amate e vicine, produce in noi sensi di colpa che rischiano di paralizzarci e di schiavizzarci: non ci si perdona di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di essersi messi in situazioni che si sono rivelate a cielo chiuso, di avere pazientato troppo a lungo in situazioni difficili fino a subirle supinamente... Un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilia con sé, sarà difficile farlo con l'altro.
Allora si potrà anche comprendere il proprio offensore, comprendere non nel senso di scusare, ma di
 guardarlo come un essere umano e un figlio di Dio: allora si aprirà la strada al perdono come atto in cui ritrovo colui che è già mio fratello, ma che il male ha allontanato da me.
Tappa ulteriore sarà di trovare un senso al male ricevuto: se i fatti passati sono incancellabili, il senso di quanto è avvenuto (si tratti di male subito o inferto) non è già dato o fissato una volta per tutte. Nei racconti della Genesi, Giuseppe trova un senso salvifico al male che ha subito tempo addietro da parte dei suoi fratelli (cf. Gen 45,4-8; 50,20). Per il cristiano questa è una tappa che innesta il perdono nella dinamica pasquale. Nel perdono il male non ha l'ultima parola, la morte non vince sulla vita, l'amore ha la meglio sul male e la riconciliazione può subentrare alla fine della relazione.
Ma poi, in questo cammino, è fondamentale riscoprire perdonati noi stessi, perdonati da Dio in Cristo, e questo farà sì che l'atto di perdono che si compirà non sarà tanto (o soltanto) un atto di volontà, ma l'apertura al dono di grazia del Signore.
Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato. Ma una volta accordato (con quella forza performativa che ha l'espressione "io ti perdono") non sappiamo come esso agirà nel cuore e nella mente dell'offensore che oramai è perdonato.
E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato ("può", non "deve": a grandezza e perdono consiste nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla mi assicura che esso cambierà il cuore di colui che ha fatto il male né che costui cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dell' evento pasquale, dello scandalo e del paradosso della croce. Anche sulla croce la potenza di Dio si manifesta nella debolezza estrema del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l'unilateralità di un amore asimmetrico che è l'unica via per aprire a tutti la strada della salvezza. Riflesso dell' evento pasquale, il perdono cristiano non si colloca sul piano etico, ma su quello escatologico: là dove c'è perdono c'è lo Spirito di Dio, c'è Dio che regna e Cristo si rende presente.
Il linguaggio delle lacrime
Spesso il pianto è compagno della sofferenza. Ma la polivalenza semantica del pianto lo rende un linguaggio estremamente misterioso e articolato, che merita un approfondimento.
"Il paese delle lacrime è così misterioso", fa dire Antoine de Saint-Exupéry al suo piccolo principe (13). Ma il pianto è anche quanto di più noto e sperimentato vi possa essere tra gli uomini: è una caratteristica umana tipica e universale, un' espressione specifica dell'umanità (14). Noi nasciamo con la capacità di piangere, dotati di questa abilità, eppure sappiamo ben poco sul pianto: perché piangiamo? Perché esprimiamo con questo medesimo linguaggio emozionale sia gioia che dolore? Associamo il pianto a situazioni di sofferenza, ma siamo disposti ad affermare che piangendo ci sentiamo meglio, che le lacrime producono un benefico sfogo di emozioni represse e che hanno un valore catartico: "Le lacrime danno sollievo all'anima" (15). Spesso espressione di angoscia, esse producono anche un piacere fisico. Forse, più ancora che a uno sfogo, le lacrime sono tese a un ri-orientamento delle emozioni. Esse fanno spostare la nostra attenzione dalla mente al corpo e così sciolgono il dolore psicologico.
Dal punto di vista fisiologico si distinguono tre tipi di lacrime: basali, riflesse e psicologiche o emotive. Le lacrime basali costituiscono il velo permanente che lubrifica gli occhi; le lacrime riflesse sono quelle che sgorgano, ad esempio, quando si tagliano le cipolle; le lacrime psicologiche esprimono uno stato d'animo e da esso traggono origine. Queste lacrime sono diverse per funzione e per composizione: contengono infatti concentrazioni diverse di sostanze chimiche, ormoni e proteine; le lacrime emotive presentano una più elevata concentrazione di proteine rispetto a quelle riflesse. Descritte da fisiologi e oftalmologi come una sorta di sandwich fluido, con uno strato interno di mucina a contatto con la superficie dell'occhio, uno strato acquoso intermedio e uno esterno composto da oli che
 impediscono alle lacrime di evaporare troppo rapidamente, esse sono "composite", miste, plurivalenti, anche a livello espressivo: angoscia e gioia, compassione e autocommiserazione, sincerità e falsità, amore e paura... "Le lacrime non sono mai solo e semplicemente un segno di piacere, sofferenza, sincerità, doppiezza, paura o eroismo. Non esistono lacrime pure" (16).
Se spesso il pianto è individuale e nascosto, abbiamo poi gli usi culturali e rituali, religiosi e sacrali, sociali e pubblici del pianto. Insomma, il pianto è un linguaggio, le lacrime sono parole non verbali, sono una forma di comunicazione. Interessante, da questo punto di vista, la tesi di chi ritiene che la vocalizzazione evolutivamente più antica sia il pianto di separazione: poiché i primi mammiferi erano nottambuli abitatori delle foreste, questo pianto serviva ai genitori per ritrovare la prole dispersa e, più in generale, alla comunicazione interna al gruppo. Il pianto davanti a un' altra persona mira a suscitare una sua reazione, esprime una richiesta di attenzione. Con il pianto cerchiamo di trasformare in sostegno la negatività degli altri: chi assiste al pianto altrui si sente colpito da tale esternazione di vulnerabilità e normalmente tende a farsi vicino, a consolare, a confortare. Le fragili e quasi evanescenti lacrime hanno un grande potere! Il pianto è un mezzo usato dagli umani per restare in contatto tra di loro. Lo stesso pianto infantile non esprime solo il bisogno che chiede di essere soddisfatto, ma tende anche a creare un legame tra il piccolo e i genitori.
Il pianto poi non sempre è di facile o univoca interpretazione: di fronte a chi piange spesso siamo in imbarazzo (e cerchiamo parole e, soprattutto, gesti, che siano adeguati alla pregnanza del linguaggio di pianto dell' altro) e tentiamo di interpretare le sue lacrime. Lelacrime svelano un aspetto dell'anima, e quasi la mettono a nudo. Esse sono l'eloquenza discreta dell'anima, il linguaggio del cuore. Sono la parte visibile, per quanto tremula e trasparente, del nostro desiderio. Esse uniscono mirabilmente interiorità ed esteriorità, corpo e anima. "Le lacrime consumano la loro vita fuori dal corpo, testimoniando al suo esterno la sua più autentica interiorità" (17). Sono la visibilità dell'invisibile. Questa loro tipicità le rende un linguaggio spesso sentito come più autentico e profondo delle parole stesse: "Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza" (18); "Grazie alle lacrime io posso vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore empatico che riceve il messaggio 'più vero': quello del mio corpo e non già quello della mia lingua" (19). Lelacrime ci dicono qualcosa sulla sapienza del corpo esprimendo una dimensione della verità insita nel corpo che le parole e il discorso concettuale non sanno manifestare. Del resto, il pianto si verifica spesso quando meno siamo capaci di verbalizzare adeguatamente emozioni complesse e travolgenti: esso sa dare voce a una miscela di stati d'animo contrastanti.
Come linguaggio comunicativo esso esprime desiderio, aspettativa, preghiera. Nei salmi la preghiera dell'orante è spesso accompagnata dalle lacrime, tanto nella malattia ("Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore ... Il Signore ascolta la voce del mio pianto": Sal 6, 7-9; "Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo le lacrime": Sal 102, 10), quanto in altre situazioni difficili (cf. Sal 39,13; 42,4; 80,6). Il pianto, sempre effuso dal salmista "davanti al volto del Signore" (Sal 142,3), è così una preghiera che il Signore gradisce e ascolta: "Hai contato i passi del mio vagare, hai raccolto le mie lacrime in un vaso" (Sal 56,9). Nella tradizione ebraica le lacrime sono sentite come linguaggio di preghiera più potente ed efficace della preghiera silenziosa e del grido. Le lacrime cadono a terra, ma la loro efficacia sale al cielo: in un certo senso esse cadono verso l'alto; le lacrime sono la terra che irrora il cielo (20).
Si comprende che le lacrime abbiano potuto acquisire un'importanza straordinaria nella tradizione spirituale cristiana sia d'oriente che d' occidente (21). Esse manifestano la sincerità del pentimento e della compunzione di colui che sa riconoscere i propri peccati davanti al Signore: chi prega con lacrime viene sentito essere simile a chi si getta ai piedi del Signore e gli chiede pietà, come quella prostituta che in poco tempo lavò con le sue lacrime tutti i suoi peccati (cf. Lc 7,36-50). Il testo evangelico suggerisce che le lacrime in questo caso sono linguaggio che esprime amore. Le lacrime per i propri peccati divengono invocazione di purificazione e non a caso esse sono viste addirittura come rinnovamento (non sostituzione!) del lavacro battesimale. Gregorio di Nazianzo parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico di Mosè, avvenuto nell'acqua del mar Rosso (cf. 1Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito santo e quello dei martiri che avviene nel sangue (e che anche Cristo ha conosciuto). Un detto di un anziano afferma: "Ogni opera buona che l'uomo può fare è fuori del corpo, mentre colui che piange purifica anima e corpo; le lacrime infatti lavano il corpo e lo santificano". Le lacrime sono state sentite presto come un dono (tò chdrisma ton dakryon; gratia lacrimarum) e invocate esse stesse, nella convinzione che esse "conducano alle soglie della regione misteriosa" (lsacco di Ninive). In effetti il pianto che accompagna la preghiera non è semplicemente dovuto al ricordo dei propri peccati commessi e al pentimento, ma anche alla compassione di chi vede le sofferenze da cui altri sono schiacciati, al dolore provocato dalla visione della durezza di cuore e indifferenza di altre persone, al desiderio della comunione con il Signore, alla percezione nella fede della visita del Verbo durante la pratica dell' ascolto della parola di Dio nella lectio divina (e si tratta allora di lacrime gioiose e dolci), al timore del giudizio... La preghiera accompagnata da lacrime opera quella purificazione del cuore che consente al credente di "vedere Dio" (Mt 5,8), di esperirne, nella fede, la presenza: "Bisogna sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime" (22). Preghiera esse stesse, le lacrime appaiono anche come condizione di veridicità della preghiera e sono implorate. La preghiera è "la madre e anche la figlia delle lacrime" (Giovanni Climaco). Un oremus della liturgia cattolica romana precedente la riforma liturgica chiedeva cosi il dono delle lacrime: "Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fontana d'acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione, affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, il perdono".
Linguaggio silenzioso ed eloquente, materia dell'anima e trasparenza del corpo, le lacrime esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore cosi come l'angoscia per la distanza dell'uomo da Dio. E in tal modo dicono qualcosa circa il mistero dell'uomo e della sua relazione con Dio.
Paradossalmente, le lacrime invocano anche la propria fine. Come noi sperimentiamo la fine dei nostri pianti, cosi la rivelazione biblica profetizza la fine del pianto con l'immagine del Dio che, nella Gerusalemme celeste, asciugherà le lacrime da ogni volto. L'Apocalisse spera la fine del pianto e la morte della morte: "Non ci sarà più morte, né lutto, né affanno ... Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 2 I ,4). La nostra personale storia e la storia dell'umanità intera sono spesso storie scritte dalle lacrime, da pianti sommessi o disperati, irrefrenabili o contenuti, pianti che sono una pressante richiesta a Dio perché consoli, faccia giustizia, risani le ferite, mostri il suo volto, instauri per sempre e per tutti il suo Regno di pace e giustizia. Le lacrime versate davanti a Dio invocano: "Venga il tuo Regno!".
La collera
Spesso, nella malattia o di fronte a eventi che mettono in crisi e fanno soffrire, l'uomo vede crescere in sé la collera e sente il bisogno di manifestarla. Essa è una maniera importante e vitale di espressione dell'uomo nella sofferenza. Ma spesso essa viene repressa, trattenuta perché sentita come peccaminosa e degna di biasimo. Anche chi è vicino al sofferente cerca di zittire la sua collera, sicché il potenziale vitale insito in essa rischia di andare perduto.
Ora, la collera è un'emozione (23). Come tale essa non è né buona né cattiva. Eppure nella nostra tradizione culturale e religiosa l'ira gode di cattiva fama. Perché? Perché viene spesso equiparata tout court alla violenza, perché viene sentita come incompatibile con l'amore, perché è ritenuta sconveniente da una tradizione culturale che fin dalla più antica trattatistica filosofico-morale l'ha considerata una passione, attribuendola alla parte irrazionale dell' anima, perché è elencata tra i vizi capitali nella tradizione cristiana (24).
Eppure per la tradizione biblica la collera è ambivalente. Può certamente essere peccaminosa, ma anche santa. Gesù è modello di mitezza e dolcezza (cf. Mt 11,29), ma è anche colui che, "fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi" (Gv 2,15), è colui che guarda "con ira" (Mc 3,5) coloro che stavano a vedere se avesse guarito un uomo malato in giorno di sabato per poterlo poi accusare, è colui che si adira con i discepoli che impediscono ai bambini di avvicinarsi a lui (cf. Mc 10,14) e rivolge loro parole di fuoco (cf. Mc 8,17-21), così come rivolge espressioni traversate dall'ira profetica nei confronti di ipocriti e menzogneri (cf. Mt 23,13-36).
Il problema non è dunque l'andare in collera in quanto tale, ma che uso fare della collera, come esprimerla, e che cosa essa rivela di colui che si è adirato. Scrive Agostino: "Nella nostra dottrina si chiede all'anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l'oggetto della sua paura" (25). La collera, infatti, è rivelatrice di nostre vulnerabilità: essa ci consente di conoscerci. Perché una determinata situazione o un certo gesto o atteggiamento o parola di un altro hanno suscitato collera in me? Che cosa dice, su di me, la mia collera? Queste domande ci mostreranno che la collera traduce ed esprime essenzialmente il senso di invasione del nostro territorio (simbolico) da parte di un altro, oppure la nostra paura di non essere
riconosciuti, rispettati, compresi, oppure il nostro stato di fatica e di stress.
Ovviamente è poi fondamentale il modo di espressione della collera: se la collera non è addomesticata, se il soggetto non assume la responsabilità delle proprie emozioni e dunque della collera, essa può esplodere con quella violenza che si manifesta sia a parole che con gesti, e può uccidere. Di certo, è importante che essa trovi vie di espressione. La collera repressa può essere ancor più mortifera di quella espressa. Scrive Gregorio Magno:
In certi casi l'ira impone all' animo agitato di non parlare e quanto meno si esprime fuori, tanto più brucia dentro e non rivolge la parola al prossimo, e così, con il non parlargli, gli dice quanto non lo possa vedere ... Può darsi che con l'andar del tempo l'animo irato perda completamente l'amore del prossimo... Spesso l'ira chiusa nell'animo con il silenzio ribolle con più veemenza e, pur senza parlare, forma voci violente ... Così avviene che l'animo turbato sente più grande strepito nel suo silenzio e la fiamma dell'ira chiusa in cuore lo consuma ancor di più (26).
Il primo omicidio, secondo la Bibbia, nasce proprio da una collera repressa, taciuta, rimossa. "Caino fu molto irritato" (letteralmente "a Caino bruciò molto": Gen 4,5), ma egli non dà parola alla sua collera e non risponde a Dio che lo invita al dialogo (cf. Gen 4,6-8). Così la collera, coltivata e nutrita interiormente, diviene rancore, odio, e l'odio è capace di fare a freddo ciò che la collera potrebbe fare solo a caldo. E Caino uccide Abele. Il testo biblico esprime molto bene sia il fatto che la collera è molto visibile e si manifesta a livello somatico ("Il volto di Caino fu abbattuto": Gen 4,5), sia il fatto che la collera ha a che fare con la relazione con l'altro, con la capacità o meno di reggere il faccia a faccia. O perché ha il volto abbattuto, rivolto a terra, o perché innalza il proprio volto al di sopra di suo fratello, Caino sempre sfugge all'incontro faccia a faccia con Abele e il non-incontro diviene omicidio: "Caino si innalzò contro Abele, suo fratello, e lo uccise" (Gen 4,8) (27). Di certo, vi è una collera incontrollata che disumanizza l'uomo rendendolo simile a una bestia: la collera sfigura l'uomo e il parossismo dell'ira rende l'uomo tanto spaventoso quanto ridicolo. La descrizione dell'iracondo fatta da Giovanni Crisostomo porta al suo acme il topos per cui chi va in collera si fa simile alle bestie:
Non può certo chiamare Dio Padre buono chi ha un animo selvaggio e disumano, chi non conserva i segni e le caratteristiche di quella bontà che è del Padre celeste, ma, allontanandosi dalla divina nobiltà, trasforma il suo aspetto in quello di una bestia. Se uno salta come un toro, scalcia come un asino, conserva nella memoria il male ricevuto come un cammello. È goloso come un orso, è arrabbiato come un lupo, ferisce come uno scorpione, è subdolo come una volpe e nitrisce come un cavallo pazzo d'amore alla vista delle femmine, come può far salire al cielo una voce degna della sua natura di figlio e chiamare Dio Padre? Come si può definire un essere simile? Una bestia? Ma le bestie sono preda di uno solo di questi vizi, lui invece li concentra tutti in se stesso ed è più stolto della loro stoltezza (28).
Soprattutto, un momento di collera può rovinare il bene costruito in tanto tempo e con infinita pazienza.
Tuttavia la Scrittura e la tradizione parlano anche di una santa collera, di una collera-virtù, di "una collera che nasce dallo zelo e che è una virtù" (29). Come definire una santa collera? Che cosa rende santa la collera (30)?
È santa la collera che tiene in contatto con Dio o con l'altro uomo. La collera di Giobbe esprime la sua volontà di non fare a meno di Dio, di non staccarsi da lui; essa lo mette in un rapporto di opposizione talmente personale con Dio che non può certo accontentarsi di spiegazioni di seconda mano. Rischio della collera è quello di condurmi a troncare la relazione con la persona con cui sono adirato: non esprimo la collera, ma faccio come se l'altro non esistesse più, ne faccio un lutto anticipato.
È santa la collera che non si arroga il diritto di fare vendetta dando così il via a una spirale di violenze e ritorsioni senza fine.
È santa la collera che non ha in se stessa il proprio fine, ma tende a ritrovare la pienezza della relazione con l'altro.
È santa la collera che si accende di fronte all'ingiustizia, all' oppressione, alla violenza perpetrata dai prepotenti. Ed è santa la collera che mi separa da situazioni di violenza subita che rischierebbero di trascinarmi nella confusione e nell'informe e che mi separa da persone che mi manipolano e mi usano.
È santa la collera che si dà un limite: "Adiratevi, ma non peccate. Non tramonti il sole sopra la vostra ira" (Ef 4,26).
È santa la collera che si scaglia contro immagini colpevolizzanti o distorte di Dio e che rompe con sistemi ideologici o religiosi che contraddicono l'umano, come fa Giobbe che rifiuta il principio della retribuzione.
È santa la collera che tende alla purificazione del cuore: si tratta, secondo la tradizione ascetica cristiana, di rivolgere la collera contro ciò che Satana ha seminato nel cuore umano. Così la collera diventa fattore importante di purifica zio ne del cuore in quanto mobilita tutte le energie della persona nella lotta contro il Tentatore.
Quest'ultima espressione ci porta a considerare le modalità di terapia, o meglio, di buon uso della collera. Si tratta cioè di recuperare l'energia vitale nascosta nella collera.
Indirizzare la collera contro i cattivi pensieri: "Durante la tentazione non metterti a pregare prima di aver pronunciato, con collera, alcune parole contro il tuo tentatore ... Se rivolgerai ai demoni qualche espressione irosa, renderai vani i progetti dei tuoi avversari" (31). La collera rientra così nella lotta spirituale.
Cercare la riconciliazione prima di coricarsi, come sta scritto nella Lettera agli Efesini 4,26: "Il sole non tramonti sulla vostra ira".
Imporsi il silenzio, non reagire a caldo, ma prendere una distanza fra la causa scatenante la collera e la reaZlOne.
Mettersi al posto dell' altro. Scrive Seneca:
Non c'è nessuno che sappia dire a se stesso: "Questa cosa che mi fa adirare o l'ho fatta anch'io o l'avrei potuta fare"; nessuno valuta l'intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall'odio o dalla mira di un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s'è messa a disposizione di altri. Mettiamoci al posto di chi ci fa adirare e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare (32).
Esprimere in modo non violento la collera. Se io dico all'altro '~tu sei pazzo", "tu sei stupido" (cf. Mt 5,22), lo uccido. Sono molto diversi i due seguenti modi di espressione della collera dovuta, ad esempio, al ritardo a un appuntamento tra due amici: "Quando ti aspetto mezz' ora rispetto all' ora convenuta, vado in collera perché nelle relazioni io ho bisogno di fiducia. Mi piacerebbe ora che tu mi dicessi come ti senti ascoltando queste mie parole"; "Quando tu mi fai aspettare mezz'ora rispetto all'ora convenuta mi fai arrabbiare e io esigo che tu sia puntuale la prossima volta, altrimenti non sei più mio amico" (33).
Esercitarsi alla dolcezza e all'umiltà. De-idealizzare gli altri: le visioni idealizzate degli altri nutrono aspettative che possono poi, una volta deluse, suscitare collera.
Non abusare di eccitanti (caffè, alcol) e fuggire anche il rumore, che può eccitare l'aggressività.
Pregare, praticare la preghiera di Gesù (ripetizione dell'espressione: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore"), e in particolare la salmodia ("Quando sei turbato dalla collera, la tua lingua si muova per la salmodia" (34).
Aiutarsi con esercizi corporali di respirazione (con particolare attenzione al movimento di espirazione) e distendendo il corpo, facendolo rilassare.
Immettersi in un cammino di perdono.



[1] Più dettagliatamente sulla parabola del buon samaritano: L. Manicardi, Il volto del sofferente, Qiqajon, Bose 2004 (Testi di meditazione 119), pp. 14-20; cf. anche J. Delorme, Au risque de la parole. Lire les évangiles, Seuil, Paris 1991, pp. 93-124.
[2] E. Lévinas, "Une étique de la souffrance", in Souffrances. Corps et lime, épreuves partagées, a cura di J.-M. von Kaenel, Autrement, Paris 1994, pp. 133-135.
[3] X. Emmanuelli, J. P. Dautun, Prélude à la symphonie du nouveau monde, Odile Jakob, Paris 1998, pp. 99-123.
[4] Cf. F. Boespflug, "La compassion de Dieu le Père dans l'art occidental (XIII-XVII siècles)", in Le Supplément 172 (1990), pp. 123-159.
[5] E. Lévinas, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 115.
[6] Agostino di Ippona, Lettere 99,2.
[7] Cf. J. Derrida, Perdonare, Cortina, Milano 2004.
[8] Cf. L. Basset, Le pardon originel. De l'abime du mal au pouvoir de pardonner, Labor et Fides, Genève 1994; Ead., Le pouvoir de pardonner, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999; Ead., Guérir du malheur, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999.
[9] Cf. P. Ricoeur, "Il perdono può guarire?", in Hermeneutica (1998), pp. 158-159.
[10] Cf. Le pardon. Briser la dette et l'oubli, a cura di O. Abel, Autrement, Paris 1992.
[11] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 200310, pp.177-178.
[12] Cf. J. Monbourquette, Comment pardonner. Pardonner pour guérir, guérir 
pour pardonner, Novalis-Bayard, Montréal-Paris 2001.
[13] A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1949, p. 38.
[14] Cf. T. Lutz, Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002.
[15] Seneca, citato ibid., p. 95.
[16] Ibid., p. 52.
[17] J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, Medusa, Milano 2001, p. 56.
[18] August Willielm von Schlegel, citato in T. Lutz, Storia delle lacrime, p. 39. 19 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, pp. 160-161.
[20] Cf. J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, pp. 47-52.
[21] Cf. I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la compontion dans l'orient chrétien, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1944, da cui sono tratte le citazioni patristiche che seguono.
[22] Regola di Benedetto 20,3.
[23] Cf. Ch. Derouesné, "La nature d'une émotion", in La colère. Instrument des 
puissants, arme des faibles, a cura di P. Pachet, Autrement, Paris 1997, pp. 75-90.
[24] Cf. P. Pachet, "Un sursaut de l'ètre", ibid., pp. II-65; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000.
[25] Agostino di Ippona, La città di Dio 9,5.
[26] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,79.
[27] Cf. L. Manicardi, "L'omicidio è un fratricidio (Gen 4,1-16)", in Parola, Spirito e Vita 32 (r995), pp. 11-26.
[28] Giovanni Crisostomo, Sull'ira e il furore, PG 63,692.
[29] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,82.
[30] Cf. L. Basset, Sainte colère. Jacob, Job, Jésus, Labor et Fides, Genève 2002.
[31] Evagrio Pontico, Trattato pratico 42.
[32] Seneca, Sull'ira III,12,2-3.
[33] Cf. S. e C. Vidal-Graf, La colère, cette émotion mal-aimée. Exprimer sa colère sans violence, Jouvence, Genève 2002.
[34] Giovanni Damasceno, citato in A. e R. Goettmann, Ces passions qui nous tuent. Diagnostic remèdes, Presses de la renaissance, Paris 1998, p. 154.



Luciano Manicardi: "L'umano soffrire" 2




Pensando e pregando per Benedetto XVI e per tutti coloro che soffrono, nel corpo e nello spirito...
* * *
La sofferenza ha qualcosa da dirci
sull’uomo e su Dio
Evangelizzare le parole sulla sofferenza è l’intento di queste pagine, che accostano la nostra esperienza dell’umano soffrire con l’esempio lasciato da Gesù nel prendersi cura dei malati e nel farsi carico della sofferenza per trasfigurarla. Se imparassimo a essere “ospiti” dell’umano che è in noi, ne avremmo cura come di un dono prezioso e saremmo condotti alla sollecitudine verso l’umano sofferente che è nell’altro. Malattia fisica e psichica, crisi nel cammino della vita, sofferenza e invecchiamento non sono “per la morte”, ma appelli al credente perché risvegli la propria umanità rendendola più conforme a quella di Cristo. Nella consapevolezza che, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, “Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione / sazia il corpo e l’anima del suo pane / muore in croce per cristiani e pagani / e a questi e a quelli perdona”.
Luciano Manicardi (Campagnola Emilia 1957), monaco di Bose e biblista, collabora alla rivistaParola, Spirito e Vita. Attento all’intrecciarsi dei dati biblici con le acquisizioni più recenti dell’antropologia, riesce a far emergere dalla Scrittura lo spessore esistenziale e la sapienza di vita di cui è portatrice. Presso le nostre Edizioni ha pubblicato Il corpo e, assieme a Enzo Bianchi, Accanto al malato e La carità nella chiesa.

TRAVERSARE LE CRISI
Accogliere e affrontare la crisi
Il termine crisi ha per noi una connotazione unicamente negativa. L'etimologia ci dice che la parola greca krisis significa "giudizio, separazione, scelta" e il verbo krinein "separare, passare al setaccio". Forse temiamo le crisi perché esse ci giudicano, ci vagliano, ci passano al setaccio.
Fin dall' antichità, il vocabolo è usato in medicina dove indica una repentina modificazione dello stato della malattia, in senso negativo o positivo, favorevole o sfavorevole. Nell'idea di crisi è insita quella, anch'essa sovente temuta, di cambiamento, trasformazione. Ed è importante notare che il cambiamento prodotto da una crisi, quale che ne sia il fattore scatenante, può essere sia negativo che positivo. Certamente la crisi è una situazione, più o meno lunga, di disagio, di malessere, che è sintomo o conseguenza di mutamenti profondi. Per arrivare ad avere uno sguardo meno angosciato sulla crisi e per comprendere che il problema serio, nei suoi confronti, è il come gestirla, occorre percepire la potenzialità positiva in essa insita. La crisi, in verità, è vitale: è sintomo di adattamenti e cambiamenti che ci sono richiesti per vivere. Del resto, la prima e fondamentale crisi che ogni uomo vive è la nascita. La nascita è un momento critico per il bambino, che conosce il cambiamento più radicale della sua futura vita: solo la morte vi assomiglierà. Il bimbo è espulso dal grembo in cui abitava e gettato più o meno dolorosamente, certo in modo traumatico, nella vita; ma anche la madre con il parto vive un momento critico in cui al dolore indicibile segue una gioia altrettanto indicibile, all' angoscia di morte che traversa il viso della puerpera segue la gioia per aver messo al mondo un uomo (cf. Gv 16,21). E anche il padre e il resto della famiglia vivono un momento particolarmente delicato e critico, di fronte a quell' evento. La crisi vissuta dal neonato consiste nel fatto che la nascita è taglio, distacco, separazione corporea dalla madre, rottura vissuta carnalmente; è passaggio da uno stato di unità fusionale nel grembo materno a una nuova situazione in cui egli dovrà pervenire a un'unità relazionale, rispettosa dell' alterità. Venire al mondo è una crisi vitale. Dall'attaccamento primario alla madre il bambino si stacca per arrivare a creare lui dei legami, legami che possono terminare con una separazione (morte, abbandono...); alla separazione dovrà seguire l'elaborazione del lutto per poter ricreare attaccamenti e annodare nuove relazioni e legami (1).
Tutte le nostre esperienze di perdita risalgono alla Perdita Originale, la perdita del legame fondamentale madre-figlio ... Non abbiamo ricordi consci di essere stati nell'utero, o di essercene andati. Ma un tempo è stato nostro, e abbiamo dovuto abbandonarlo. E se il gioco crudele di lasciare ciò che amiamo per poter crescere deve essere ripetuto a ogni nuovo stadio dello sviluppo, esso costituisce anche la nostra prima, forse più dura rinuncia (2).
Nella nostra vita, tante e di diverso tipo sono le crisi (gli eventi a cui diamo nome di "crisi") che possiamo incontrare: morte di persone care, malattie nostre o di persone a noi vicine, separazioni, rotture di legami affettivi, perdita del posto di lavoro, insuccessi scolastici o professionali, eccetera. Possiamo però dire che la crisi è sempre una crisi di identità. È una prova in cui siamo chiamati a rinnovare i nostri equilibri in situazioni esistenziali nuove. Questa idea della crisi come prova va incontro al parallelismo formulato da qualcuno tra crisi e iniziazione. Il ruolo svolto dalle crisi nelle società occidentali, che hanno perso il senso e la prassi dell'iniziazione, sarebbe analogo a quello dell'iniziazione nelle società tradizionali. Scrive Christiane Singer: "Un amico antropologo mi ha riferito queste parole che gli ha detto un africano: 'No, signore, noi non abbiamo crisi, noi abbiamo le iniziazioni''' (3). Le prove e i riti iniziatici fanno sperimentare al "novizio" una morte simbolica attraverso la quale egli potrà rinascere a novità di vita.
L'iniziazione accompagna ogni esistenza umana autentica. Per due ragioni: da un parte, perché ogni vita umana autentica implica crisi in profondità, prove, angosce, perdita e riconquista dell'io, "morte e resurrezione"; dall' altra parte, perché ogni esistenza, per quanto piena, a un certo momento si rivela un'esistenza fallita... In questi momenti di crisi totale, una sola speranza sembra foriera di salvezza: quella di poter ricominciare la propria vita. Si sogna una nuova esistenza, rigenerata, piena e ricca di significato (4).
Un'esperienza religiosa di conversione, è esperienza di crisi: gli equilibri precedenti della propria vita vengono sconvolti e completamente "riassestati" attorno a un nuovo centro. Spesso la crisi ci consente di prendere coscienza della realtà e ci conduce a spezzare le corazze con le quali ci difendevamo dalle asperità della vita. Il processo di illuminazione del Buddha muove i suoi primi passi quando colui che era un principe vissuto sempre nell'isolamento dorato del palazzo regale, lontano dalle brutture dell'esistenza, decide di uscire: una prima volta il giovane è sconvolto dalla visione di un vecchio, quindi dalla visione di un malato, infine di un morto. Ed entra in crisi una visione fasulla del mondo, ovattata, ideale, irreale, per fare spazio, dolorosamente, a una visione reale (5).
Le crisi, scrive Christiane Singer,
avvengono per evitarci il peggio. Come esprimere che cos'è il peggio? Il peggio è aver traversato la vita senza naufragi, è essere rimasti alla superficie delle cose, aver galleggiato nelle paludi dei "si dice", delle apparenze, è non essere mai andato a fondo in una dimensione altra e profonda di sé e delle relazioni (6).
Dobbiamo riconoscere che in mancanza di maestri, spesso sono le crisi che possono insegnarci qualcosa circa la vita. La crisi come maestra di vita!
In una società tutta intenta a distogliere la nostra attenzione da ciò che è importante, che non indica cammini per entrare nella profondità, in cui tutto è sbarrato, non vi è che la crisi per far crollare questi muri che ci accerchiano. La crisi appare come un ariete capace di sfondare le porte di queste fortezze in cui noi restiamo rinchiusi, con tutto l'arsenale delle nostre credenze (7).
Anche la Scrittura ci presenta sia numerosi personaggi che vivono crisi, sia un' ampia gamma di crisi: la chiamata di Abramo lo porta a uscire dallo spazio del noto e delle sicurezze per un' obbedienza che non sa dove potrà por tarlo (cf. Gen 12,1-3; Eb II,8); Elia, nel corso del suo ministero, si trova preda della paura, della depressione e della volontà di morte; nel deserto interiore e geografico in cui si trova, egli ha però il coraggio di non disertare, di lasciare che la crisi faccia il suo lavoro, e in questo modo egli conosce Dio in modo nuovo e la sua vocazione viene rinnovata e approfondita (cf. IRe 19,1-18); così avviene per Giobbe nel disastro della sua esistenza. E si potrebbe continuare a lungo. La crisi ci spoglia, ci fa andare a fondo, abbatte le immagini manufatte e idealizzate di noi, del mondo e di Dio e così ci fa incontrare la verità di noi stessi, della vita e di Dio. Dio agisce in noi e su di noi attraverso eventi e soprattutto attraverso eventi di crisi, eventi scardinanti. Per tutti questi motivi possiamo accogliere l'invito di Claude Monnier:
Non sprecate le crisi! Ben gestite, le crisi sono dei doni del cielo. La crisi è disordine, movimento, fluidità, rottura, e proprio per questo essa può sciogliere ciò che era legato, liberare ciò che era imprigionato. Quando insorge una crisi, spesso gli interessati, invece di cercare di trame vantaggio, si danno da fare per chiudere le falle che si erano aperte, per riparare ciò che non può essere riparato, per riformare la superficie e non il fondo. Il loro combattimento di retroguardia fa affondare il battello che vorrebbero salvare. E una volta che la crisi è passata, ecco che le persone, che nel momento dell' anarchia e della rottura erano pronte a cambiamenti inauditi, non solo non ne accettano più alcuno, ma difendono con le unghie o a colpi di cannone ogni millimetro di terreno, ogni privilegio ... Che dite? Che la crisi vi prende di mira ingiustamente? Vi scongiuro, fate attenzione alla crisi, non sprecatela. Essa è il vostro tesoro, è la vostra possibilità, è l'avvenire del mondo (8).

L'elaborazione della crisi

Vi sono eventi nella vita che scatenano quelle che possiamo chiamare "grandi crisi": la morte di una persona amata, la diagnosi di una malattia incurabile, la nascita di un figlio portatore di handicap, un incidente che dall' oggi al domani sconvolge l'ordinato e tranquillo svolgersi di un' esistenza costringendo una persona a vivere il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle... Come far fronte a questo inatteso-indesiderato? Come imparare a convivere con un dolore e una pena incancellabili? Gli studi (condotti mediante interviste) della dottoressa Elisabeth Kübler-Ross (9) sui malati inguaribili e quelli (basati su centinaia di biografie di malati o portatori di handicap) della pedagoga e formatrice Erika Schuchardt (10) hanno consentito di individuare una sorta di percorso a tappe attraverso cui si dipana il processo di elaborazione della crisi da parte della persona colpita.
Per comprendere di che si tratta occorrerebbe immaginare come noi potremmo reagire a notizie come queste: "Lei è malato di cancro"; "Suo figlio è portatore di un handicap mentale"; "Il suo incidente le ha procurato lesioni tali che lei dovrà ricorrere a una carrozzella"... E tuttavia, queste grandi crisi sono solo la lente di ingrandimento delle crisi dell' esistenza umana in generale. Con la differenza che chi non è mai stato costretto ad affrontare il calvario di una tale crisi può riuscire, durante la sua vita, a eludere situazioni difficili e critiche, per il terrore di dover affrontare la fatica e la sofferenza dell' elaborazione delle proprie crisi, anche se questo sarà al prezzo di fallire se stesso, di mancare il raggiungimento della propria identità. Del resto, dobbiamo riconoscere che molte persone sono impegnate nel corso dell'intera loro vita a mettere in atto tutte le risorse possibili per passare accanto alla vita, per restare alla sua superficie, per non lasciarsene toccare e ferire più di tanto, per non dover andare a fondo di essa, facendo ne così una stucchevole estranea. Spesso sono proprio le grandi crisi che ci obbligano a prendere sul serio la vita, così come spesso per un credente sono gli eventi critici, destabilizzanti, dolorosi dell' esistenza che lo conducono a un' esperienza autentica di Dio: Dio, infatti, spesso agisce su di noi attraverso le crisi, attraverso gli eventi destrutturanti. Quello può divenire il momento - tanto doloroso, quanto vero - in cui il credente passa da una conoscenza di Dio "per sentito dire" (Gb 42,5), una conoscenza che è "imparaticcio di usi umani" (Is 29,13), a un' esperienza personale. È il momento in cui la croce diviene drammaticamente la propria croce (cf. Lc 9,23), in cui la sequela di Cristo ci porta là dove mai e poi mai avremmo voluto andare (cf. Gv 21,18). Possiamo dunque passare in rassegna le fasi di questo lavoro di elaborazione della crisi la cui conoscenza è importantissima per chi si trova vicino a chi è colpito. Va specificato che questo processo è un cammino che può durare un'intera vita, che possono occorrere anni e anni a una persona per traversare anche una sola di queste tappe, che alcune di queste fasi possono coesistere intersecandosi, che ai progressi possono seguire regressioni e che diverse persone si fermano a uno stadio iniziale o intermedio e che non sempre arrivano a completare questo itinerario doloroso ma fecondo. L'elaborazione della crisi consiste infatti nel ridefinire la propria identità e nel dar forma a un assetto esistenziale equilibrato nella nuova e dolorosa situazione che si è venuta a creare.
La prima fase è quella dell'incertezza. Di fronte a un evento o a una notizia sconvolgente, come quella di una diagnosi infausta, la prima reazione è lo shock; ci si trova smarriti, preda del panico, si ripete: "Non può essere vero", "Ci sarà un errore". Ovvio che in questo momento iniziale si tenda a rifugiarsi in modelli di reazione già noti: il colpito tende a negare, a rifiutare, e spesso questo momento di rifiuto è vitale. Il colpito, infatti, non è preparato a far fronte a una situazione tanto inattesa e tragica, non sa come fare e che cosa fare. "Il bisogno del rifiuto esiste, di tanto in tanto, in ogni malato all'inizio di una malattia grave più che verso la fine della vita... Di solito molto più tardi il malato utilizza l'isolamento più del rifiuto" (11). Al tempo stesso il colpito comincia a porsi la domanda: "Che cosa sta veramente succedendo?", "Che cosa significa tutto ciò?", che prelude a un momento successivo di certezza.
Seconda fase, infatti, è la certezza. Si perviene al riconoscimento dell'ineluttabilità della crisi. Anche se, in realtà, alla certezza razionale si accompagna un rifiuto emotivo e si continua a nutrire l'illusoria speranza che le cose non stiano davvero così. "Questa ambivalenza tra il sì razionale e il no emotivo è l'elemento distintivo della fase della certezza" (12). In questa fase è di particolare importanza la comunicazione che le persone vicino al colpito sanno instaurare con lui. Se egli troverà persone che con delicatezza e tatto sapranno parlare con lui della sua situazione reale e con cui egli stesso potrà parlarne e dare voce a ciò che prova e sente, questo lo aiuterà molto nell' opera di mettere in contatto la propria constatazione razionale e la sua reazione emotiva.
Terza fase è quella dell' aggressione, o della collera. Se le prime due sono prevalentemente razionali-cognitive, ora subentrano tre fasi piuttosto emotive. Questa fase è caratterizzata dalla domanda rancorosa: "Perché proprio io?". Il senso di subire un'ingiustizia, l'assurdità e l'inaccettabilità di quanto gli sta avvenendo, la violenza ingiustificata che il colpito sta sentendo contro di sé, si manifestano in collera che non ha bersagli precisi contro cui scagliarsi, sicché tutti possono farne le spese: familiari (e questa è una fase particolarmente dura e difficile da viversi per i familiari della persona colpita), personale curante, Dio. In verità si tratta di comprendere che questa reazione aggressiva cerca di scaricare e far sfogare il carico eccessivo di sentimenti ed emozioni che abitano la persona colpita. Chi è sopraffatto dal proprio dolore può avere la sensazione che i sani, coloro che non sono colpiti, siano coalizzati contro di lui e allora gli succede di scagliarsi contro di loro, in una maniera che queste stesse persone troveranno incomprensibile. Alzando la voce, gridando, lamentandosi, reclamando, protestando, il malato chiederà disperatamente di non essere dimenticato, manifesterà la sua sete di essere riconosciuto come vivente. L'aggressività può manifestarsi anche come auto-aggressività, come desiderio di auto-distruzione, come pensiero di suicidio.
La quarta fase è quella della trattativa, del cercare di venire a patti. Si tratta di un'impennata emotiva in cui il colpito tenta disperatamente tutte le vie per uscire dalla situazione da cui non c'è via d'uscita. Si tratta e si mercanteggia: si va di ospedale in ospedale, si consultano medici e specialisti un po' ovunque nel mondo nel tentativo di comprarsi una speranza, di trovare una nuova medicina; oppure si percorre la "via del miracolo" rivolgendosi a santoni e ciarlatani, si promette a Dio che si cambierà vita se solo si guarirà, oppure si promette che si dedicherà il resto della propria vita alla chiesa... Esistono anche gli avventurieri pseudo-spirituali che fanno opera di sciacallaggio nei confronti di chi è nel bisogno e, sfruttandone la debolezza e l'angoscia, gli sottraggono denaro e beni rinnovando promesse menzognere di miracoli che non avverranno mai. Anche in questa fase è importante non essere soli: si potrebbe arrivare a una totale svendita materiale e spirituale di sé.
Quinta fase è la depressione. Fallito ogni tentativo di eludere l'ineluttabile con le vie della trattativa, la forza emotiva diretta all'esterno cede il passo al seppellimento della speranza: la depressione interviene come senso delle perdite gravissime subite dal malato (il lavoro, la famiglia che deve andare avanti senza di lui...) o come anticipazione delle perdite future e della perdita radicale che sarà la morte. Se nel primo caso di depressione può essere utile incoraggiare e rassicurare il malato, aiutarlo ad avere uno sguardo per quanto possibile positivo su ciò che lascia, nel secondo tipo di depressione il malato preferisce il silenzio, il diradarsi delle visite, la non interferenza degli altri: "Nel dolore che prepara la morte c'è bisogno di poche parole o addirittura di nessuna" (13).
La sesta fase è quella dell'accettazione. Esauriti tutti i tentativi di sottrarsi alla crisi, il colpito è come svuotato, esaurito, e al tempo stesso liberato, giunto al limite. "L'accettazione non deve essere scambiata con una fase felice. È quasi un vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per 'il riposo finale prima del lungo viaggio', come l'ha definito un malato" (14). Non si tratta di rassegnazione passiva e neppure di un consenso a ciò che avviene al malato, ma di cosciente esperienza del proprio attuale limite e della sua accettazione. Dopo le precedenti tre fasi emotive, questa è una fase riflessiva che comporta un attivo accoglimento della propria situazione menomata: si impara ad accettare l'inevitabile.
Se questa fase è l'ultima per i malati terminali, nei casi di persone colpite da altri handicap si possono intravedere altre due fasi: quella dell' attività e quella della solidarietà (15). Il colpito decide di poter convivere con la propria particolare menomazione: egli riconosce che non è affatto decisivo ciò che si possiede, ma quello che si fa con ciò che si ha. Gradino ultimo che attesta della piena riuscita del processo di apprendimento dell' elaborazione della crisi è la decisione di agire responsabilmente nella società, accanto e insieme ad altri.
Certo, il segreto fondamentale della riuscita di tutto il processo di elaborazione della crisi consiste nel vivere non opponendosi, ma accettando ciò che apparentemente è inaccettabile.

La crisi del superamento della metà della vita

Forma specifica della "crisi" che investe l'uomo nella sua esistenza è quella connessa all' età di mezzo e chiamata midlife-crisis, più comunemente" crisi dei quarant' anni" (16). Si tratta di una crisi di tipo depressivo di cui si può trovare una poetica evocazione nelle battute iniziali della Divina commedia che Dante scrisse a trentasette anni:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinnova la paura!
Tanto è amara, che poco più è morte
 (17).
Quale che sia l'interpretazione di questo incipit del capolavoro dantesco, certo qui vediamo una riuscita descrizione della crisi emozionale della mezza età, caratterizzata dall'incontro con la morte. Osservando la vita di molti artisti (poeti, musicisti, scrittori...) si può notare come l'età fra i trentacinque e i quarant'anni sia critica: a volte interviene la morte (Mozart, Raffaello, Chopin, Rimbaud...), oppure si nota un inaridimento della vena creativa (Rossini, attivissimo fino ai quarant'anni, da allora fino alla morte, avvenuta a settantaquattro anni, si chiude in un sostanziale silenzio) o un suo emergere potente (Gauguin lascia il lavoro in banca a trentatre anni e a trentanove è già felicemente inserito nella sua carriera pittorica) o un cambiamento del modo di lavorare o dello stile (Donatello, Goethe...) (18). Ma questa crisi riguarda ogni uomo. Senza poter fissare l'anno in cui cade la crisi, che ha ovviamente un innesto biografico particolare per ogni persona e che è connessa anche a condizioni sociali e culturali (lavoro, famiglia...), tuttavia la fase tra i trentacinque e i quarantacinque anni rappresenta un passaggio dalla giovinezza alla maturità che comporta un sovvertimento dei valori precedenti, è il lasciarsi alle spalle lo zenit della vita, il mezzogiorno dell' esistenza, per iniziare la seconda curva, discendente, della parabola della vita. Subentrano, in questa fase, cambiamenti fisico-biologici e nasce un diverso senso del tempo (si comincia a "contare" non tanto il tempo passato, ma quanto resta da vivere). Per la donna l'approssimarsi della menopausa e il fatto che i figli possano oramai essere adulti o comunque usciti da casa, provoca un mutamento radicale. Questa fase dell' esistenza che, in parallelo con l'adolescenza, alcuni chiamano "maturescenza", è momento di bilanci, spesso in rosso, circa la propria vita lavorativa e affettiva, relazionale e sociale, familiare e spirituale. È fase in cui più facilmente avvengono abbandoni dal ministero presbiterale o dalla vita religiosa e monastica, in cui più di frequente si frantumano matrimoni...
Cala la vista, si aumenta di peso, la sessualità crea qualche problema. È il tempo del cambiamento o della perdita del posto di lavoro, della rottura con il proprio entourage, dei traslochi, della ricerca di ambienti nuovi, dei progetti per buttarsi negli affari o per creare un'impresa in proprio, dei viaggi, della malattia, delle depressioni nervose, dei divorzi. Le pratiche e i principi religiosi dell'infanzia vengono abbandonati a favore di altri percorsi: new age, sette, circoli di crescita personale più o meno liberanti (19).
L'uomo valuta le speranze realizzate e le aspettative andate deluse, si rende conto che di fronte ha un futuro limitato, che molte porte sono oramai irrimediabilmente chiuse, e allora è chiamato ad accettare di non poter realizzare progetti e ideali, ad accettare la parzialità e la limitatezza del proprio essere. In questo periodo dell' esistenza, in cui oramai la prima fase della vita adulta è stata superata, si ha un lavoro, una famiglia, si è preti o religiosi: compito psicologico di questa fase dell' età è il conseguimento dello stato pienamentematuro, ma, mentre si entra nella pienezza, si entra a1Che nella crisi. La morte entra nella nostra vita, e non più solo attraverso la morte degli altri, ma come prospettiva personale, nostra. Un paziente di trentasei anni, depresso, in analisi dallo psicanalista Elliot Jaques dice: "Finora la vita mi è parsa un'ascesa senza fine, con nulla se non il lontano orizzonte in vista. Ora, improvvisamente, mi sembra di aver raggiunto la cima della collina, e là davanti a me si snoda la discesa con la fine in vista, ancora lontana, è vero, ma dove la morte è chiaramente distinguibile presente alla meta" (20). Scrive Jung: "Nella seconda metà dell'esistenza rimane vivo solo chi, con la vita, vuole morire. Perché ciò che accade nell' ora segreta del mezzogiorno della vita è l'inversione della parabola, è la nascita della morte" (21). Carlo Carretto ha saputo esprimere con efficacia la valenza spirituale di questa crisi:
A metà del nostro cammino non sappiamo se andare avanti o indietro; meglio... sentiamo di andare indietro. Solo allora incomincia la vera battaglia e le cose si fanno serie. Si fanno serie perché si fanno vere. Incominciamo a scoprire ciò che valiamo: nulla o poco più. Credevamo di essere generosi e ci scopriamo egoisti. Pensavamo di saper pregare e ci accorgiamo che non sappiamo più dire "Padre". Ci eravamo convinti di essere umili, servizievoli, ubbidienti e constatiamo che l'orgoglio ha invaso tutto il nostro essere. È l'ora della resa dei conti; e questi sono molto magri ... Normalmente ciò capita sui quarant'anni: grande data liturgica della vita, data biblica, data del demonio meridiano, data della seconda giovinezza, data seria dell'uomo: "Per quarant' anni fui disgustato con questa generazione e dissi: 'Sempre costoro sono traviati di cuore'" (Sal 95,10). È la data in cui Dio ha deciso di mettere con le spalle al muro l'uomo che gli è sfuggito fino a ora dietro la cortina fumogena del "mezzo sì e mezzo no". Coi rovesci, la noia, il buio, e più sovente ancora, e più profondamente ancora, la visione o l'esperienza del peccato. L'uomo scopre ciò che è: una povera cosa, un essere fragile, debole, un insieme d'orgoglio e di meschinità, un incostante, un pigro, un illogico (22).
Molte illusioni e idealizzazioni di sé devono oramai cadere: molti progetti non sono più realistici, occorre uscire radicalmente dalle fantasie di onnipotenza. Di fronte a queste difficoltà l'uomo rischia di difendersi con diverse reazioni: la svalutazione (la perdita di potere, forza, bellezza, seduzione, importanza di fronte ai più giovani che incalzano e crescono, conduce a svalutare sé e il proprio lavoro), l'arroccamento al potere (vittime dell'invidia per i più giovani, ci si attacca al potere, si diviene autoritari, intolleranti), la depressione (i bilanci, i paragoni con gli altri, le nostalgie per ciò che poteva essere e non sarà mai più, conducono a reazioni depressive), l'intontimento ("A quarant'anni la stupidità ci attende al varco" (23): si danno casi di persone inebetite e frustrate dall'insuccesso), l'alcolismo (si fa più forte in certuni il desiderio di auto annullamento perseguito con alcol o droghe)... Spesso ci si aliena nell'esteriorità, mentre ci viene richiesto di abitare l'interiorità: "Ciò che il giovane ha trovato e doveva trovare al di fuori, l'uomo maturo lo deve trovare dentro di sé" (24). Il religioso che vive questa crisi può reagirvi rifugiandosi nel ritualismo, nelle forme esteriori, nel rubricismo, in una visione religiosa legalistica e giuridica, pur di evitare il doloroso confronto con l'enigma che lo abita, con l'ombra che è in lui e che, secondo Jung, è "ciò che uno non vorrebbe essere". L'instabilità, il sognare che in un' altra forma di vita (in un altro monastero, in un nuovo matrimonio) tutto andrebbe meglio, è un'altra forma di fuga dal lavoro che la crisi, se accolta, potrebbe fare sul cuore dell'uomo. Fuga, difesa, rimozione: sono i principali motori di reazioni che impediscono a questa crisi di avere un esito positivo. Ma appunto, che fare di fronte a questa crisi che è, in radice, crisi di senso?
Si tratta essenzialmente di accettare realisticamente il trascorrere del tempo, i propri limiti, la responsabilità della propria vita passata. Per il credente tutto questo avviene al cospetto di Dio e nella fede del suo amore manifestato in Gesù Cristo. In particolare, siamo di fronte a una crisi del desiderio (quello che ha a che fare con il senso stesso della vita e con la verità intima dell'uomo) profondo della persona che domanda un itinerario in cui anzitutto riconoscere la propria insoddisfazione, quindi ascoltare le domande che salgono dal proprio cuore, ascolto che dischiude la possibilità di dare un senso rinnovato alla propria vita. Questo richiede che si passi dalla superficie alla profondità, dall'esteriorità all'interiorità: se si perde in estensione, si può guadagnare in profondità. Dare il nome alle proprie paure e integrare la parte non amata di sé, entrare in contatto con la propria sofferenza profonda, unificare parte femminile e maschile presenti in sé, consente di sviluppare una più profonda e unitaria capacità di amore e compassione. E di uscire da questa crisi con un rinnovamento fecondo dell'esistenza e della fede. In profondità, infatti, nella crisi è lo Spirito stesso di Dio che opera nel cuore dell'uomo per condurlo a sempre maggiore verità e autenticità, per condurlo a scoprire la presenza di Dio nel più profondo dell' essere. Una presenza più radicata di ogni paura e angoscia.
Invecchiare: un' avventura spirituale
È difficile definire la vecchiaia: si tratta di un fenomeno molto complesso alla cui "costruzione" concorrono elementi biologici, genetici, fisici, psicologici, patologici, ma anche culturali, sociali, ambientali. E poi è un fenomeno molto personalizzato, che non consente troppe generalizzazioni. Il modo in cui si invecchia è molto influenzato dalle "immagini" della vecchiaia25. L'antico adagio latino secondo cui "senectus ipsa morbus est" ("la vecchiaia è una malattia") è arbitrario, privo di veri fondamenti scientifici e dovrebbe essere smentito anche dal fatto che oggi si invecchia sempre più in buona salute. Che l'anziano abbia più probabilità di ammalarsi e che conosca delle malattie specifiche della vecchiaia è un dato di fatto, ma l'equivalenza vecchiaia-malattia, cosi come vecchiaia-dipendenza sono tutt'altro che scontate.
Eppure mai come oggi la vecchiaia è medicalizzata, e questa è la via per negare la vecchiaia come evento della vita, per non vedervi che un corpo da curare. Vi è un'immagine socialmente costruita della vecchiaia che influenza molto il nostro modo di pensarla, affrontarla e viverla. Avendo perso i ruoli sociali che lo definivano, l'anziano si trova spesso a vivere la vecchiaia come ruolo: è come se la società non riconoscesse più le persone come dirigenti, casalinghe, operai, ma le omogeneizzasse nella categoria sociale dei vecchi, a volte raggruppati in quei "parcheggi per anziani" in cui la parola "speranza di vita" ha qualche cosa di incongruo per non dire di osceno. Il legame vecchiaia-morte, il fatto che sia sentita come quel periodo tra la fine delle attività vitali (pensionamento, fine della capacità riproduttiva della donna, eccetera) e la morte, ne fa una sorta di anticamera di quest'ultima: la vecchiaia parla della morte e questo la rende temibile e porta a rimuoverla. I vecchi sono sentiti anche come ingombranti e inutili. Forse non è un caso che molti anziani si diano la morte o evadano nella demenza senile. La morte dello spirito consente di non aver più presente al proprio spirito la morte stessa. Oggi la vecchiaia non sembra potersi inscrivere all'interno di alcun processo di simbolizzazione culturale. In un contesto culturale che non sa amare la vecchiaia anche il vecchio è indotto a non amarsi: muore socialmente, prima che fisicamente.
Una società che si struttura nella lotta contro il tempo, che inculca l'illusione di restare sempre giovani, che rimuove la morte, non può che rifiutare anche la vecchiaia: e più la morte è sentita come inaccettabile, piùi vecchi, che la rappresentano più da vicino, divengono oggetto di vera emarginazione. Si colloca qui il problema di vivere la vecchiaia come avventura spirituale, di fare della vecchiaia un atto. Si tratta anzitutto di cogliere la vecchiaia come un' età della vita, con le sue prerogative e opportunità proprie. La vecchiaia è vita: imparare a invecchiare è imparare a vivere (26). Jung ha sottolineato la vecchiaia come tempo propizio per l'interiorizzazione e il teologo Karl Barth ha scritto che questa fase della vita offre all'uomo la possibilità di vivere per grazia, non per dovere. Nella vecchiaia semplicemente si è. In questo, la vecchiaia è un'età di verità: non ciò che facciamo ci definisce, ma ciò che siamo.
Inoltre l'uomo è pienamente uomo anche nella vecchiaia: abituati a leggere la vecchiaia sotto il segno del meno e della fine, dimentichiamo che l'anziano è colui che ha vissuto di più di altri, e in ogni caso, che proprio nella debolezza dell'anzianità si fa più forte l'imperativo di custodire e aver cura dell'umano che è in noi e negli altri, che ospita noi e gli altri. E ci ospita in tutte le fasi della vita. È un umano, in noi e negli altri, di cui non siamo padroni, ma ospiti. Accanimento terapeutico ed eutanasia rischiano di dimenticare questa verità assolutamente fondamentale.
I compiti spirituali, attinenti cioè al senso 0ella vita e all'umanizzazione dell'esistenza, sono molteplici nella vecchiaia: far fronte a crisi e cambiamenti, ridisegnare gli equilibri della vita di coppia con la riorganizzazione degli spazi e dei compiti domestici (dopo la pensione e il passaggio dal lavoro ad altre attività), affrontare ed elaborare lutti e perdite (sia di persone care che di possibilità e prestazioni), affrontare poi le diminuzioni e le debolezze connesse alle malattie che possono insorgere, far fronte a paure e terrori: paura del proprio annientamento, del dolore, della dipendenza, della perdita di autonomia, della perdita del controllo sulla propria vita, del potere dei medici, di essere abbandonati, della solitudine, di dover gravare sui propri cari, del dopo-morte... Eppure la vecchiaia può essere un'età più libera di altre e consentire, sempre ovviamente relativamente alle condizioni di salute personali, di ri-organizzare creativamente il proprio tempo e i propri spazi, le attività (viaggi, impegni sociali, letture e studio...): occorre osare progetti e darsi mete da raggiungere, scoprire che debolezza, frugalità, lentezza, possono essere dei valori...
La vecchiaia è un dono che non tutti conoscono (Gesù non l'ha conosciuta): una concezione positiva della vecchiaia come dono porta a coglierla anche come "opportunità" e come compito, e aiuta la capacità di adattarsi alle situazioni di diminuzione e perdita. Il lutto permette di rimpiazzare un' assenza intollerabile con una presenza interiore approfondita. Il compito spirituale della vecchiaia sta in un approfondimento di sé e in una parallela apertura all'esterno, al mondo e agli altri. Occorrerà assumere serenamente la temporalità, la mortalità e la responsabilità della vita passata: tempo di anamnesi, di memoria, la vecchiaia è anche tempo di integrazione, di ripensamento della propria vita per tenerla insieme e accoglierla nuovamente. E questo soprattutto raccontandola, facendone la narrazione. Sentendo che il racconto della mia vita è accolto da altri, anch'io mi sentirò autorizzato ad accogliere la mia vita e a integrare il mio passato pacificandomi con esso. Sappiamo come il racconto può aiutare la guarigione delle ferite interiori e dei ricordi. Il salmo 7 I, che è la preghiera di un anziano, mostra bene tutte queste dimensioni.
E la preghiera è l'ultimo elemento che può aiutare il lavoro spirituale richiesto dalla vecchiaia di assunzione e integrazione della vita davanti a Dio. Allora si potrà scoprire come anche la vecchiaia possa essere "feconda" (Sal 92,15), "ricca di misericordia" (Sal 92,11 Vulg.). Tempo di essenzializzazione, la vecchiaia si mostra così ricca dell' esperienza della misericordia di Dio che diviene tenerezza e attenzione particolarmente acuita per gli altri. Quella tenerezza presente nei vecchi Simeone e Anna che accolgono tra le braccia il piccolo Gesù, la misericordia di Dio fatta carne, e aprono i tempi della salvezza (27). La vecchiaia, più che una fine, allora è un compimento (28) .





[1] Su questo tema è fondamentale l'opera di J. Bowlby, Attachement et perte, I. L'attachement, Presses universitaires de France, Paris I978; 2. La séparation. Angoisse et colère; 3. La perte. Tristesse et dépression, Paris I984.
[2] J. Viorst, Distacchi. Gli affetti, le illusioni, i legami e i sogni impossibili a cui  
tutti noi dobbiamo rinunciare per crescere, Frassinelli, Milano I987 10, pp. 17-18.
[3] Ch. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris I996, p. 43.
[4] M. Elide, La nascita mistica. Riti e simboli d'iniziazione, Morcelliana, Brescia 1988 3, pp. 192-193.
[5] Cf. Asvaghosa, Le gesta del Buddha (Buddhacarita canti I-XIV), Adelphi, Milano 1979, pp. 38-47.
[6] Ch. Singer, Du bon usage des crises, p. 41.
[7] Ibid., p. 42
[8] C. Monnier, "Ne gaspillez pas les crises", in Le Temps Stratégique 2 (1991), P.7.
[9] Cf. E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1976.
[10] Cf. E. Schuchardt, "Far fronte allo scacco: 'Perché proprio io...?'. Il dolore come occasione per imparare a vivere", in Concilium 5 (1990), pp. 84-107.
[11] E. Kübler-Ross, La morte e il morire, p. 54.
[12] E. Schuchardt, "Far fronte allo scacco", p. 91.
[13] E. Kübler-Ross, Uz morte e il morire, p. 104.
[14] Ibid., p. 129.
[15] E. Schuchardt, "Far fronte allo scacco", pp. 96-98.
[16] Più estesamente L. Manicardi, "La crisi dell'età di mezzo", in Parola, Spirito e Vita 49 (2004), pp. 213-234; cf. anche R. Houde, Les temps de la vie. Le développement psychosocial de l'adulte, Gaetan Morin, Montreal-Paris 19993; A. Grun, 40 anni. Età di crisi o tempo di grazia?, Messaggero, Padova 20022; M. Stein, Nel mezzo della vita, Moretti & Vitali, Bergamo 2004.
[17] Dante Alighieri, La divina commedia. Inferno 1,1-6.
[18] Cf. E. Jaques, "Morte e crisi di mezza età", in E. Jaques, O. F. Kernberg, C. M. Thompson, L'età di mezzo, Bollati Boringhieri, Torino I993, pp. I9-54.
[19] J. Gauthier, La crisi dei 40 anni. L'età delle scelte definitive, Elledici, Leumann 200I, pp. 53-55.
[20] E. Jaques, "Morte e crisi di mezza età", p. 33.
[21] C. G. Jung, Anima e morte, in Id., Opere VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 437.
[22] C. Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia 19668, pp. 95-98.
[23] J. Gauthier, La crisi dei 40 anni, p. 33.
[24] Si veda lo scritto di C. G. Jung, Gli stadi della vita, in Id., Opere VIII, pp. 415-432: "Non è possibile vivere la sera della vita seguendo lo stesso programma del mattino, poiché ciò che sino ad allora aveva grande importanza, ne avrà ora ben poca, e la verità del mattino costituisce l'errore della sera" (p. 428).
[25] Cf. R. Scortegagna, Invecchiare, Il Mulino, Bologna 1999.
[26] Cf. P. Tournier, Apprendre à vieillir, Delachaux et Niestlé, Neuchatel I971.
[27] Cf. P. Tremolada, "Zaccaria, Elisabetta, Simeone e Anna: la vecchiaia benedetta da Dio", in Parola, Spirito e Vita 49 (20°4), pp. 125-139.
[28] Cf. S. Zumkeller, "Vieillir et s'accomplir", in Sources 4-5 (1994), pp. 165-171.


GESÙ INCONTRA I MALATI
Gesù e i malati
I vangeli testimoniano che Gesù ha incontrato un gran numero di malati, di persone afflitte da svariate malattie: menomazioni fisiche (zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici), malattie mentali (gli "indemoniati" designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, cioè da una serie di mali la cui origine era attribuita a un impossessamento diabolico), handicap e infermità più o meno gravi, cronici o momentanei (lebbrosi, la donna che soffriva di emorragie, la suocera di Pietro colpita da grande febbre). L'incontro con questa umanità sofferente, con i volti e i corpi sfigurati di cosi tanti uomini, ha costituito per Gesù una sorta di Bibbia vivente, in carne e ossa, da cui egli ha potuto ascoltare la lezione della debolezza e della sofferenza umane, apprendere l'arte della compassione e della misericordia, imparare che la malattia e la sofferenza costituiscono il "caso serio" della vita umana.
I vangeli sottolineano il fatto che Gesù cura i malati (il verbo greco therapeuein, "curare", ricorre 36 volte, mentre il verbo iasthai,"guarire", si trova 19 volte), e curare significa anzitutto "servire" e "onorare" una persona, averne sollecitudine. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l'unicità e si relaziona con la totalità del suo essere, cogliendo ne la ricerca di senso, vedendolo come una creatura capace di preghiera e segnata dal peccato, mosso da speranza e disposto all' apertura di fede, desideroso non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza all'intera sua vita. Il Gesù terapeuta manifesta che ciò che conta è la persona malata, ben più della sua malattia.
Incontrando i malati, Gesù non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma mai che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non chiede mai di offrire la sofferenza a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici: egli sa che non la sofferenza, ma l'amore salva! Gesù cerca sempre di restituire l'integrità della salute e della vita al malato, lotta contro la malattia, dice di no al male che sfigura l'uomo. Così Gesù, "medico della carne e dello spirito" (1), fa delle sue guarigioni un vero e proprio vangelo in atti, delle profezie del Regno.
Inoltre Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso che prova compassione per loro, cioè entra in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri: egli si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (paura di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza fra
 sé e lui, come nel caso dei lebbrosi che Gesù non solo incontra strappandoli dall'isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere! Ai lebbrosi, questi malati che vedevano tutte le sfere della loro vita sconvolte dalla malattia, Gesù si fa vicino, parla con loro, tocca il loro corpo, restituisce loro una vicinanza umana e la comunione con Dio. Così Gesù mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c'è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente. L'atteggiamento di Gesù verso i malati mostra sì la potenza divina che agisce in lui, ma soprattutto la sua misericordia.
Egli poi cerca di portare non solo la guarigione, ma anche la salvezza: la potenza dei suoi atti di guarigione è infatti la potenza stessa dell' evento pasquale, che agisce grazie a un suo indebolimento, a una sua perdita di forza e di energia, insomma a una sua morte. I racconti di guarigione lasciano trasparire la lunghezza e la fatica di tali interventi di Gesù: non si tratta di interventi magici, ma di incontri personali, che costano tempo ed energie fisiche e psichiche per condurre colui che sragiona a entrare in una relazione umanizzata (si pensi all'indemoniato geraseno di Marco 5,1-20), che chiedono a Gesù di informarsi e di avere ragguagli sulla malattia del ragazzo epilettico per poter intervenire (cf. Mc 9,14-29), che richiedono la ripetizione di gesti terapeutici (come nel caso della guarigione del cieco di Betsaida in Marco 8,22-26), che gli sottraggono forze (come nell' episodio della guarigione dell' emorroissa di Marco 5,25-34). È la debolezza Llt1Iana in cui agisce la potenza divina: Gesù guarisce grazie a una morte e a una resurrezione. Ogni guarigione rinvia all'unico grande miracolo che è la resurrezione. Dietro ogni guarigione si staglia la sagoma della croce e della sua paradossale potenza vivificante (2).
Gesù e i lebbrosi
Tra i malati incontrati da Gesù vi sono dei "Lebbrosi": la guarigione di un lebbroso è narrata dai vangeli sinottici (cf. Mt 8,1-4; Mc 1,40-45; Lc 5,12-18); Gesù entra in casa di Simone il lebbroso (cf. Mt 26,6; Mc 14,3); guarisce dieci lebbrosi (cf. Lc 17,11-19); la guarigione dei lebbrosi appare come segno messianico (cf. Mt II,5; Lc 7,22). Anzitutto va ricordato che se per noi il termine "lebbra" designa la lebbra classica, il cui bacillo fu scoperto da Hansen nel 1871, per la Bibbia esso si estende ad abbracciare un'ampia serie di affezioni cutanee e malattie della pelle: micosi, psoriasi, leucodermia, leucoplasia, dermatosi con calvizie, eczema. Si tratta insomma di malattie che si evidenziano sulla pelle e divengono una sorta di marchio visibile, non solo della malattia stessa, ma anche della vergogna a essa connessa (3). Per la Bibbia infatti, la lebbra è un castigo divino che punisce peccati commessi: Maria, sorella di Mosè, divenne lebbrosa a seguito del suo peccato di mormorazione (cf. Nm 12,1-10); David invoca la lebbra sulla casa di Joab come castigo per l'omicidio che questi ha commesso (cf. 2Sam 3,29); in Deuteronomio 28,25-27 la lebbra è elencata fra le maledizioni rivolte al popolo di Dio se non obbedisce alla sua voce. Alla sofferenza per la malattia, il lebbroso unisce anche il dolore e la vergogna per la colpevolizzazione, perché la lebbra lo dichiara pubblicamente peccatore e colpito da Dio. Non è solo vittima della malattia, ma ne è anche colpevole! Questo è lo sguardo che gli altri portano su di lui, questo è lo sguardo che lui stesso ar-r-iva ad assumere su di sé. Del resto la sua identità personale è espropriata dalla sua malattia: egli, dice il Levitico, "porterà le vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: 'Immondo! Immondo!' ... Se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento" (Lv 13,45-46).
Il lebbroso incute paura: può contagiare gli altri e perciò è abbandonato dai familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società; questa lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti dai centri abitati. Normalmente viveva in grotte o capanne e il suo sostentamento era.. :affidato alla carità di parenti o persone misericordiose che portavano cibo e vestiti in questi luoghi, restando però sempre fisicamente a distanza dai contagiati. I rapporti con il lebbroso sono interdetti ed egli è colpito in tutte le sfere relazionali. La sfera fisica: il suo corpo piagato gli diviene estraneo ed egli può arrivare a non riconoscersi più; la sfera familiare, affettiva .e sessuale: estromesso dalla famiglia, ogni contatto con lui è tabù; la sfera sociale: allontanato dalla società, dal lavoro, dalla partecipazione alla vita del villaggio e alle attività comuni; la sfera psicologica e morale: è giudicato peccatore e colpevolizzato; la sfera religiosa: è escluso dalla partecipazione alla vita cultuale del popolo, cui potrà essere riammesso una volta che i sacerdoti ne abbiano constatato la guarigione. Insomma, poiché per la Bibbia la vita è relazione, il lebbroso, le cui relazioni sono compromesse o proibite, è un morto vivente. Egli, dice il libro dei Numeri, è "come uno a cui suo padre ha sputato in faccia" (Nm 12,14). Per la Bibbia la lebbra è il caso di massima squalificazione sociale e personale, è l'insorgenza del caos nella vita di un uomo. Per attualizzare, potremmo pensare ai casi di persone sieropositive. Forse, l'Aids costituisce un parallelo attuale e pregnante della situazione del lebbroso. Ora, se questa è la condizione del lebbroso secondo la Bibbia, è importante vedere come si comporta Gesù davanti a un lebbroso. Particolarmente denso appare il racconto di Marco 1,40-45:
Venne a Gesù un lebbroso e lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Mosso a compassione, [Gesù] stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci". Subito la lebbra scomparve ed egli guado E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda di non dire niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro". Ma quegli, allontanato si, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.

Colpisce anzitutto l'atteggiamento di quest'uomo. Se la malattia a volte indurisce, incattivisce, isola, porta a una sfiducia radicale verso gli altri e la vita, quest'uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù: la guarigione trova nel malato stesso il suo più potente alleato. Anzitutto, egli supera con uno slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Egli trova finalmente un "tu", qualcuno con cui relazionarsi, che non lo lascia nell'isolamento, che gli rivolge uno sguardo non omologato, diverso, di comprensione e condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Quest'uomo non si rinchiude nell'autocommiserazione, non si piange addosso, ma si rimette al buon-volere di Gesù, quasi dicendogli: "Se è tua gioia il guarirmi, tu puoi farlo". Non pronuncia neppure una preghiera che chieda qualcosa, ma una confessione di fede: "Tu puoi". Potremmo parafrasare: se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare. La guarigione emerge qui nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, dà gioia a un altro; cioè che la sua persona e la sua vita è preziosa per un altro.
Gesù allora prova compassione: si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, quella che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio comunicativo, linguaggio affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo 1'organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche luogo dell' esperienza e dello scambio che noi facciamo del mondo e che il mondo fa di noi. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza. L'incontro con l'altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando a grandi passi! Ma anche a caro prezzo!
Gesù, infatti, viene a trovarsi nella situazione del lebbroso: "Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti" (Mc 1,45). Gesù prende su di sé la sofferenza dell'altro e così appare veramente come il Servo sofferente che ha assunto e portato le nostre malattie e infermità. Non a caso il testo di Isaia 53,4, nella versione latina della Vulgata, parla del Servo sofferente come di un lebbroso: "Nos putavimus eum quasi leprosum", "Noi lo considerammo alla stregua di un lebbroso"4. Al cuore della sofferenza e della malattia sorge la luce dell' evento della redenzione.

Gesù e i sofferenti psichici

I vangeli ci narrano che tra le persone incontrate da Gesù, diverse erano "possedute da spiriti impuri" o "indemoniate". Espressioni che spesso designano uomini e donne sofferenti psichicamente, ovvero afflitti da mali che si manifestavano in modo violento o bizzarro o anomalo e che, per questo, erano attribuiti a spiriti maligni. In questo modo anche malattie inquietanti a cui oggi sappiamo dare il nome di epilessia (cf. Mc 9,14-28) o di schizofrenia (se questa si deve riconoscere nell'''indemoniato'' di Gerasa: cf. Mc 5,1-20), potevano essere sentite non solo come un' assurdità di fronte a cui l'uomo era totalmente impotente, ma recuperate all'interno di una coesa visione del mondo, potevano essere rese sopportabili e anche affrontate e combattute: Dio, infatti, è più forte degli spiriti impuri e demoniaci e può sconfiggerli liberando l'uomo.
La narrazione di Marco 5,1-20 appare particolarmente densa e capace di parlare ancora oggi con speciale pregnanza. L'''indemoniato'' va incontro a Gesù, quasi attratto dalla sua personalità, e in questo suo andare da Gesù mostra la sua sete di relazione, di vita, ma una sete che si esprime in modo impetuoso, aggressivo, che suscita più paura che simpatia. Egli desidera incontrare Gesù, ma le sue parole risuonano come minaccia e quasi incitano a respingerlo e ad allontanarsi da lui. Spesso questi malati sono presentati come abitati da una profonda dissociazione interiore che li porta a parlare di sé al plurale ("Che c'è fra noi e te?": Mc 1,24; "Mi chiamo Legione, perché siamo in molti": Mc 5,9). Straniato da se stesso, quest'uomo è stato anche reso straniero rispetto alla sua comunità civile: la società l'ha relegato a vivere tra le tombe, in un cimitero, in un luogo di morte e non di vita, evidenziando così lo stigma che la società appone a persone con tali disturbi. La compagine civile si difende da questo malato che incarna in sé l'impotenza dei sani e rappresenta oscuramente la paura di qualcosa che può riguardare chiunque: allontanandolo, essa esorcizza la paura che egli suscita. L'autolesionismo di quest'uomo che si percuote, la bizzarria del suo girovagare senza requie nella nudità, il suo stravolgere il rapporto con il corpo, lo spazio, il tempo, gli altri, fanno di lui il rappresentante di quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, sia pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria.
Anche le relazioni familiari sono compromesse quando un componente della famiglia è oppresso da tali disturbi, come appare dal grido disperato del padre del ragazzo epilettico che si rivolge a Gesù implorando: "Abbi pietà di noi e aiutaci" (Mc 9,22).
Gesù non si sottrae alle tensioni profonde che l'incontro con questa persona suscita: egli accoglie le urla e le invettive dell'uomo, non fugge di fronte alla violenza verbale, non si lascia intimidire dalla pericolosità dell'uomo o bloccare dall' espressione esterna del malessere, ma ascolta la sofferenza da cui nascono le grida che proclamano il rifiuto della sua persona sentita come una minaccia: "Non tormentarmi!" (Mc 5,7); "Sei venuto a rovinarci!" (Mc 1,24). Significativamente, gli atteggiamenti di difesa e di non coinvolgimento che la società ha mostrato nei suoi confronti, sono ora gli atteggiamenti che il malato oppone a Gesù.
Gesù guarisce questa persona non in modo magico, ma con l'arte e la fatica dell'incontro e del dialogo. Nelle guarigioni operate da Gesù non vi è nessuna traccia di ricorso alla magia. Non vi è nessuna elaborata invocazione di nomi divini, nessuna sequenza di lettere o sillabe prive di senso, nessuna manipolazione coercitiva di poteri invisibili, cose tutte ampiamente attestate nei papiri magici ellenistici. Non troviamo neppure alcun ricorso a formule tecniche esorcistiche (5). In Marco 5,7 gli elementi sempre ricorrenti nei formulari esorcistici ellenistici dell'epoca sono posti in bocca all'indemoniato: "Gesù, ti scongiuro, per Dio, non tormentarmi". È l'indemoniato stesso che usa la formula esorcistica tecnica "ti scongiuro", che chiama per nome il suo avversario e lo scongiura in nome di Dio ("Per Dio") di non tormentarlo. Siamo di fronte a una demitizzazione delle tecniche esorcistiche allora in voga e a una critica dell'aspetto magico e ritualistico in cui potevano cadere (6).
Gesù scaccia i demoni "con la parola" (Mt 8,16): la sua azione terapeutica avviene all'interno di un colloquio. E, come in un dialogo terapeutico, Gesù inizia chiedendo il nome alla persona (cf. Mc 5,9), cerca cioè di far emergere la sua identità personale, di restituirla a se stessa. Per Gesù la malattia non espropria la persona della propria identità (il malato non è, ad esempio, "un alzheimer"...). A volte Gesù si informa sulla malattia della persona, chiedendo ragguagli ai suoi conoscenti ("Da quanto tempo gli accade questo?": Mc 9,21), sempre spende tempo ed energie in questi incontri in cui con la parola egli scioglie colui che la società voleva legare (cf. Mc 5,3-4). Gesù ascolta, accoglie, sta con, dona il suo tempo, dà la parola, in certo senso presenta "se stesso come farmaco" e così fa dell'incontro lo spazio di trasformazione della persona. La guarigione è anche ritrovamento della relazione e della capacità relazionale. Credendo all'umanità di queste persone, Gesù le personalizza, infonde loro fiducia in se stesse, mostra che un futuro sensato è loro possibile. Vivendo una relazione sensata e normale con loro (senza fusione, ma con la giusta distanza), egli arriva anche a vederle restituite alla capacità di comunicazione con se stesse, con gli altri e con Dio. Né Gesù "si appropria" della persona per cui ha fatto tanto, anzi la restituisce alla sua vita: "Va' nella tua casa, dai tuoi, e annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto" (Mc 5,19). Certo, la guarigione di colui che delirava, girava nudo, si percuoteva e che ora appare "seduto, vestito e sano di mente" (Mc 5,15) ha anche un prezzo sociale: il prezzo simbolizzato dalla perdita dei due mila porci in cui entrano gli spiriti impuri e che affogano nel mare (cf. Mc 5,11-14). "La guarigione profonda dell'uomo chiede un prezzo a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale" (7). E anche quest'ultima osservazione dice l'estrema attualità delle narrazioni evangeliche di guarigioni di "indemoniati".




[1] Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 5.
[2] Cf. v. Fusco, "Dall'esegesi all'ermeneutica: i miracoli in Marco", in Rasse
gna di teologia 6 (1984), pp. 481-49I.
[3] Cf. Levitico, a cura di E. Cortese, Marietti, Casale Monferratto 1982, pp. 65-73; E. Testa, "Le malattie e il medico secondo la Bibbia", in Rivista biblica italiana 1/2 (1995), pp. 253-267.
[4] Cf. E. Bianchi, I derelitti nella Bibbia. I) Gli indigenti che Dio ama. II) I senza dignità nell'Antico Testamento, Qiqajan, Base I988.
[5] Cf. H. Clark Kee, Medicina, miracolo e magia nei tempi del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1993.
[6] Cf. E. Bianchi, "Esci da costui! (Mc 1,21-28)", in Parola, Spirito e Vita I9 (1989), pp. 109-137.
[7] Dal discorso del cardinale Carlo Maria Martini al convegno internazionale "La cittadinanza è terapeutica. Confronto sulle buone pratiche per la salute mentale", tenutosi a Milano nei giorni 15-17 aprile 2002.
 GESÙ E LA MORTE
Gesù e la sua morte

Prima di presentare una riflessione sull'ultima fase della vita di Gesù, sui suoi ultimi momenti, e una lettura dei quattro racconti evangelici della morte di Gesù evidenziando le peculiarità proprie di ciascun vangelo nel narrare l'unico evento, mi pare necessario fare una premessa che, ascoltando l'insieme delle quattro testimonianze evangeliche, mostri come Gesù ha incontrato la morte in diverse forme già durante la sua vita, e come ha vissuto le situazioni di "morte nell'esistenza" che, anche se non coincidono con la morte fisica, tuttavia segnano una morte ugualmente reale e dolorosa. Per la Bibbia, infatti, la morte è l'evento dell'irrelazionalità e c'è morte là dove c'è fine di una relazione, mancanza di salute e libertà, dove la pienezza di vita viene minacciata o spezzata. Questi eventi di morte nella vita hanno influito sulla coscienza di Gesù di fronte alla sua morte e lo hanno preparato a morire, a vivere la sua morte davanti a Dio, a fare della sua morte un atto.
Solo l'uomo muore, l'animale perisce: non ha la morte come morte davanti a sé, né dietro di sé. Solo l'uomo sa di dover morire (1). E questa coscienza può renderlo prigioniero della paura. La Lettera agli Ebrei afferma che il Figlio di Dio, con l'incarnazione, è venuto "a liberare quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2,15). Per chi ha fede, la morte umana, a seguito della morte di Cristo, ha assunto una possibilità nuova di significato. E nelle parole e nei gesti di Gesù morente il credente può trovare la ricapitolazione di tutto ciò di cui potrà avere bisogno negli ultimi momenti della sua esistenza. Ma vediamo come e dove Gesù ha incontrato la morte durante la sua vita (2).
È talmente essenziale la "morte del Signore" nella coscienza degli evangelisti e delle prime comunità cristiane che Matteo colloca la nascita di Gesù in un contesto di morte già decretata su di lui da Erode (cf. Mt 2). La nascita di Gesù e l'emigrazione in Egitto per fuggire la sentenza di morte, già situano la vicenda di Gesù nella luce della morte futura sulla croce. Da subito la vita di Gesù è minacciata e ostacolata.
Gesù ha conosciuto la morte cruenta, per decapitazione, subita da Giovanni il Battezzatore, suo maestro e guida (cf. Mc 6,17-29). Da lui Gesù si fece battezzare, cioè immergere nel fiume Giordano, mostrando così di aderire alla predicazione escatologica ed etica del profeta. Se un discepolo non è da più del suo maestro, ciò che è avvenuto al maestro può avvenire anche al discepolo che ne segue le tracce. In effetti Giovanni, con la sua vita, con la traiettoria della sua esistenza e con la sua stessa morte, ha aperto la strada che Gesù percorrerà, ovviamente adempiendo la sua vocazione assolutamente unica e incomparabile.
Gesù ha incontrato il dolore straziante di una madre che piange il figlio morto (cf. Lc 7,II-17), la fede e la dignità di Giairo, il padre della bambina dodicenne che muore (cf. Mc 5,21-24.35-43), e soprattutto ha vissuto il personalissimo e lancinante dolore per la morte di Lazzaro, l'amico che egli conosceva bene e amava molto: "Gesù amava molto Marta, Maria e Lazzaro" (Gv 11,5). E quando fu di fronte al dolore e al pianto delle due sorelle, anch'egli "scoppiò in pianto" (Gv 11,35). E tra la gente che era presente ci fu chi seppe leggere bene il senso di quel pianto: "Vedi come lo amava" (Gv 11,36). Ma anche questa morte Gesù l'ha accostata nella fede nel Dio che ascolta la preghiera e può dare vita ai morti.
Gesù ha conosciuto anche le morti "anonime", quelle riportate dai casi di cronaca: i galilei che Pilato fece uccidere "mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici" (Lc 13, 1), o i diciotto disgraziati su cui rovinò la torre di Siloe uccidendoli (cf. Lc 13,4). E ha cercato di leggere nella fede queste morti strappandole all'idea che una tale sorte fosse segno di peccato: Gesù non rende la vittima un colpevole.
Secondo molti padri della chiesa Gesù conobbe anche la morte del padre: Giuseppe. Questo però non è affermato dai vangeli ma solo supposto a partire dal silenzio su Giuseppe e dalla sua "sparizione" durante il ministero pubblico di Gesù. Non è pertanto possibile dire nulla di sicuro su questo punto.
Invece è certo che la vita comune itinerante con il gruppo di discepoli che egli ha scelto e chiamato a vivere con sé per l'annuncio del regno di Dio si viene configurando, giorno dopo giorno, come spazio in cui Gesù è contraddetto, incompreso, lasciato solo, rinnegato, tradito. Uno dei discepoli lo consegna alle autorità che lo metteranno a morte. Il primo dei discepoli, quello a cui Gesù ha affidato il compito di confermare nella fede i fratelli e di essere roccia del gruppo, arriva a rinnegarlo. La comunità stessa di Gesù si vede traversata da gelosie, rivalità, desideri di potere e di affermazione, esclusivismo e intolleranza. Secondo la testimonianza di Matteo 27,3-10 la vicenda di Giuda, colui che consegnò Gesù, termina in un tragico suicidio (cf. Mt 27,5). Insomma, anche lo spazio comunitario a cui Gesù ha dato vita, diviene luogo di esperienza di morte.
Gesù ha vissuto anche la sofferenza dovuta al contrasto con le autorità religiose del suo popolo, soprattutto con i sacerdoti, che mal tolleravano le parole e i gesti profetici di Gesù; ha sentito la diffidenza e l'ostilità del potere politico romano verso il gruppo di galilei, suoi discepoli, che potevano essere sospettati di essere dei rivoltosi; ha sperimentato la condizione di marginalità all'interno del panorama del giudaismo del tempo, ma soprattutto ha patito la condanna da parte del Sinedrio, massima istituzione giudiziaria, il tribunale che emette le sentenze di Dio (3). Gli scontri e le polemiche che gruppi avversari gli oppongono, contribuiscono a far sorgere in lui l'acuta coscienza del possibile esito violento della sua esistenza. Coscienza che traspare dagli annunci della sua passione e morte che Gesù pronuncia a misura che avanza nel suo ministero e si avvicina a Gerusalemme, "la città che uccide i profeti" (Lc 13,34).
La stessa lettura delle Scritture, luogo di discernimento della sua vocazione, lo porta a prendere coscienza della possibile fine tragica: i salmi in cui parla il giusto che incontra ostilità e rigetto proprio per la sua giustizia (cf. Sal 22); i canti che mostrano il Servo del Signore incontrare incomprensione, violenza, morte (cf. Is 50,4-9; 53); il brano di Sapienza 2 che parla della morte vergognosa a cui gli empi vogliono condannare il giusto solo perché si mostra diverso da loro.
Il confronto con la morte acquista toni sempre più drammatici quando Gesù, dopo aver concluso la celebrazione pasquale, esce verso il Getsemani, il podere in cui spesso si recava per la preghiera personale (4). Dopo il banchetto pasquale era usanza uscire all' aperto e gustare l'aspetto naturale della festa di Pasqua, quello di festa della primavera, che si aggiungeva a quello storico di memoriale della liberazione e della salvezza. Il gruppo dei discepoli è certamente abitato dal senso della gioia pasquale, ma anche traversato da una tensione spasmodica: l'annuncio del tradimento, il discorso con cui Gesù ha previsto lo sfaldarsi del gruppo comunitario ("Tutti vi scandalizzerete": Mc 14,27), le parole con cui ha preannunciato il dono della sua vita hanno ingenerato nel gruppo incertezza e angoscia. Gesù è triste: se anche affronta la morte nella preghiera e cercando di farne un evento di obbedienza a Dio, tuttavia è preso da paura nei confronti della morte. Sente il vuoto, la solitudine abissale, e chiede ai suoi
 discepoli più prossimi di stargli accanto, di essergli vicino: "Vegliate e pregate con me" (Mt 26,38). Spossato, Gesù incespica, viene meno e prega intensamente: "Abba, Padre, allontana da me questo calice" (Mc 14,36). Nella notte pasquale si bevevano quattro calici facendo memoria di quattro gesti di liberazione operati da Dio al tempo dell' esodo dall'Egitto, ma a Gesù è riservato un quinto calice, il calice dell' amarezza, il calice della morte. anche in quella situazione drammatica Gesù si abbandona alla volontà di Dio: "Non la mia, ma la tua volontà sia fatta" (Lc 22,47). La notte di Pasqua è memoria della notte dell'esodo, che fu "notte di veglia" per Dio (Es 12,42) e diviene notte di veglia per Gesù stesso. Egli chiede anche ai suoi.. discepoli di vigilare, ma non ce la faranno. E arriva Giuda, il discepolo che tradisce con un bacio. Tradisce dicendogli le parole che il discepolo rivolgeva al maestro: "Pace a te mio maestro". E forse già qui muore Gesù: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?" (Lc 22,48). La "morte nel bacio" era stata la morte di Mosè: egli morì, dice letteralmente Deuteronomio 34,5, "sulla bocca di Dio". E la tradizione ebraica ha interpretato quell'espressione come un bacio. Qui il bacio di Dio scompare dietro al bacio di Giuda, questo bacio stravolto nel suo significato di affetto e di dedizione. E la morte appare a Gesù sotto i tratti dell'abbandono dei suoi "amici": "Tutti, abbandonandolo, fuggirono" (Mc 14,50). perfino sulla croce Gesù grida l'abbandono di Dio stesso: "Perché mi hai abbandonato?". Ma egli resta legato e attaccato al Dio che l'abbandona. sulla sua fede, che anticipa la resurrezione, potrà ricostruirsi il tessuto sfilacciato del gruppo dei discepoli e potrà ricostruirsi la loro fede così fragile.

L'ultima fase della vita di Gesù

La vita di Gesù, come la vita di ogni uomo, ha conosciuto una fase finale. I vangeli, pur con differenze rilevanti, testimoniano che questa vita ha conosciuto un finale tragico e scandaloso culminato nella infamante morte di croce. Questo appare con particolare evidenza nei racconti evangelici della passione secondo Matteo e secondo Marco. Colui che ha attirato folle e creato una comunità itinerante di discepoli viene rigettato dalle folle che ne invocano la crocifissione e viene abbandonato dai discepoli che lo lasciano solo. Colui che ha curato e guarito molte persone malate nel corpo e nella mente, ora si trova nell'impotenza di salvare chicchessia. Colui che ha annunciato il vangelo del Regno con potenza di parola e insegnato molte cose alle folle affamate del pane della parola di Dio, ora entra progressivamente nel silenzio. Colui che ha vissuto una vita di fedeltà al Dio unico, si vede sconfessato e condannato dalle legittime autorità religiose del popolo di Dio. Colui che ha sempre nutrito una relazione personalissima e intima di confidenza con il Dio a cui si rivolgeva chiamandolo "Abba", ora gli si rivolge con una domanda che grida l'enigma del sentirsi abbandonato da lui (5). Vi è negli eventi che scandiscono l'ultima fase della vita di Gesù, qualcosa che sembra smentire tutto ciò che Gesù ha vissuto fino allora, tutta la sua fede, il suo amore, la sua speranza. In particolare, gli avversari di Gesù sembrano sintetizzare la sua vita con insulti che mettono in derisione tre piani della vita di Gesù: l'autorità che Gesù ha mostrato durante tutta la sua vita, la sua relazione di salvezza nei confronti degli altri (aiuto, guarigione, perdono), e infine la sua stessa fede, la sua relazione personale con Dio.
"Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso" (Mt 27,39). Con questa provocazione i passanti scherniscono l'autorità di Gesù e, facendo forza sull' evidente impotenza attuale del crocifisso, sembrano annullare e dichiarare falsa anche l'autorità che Gesù ha mostrato in precedenza. Nella loro lettura la croce smentisce l'autorità che ha portato il Nazareno a pronunciare parole di giudizio su chi rendeva il tempio un luogo di mercato e a scacciarne i cambiavalute. L'autorità che emergeva dalle parole di Gesù ("Gesù insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi": Mt 7,29; Mc 1,22) e dai suoi gesti ("Con quale autorità fai queste cose? Chi ti ha dato questa autorità?": Mt 21,23; Mc 11,28), appare ora sconfessata dalla situazione di debolezza e impotenza in cui Gesù sprofonda.
Ma anche la sua relazione buona con gli altri, con le persone che ha incontrato nel cammino della sua esistenza, viene azzerata dalla lettura che ne fanno sacerdoti, scribi e anziani: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso!" (Mt 27,42). Il finale della vita di Gesù sembra autorizzare i suoi avversari a invalidare tutto il bene che Gesù ha fatto in passato, a farlo entrare nel dimenticatoio.
E infine, dopo la sua autorità e la sua relazione con gli altri, perfino la sua fede in Dio viene messa in derisione e in discussione. "Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuol bene" (Mt 27,43). L'aver avuto fiducia in Dio gli viene rinfacciato quasi come una colpa. Questo è l'atto più radicale e invadente di decostruzione e demolizione della vita precedente di Gesù, il più impudico, quello che si permette di giudicare l'intimità e l'ineffabilità della sua relazione con il Padre. L'osservatorio particolare costituito dalla fase finale dell' esistenza di Gesù appare come ciò che consente di leggere come fasulla l'intera sua vita precedente, perfino la sua fede. E così un'intera esistenza vissuta e spesa nella donazione di sé per gli uomini e nella fedeltà obbediente al Padre, nel dare vita e nell'operare giustizia, nell' amare e nel benedire, si trova a essere sepolta sotto il peso dell'infamia che Gesù subisce nei suoi ultimi momenti. Colui che passò sanando molti e benedicendo, ora si trova sprofondato nella maledizione e nell'impotenza.
È così per il Signore, può essere così anche per il discepolo che segue il Signore e che può trovarsi là dove il suo Signore si è trovato. Un'intera vita spesa nel perseguire l'amore di Dio e del prossimo, un'intera vita segnata dalla fede e dall' obbedienza, traversata dal vigore profetico della denuncia delle infedeltà a Dio e dall'instancabile opera di aiuto ai deboli e ai poveri, può venire a trovarsi in una fase finale in cui il credente appare travolto dal male e dal peccato, a causa degli eventi e degli altri. Un servo di Dio può trovarsi in una situazione simile a quella del suo Signore, o perché si fa carico del peccato e del male altrui, quello che gli altri non saprebbero reggere né portare, o perché vittima della calunnia. Viene in mente il caso del cardinale Joseph Louis Bernardin, arcivescovo di Chicago dal
 1982 al 1996, morto di cancro dopo aver subito l'onta di infamanti accuse false (6).
Ma può anche avvenire che una vita tutta segnata dalla ricerca della santità possa essere offuscata da una caduta. O che una vita spesa nell' apostolato conosca nella parte finale il male dovuto all' alienazione mentale o alla demenza. Ora, la verità di un uomo non è mai riducibile a un momento solo, fosse pure quello più vicino alla sua morte. E men che meno può essere riducibile a un momento di debolezza morale o di perdita della salute psichica o fisica. Dietro e dentro ogni uomo vi è sempre un desiderio di amore e di senso, di pienezza e di dedizione che non può essere smentito da circostanze che paiono essere di segno contrario. Un uomo è sempre tutta la sua vita. E questo chiede ai nostri occhi e ai nostri cuori di vincere le tentazioni di giudicare, di dare sentenze, di condannare, di definire, per assumere invece uno sguardo capace di misericordia e soprattutto di longanimità, di memoria e di fede.
Lo sguardo di fede è quello che sa vedere in Gesù crocifisso il Figlio di Dio. Che sa discernere la rivelazione del volto di Dio nel Gesù che subisce ogni sorta di violenza, che appare privato di ogni dignità umana fino a vedere non rispettata neppure la sua morte, che risulta essere condannato dalle autorità religiose e bandito dalla società civile: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio" (Mt 27,55), confessa il centurione ai piedi della croce. Lo sguardo di fede sa vedere la continuità della vita di Gesù anche in quei drammatici momenti finali, sa vedere in lui il profeta anche se ridotto al silenzio dell' agnello afono, sa vedere in lui il maestro anche se privato oramai dei suoi discepoli, sa vedere in lui il Signore anche se privato perfino della sua stessa vita. È lo sguardo che sa riconoscere e dare espressione all' amore e alla fede che Gesù continua a vivere anche allora. È così che, narrando la passione, i vangeli ci presentano un Gesù che si rivolge a Giuda chiamandolo amico (cf. Mt 26,50), che si volge con sguardo pieno di amore verso Pietro che lo ha rinnegato (cf. Lc 22,61), che guarisce il servo del sommo sacerdote ferito da uno che era con lui (cf. Lc 22,50-51), che invoca il perdono per i suoi aguzzini (cf. Lc 23,34), che prega il suo Dio affidandosi interamente a colui di cui ora conosce l'abbandono, quasi gli stesse dicendo: "Mio Dio, tu che mi hai abbandonato, tu solo sei e resti il mio Dio; in te solo, di cui ora sperimento l'abbandono, io spero e metto la fiducia". La vittoria sulla morte con la resurrezione è preceduta da questa vittoria sulla croce che si trova a essere ri-significata da colui che vi viene steso sopra. E Gesù dà senso anche al patibolo della morte vergognosa portandovi la sua vita piena di amore per gli uomini e di obbedienza amorosa al Padre. Vi dà senso, ovvero, la vive nella libertà e nell'amore. Anche l'ultima fase della sua vita, per quanto segnata dal male e difficilmente leggibile come fase di fedeltà a Dio, è ancora traversata dalla forza dell' amore più forte della morte. E questo dà speranza a ogni credente. Quale che possa essere la fase finale della sua esistenza.

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Marco

Riporto il testo del racconto della morte di Gesù secondo il primo vangelo in una traduzione letterale.
Venuta l'ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona. E all'ora nona Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?", che tradotto significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". E alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: "Vedi! Chiama Elia". Allora, un tale, andato di corsa a inzuppare di aceto una spugna e avendola posta su una canna, gli dava da bere dicendo: "Lasciate! Vediamo se viene Elia a calarlo giù". Ma Gesù, emettendo una gran voce, spirò. E il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso.
Ora, il centurione, che era presente di fronte a lui, vedendo che spirò così, disse: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio"
 (Mc 15,33-39).
Gesù è stato crocifisso all'ora terza (cf. Mc 15,25), cioè alle nove del mattino. Il tempo che intercorre fino all' ora sesta, cioè a mezzogiorno, è riempito dagli scherni e dagli insulti dei passanti, dei sommi sacerdoti, degli scribi e anche dei due malfattori crocifissi accanto a lui (cf. Mc 15,29-32). Le tre lunghissime ore di agonia di Gesù morente sono segnate dall' abbandono e dall' assenza di compassione degli umani nei suoi confronti. Quelle ore sono accompagnate non da parole di vicinanza e di consolazione delle persone amate e care, ma dalle parole violente di sconosciuti e avversari. Gesù sprofonda nel silenzio, nell'isolamento e nell'impotenza.
Dall'ora sesta all' ora nona (cioè da mezzogiorno alle tre del pomeriggio) una tenebra scende sulla terra.
 Questa tenebra è anzitutto evocazione simbolica della situazione tragica in cui si trova il giusto appeso alla croce: come per l'uomo sofferente che nel salmo 22 grida l'abbandono di Dio, anche per Gesù ora è notte (cf. Sal 22,3). E tuttavia essa riveste anche un significato teologico più rilevante. Ciò che sta avvenendo sulla croce è un evento che ha a che fare con la storia della salvezza, è un evento escatologico, un evento che dice l'intervento di Dio. Nell' Antico Testamento l'intervento definitivo di Dio nella storia umana è evocato a volte con l'espressione" giorno del Signore". Ebbene, il profeta Amos scrive che "in quel giorno" il Signore farà tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerà la terra in pieno giorno; sarà un giorno di lutto come per la morte del figlio unico (cf. Am 8,9-10). La tenebra indica dunque che l'evento della morte di Gesù riguarda la storia intera dell'umanità, è evento decisivo nella storia della relazione di Dio con il mondo. E questo significa che quest'ora tragica e desolata è anche germinalmente gloriosa e abitata. Nella Bibbia la tenebra è spesso immagine della presenza di Dio. Certo, si tratta di una presenza nascosta, enigmatica, non rassicurante. Inoltre, al momento della morte di Gesù, questa presenza appare anche silenziosa, muta. Se al battesimo la presenza di Dio si era manifestata nei cieli squarciati e nella voce dall' alto che si rivolgeva direttamente a Gesù proclamandolo suo Figlio amato (cf. Mc 1,9-11) e se alla trasfigurazione la stessa presenza di Dio si era svelata nella nube e nella voce che rivolgeva a tutti la medesima proclamazione (cf. Mc 9,7), ora la presenza di Dio nella tenebra resta muta. Dio non dice nulla. Non conferma il cammino di Gesù. Risuonano nella mente le parole degli oranti che nei salmi gridano a Dio: "Perché non rispondi? Perché resti muto?"; "Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo" (Sal 22,3). Abbandono dei discepoli, ostilità degli avversari, assenza di compassione dei compagni di condanna, e soprattutto silenzio di Dio: ecco che tutto questo esplode nel grido forte "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" 7. Marco riporta l'ora di tale grido (le tre del pomeriggio) e perfino le parole aramaiche pronunciate da Gesù: "Eloi, Eloi, lemà sabactàni". Sono le parole del salmo 22,2. Gesù sta pregando. Mentre muore, il suo cuore e il suo pensiero vanno al suo Dio. E si tratta di un grido drammatico: Gesù si appella a Dio contro Dio. Dio resta il suo Dio, Gesù pone la sua fiducia incondizionata nel Dio che sempre è stato il suo Dio e lo è anche ora, nel momento della morte. E tuttavia a lui Gesù grida il suo enigma: "Perché mi hai abbandonato?" (8). La morte di Gesù è segnata da un enigma, da un "perché?". Heinrich Schlier ha commentato con commossa partecipazione tale evento drammatico:
A chi doveva ancora rivolgersi il Gesù abbandonato e reietto, il Gesù tormentato e schernito? A chi se non a Dio, al quale si sono sempre rivolti i giusti e alla volontà del quale egli si era arreso nel Getsemani? Ma, adesso, neppure Dio c'è più per lui! Ora, anche lui lo ha abbandonato. Gesù deve ancora patire anche questo, che Dio gli si sottragga e si nasconda e si spalanchi attorno a lui il tenebroso vuoto del nessuno e del nulla. Ora egli attinge il profondo e beve fino alla feccia il calice della passione. Anche Dio l'abbandona. Egli esperimenta per noi l'abbandono totale. "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Ma neppure in questo momento, egli abbandona Dio! Proprio adesso, nel momento in cui Dio gli fa gustare anche questo: l'essere senza Dio, il dover patire senza Dio e il morire, egli si volge a Dio e si tiene saldo a lui. Prega, non grida nel vuoto, ma a lui, verso di lui! Egli si volge, senza Dio, a Dio! Depone ai piedi di Dio ogni angoscia, e, ora, anche questa tremenda angoscia del morire senza Dio. "Mio Dio, mio Dio...". Proprio così facendo, alla fine, egli diviene per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio e il vincitore della morte senza Dio - per tutti (9).
Sappiamo che ciò che storicamente rendeva le crocifissioni particolarmente macabre e angoscianti erano le grida di rabbia e dolore, le selvagge maledizioni e le esplosioni violente di disperazione delle vittime. Ma Gesù fa del suo grido una preghiera. Tuttavia Marco annota che anche la sua preghiera viene distorta e non compresa: i presenti credono che stia chiamando Elia, che nella pietà popolare ebraica era ritenuto il protettore dei morenti, dei casi disperati. Per deridere Gesù fino alla fine, ecco che uno dei presenti va a inzuppare nell'aceto (o vino acidulo, usato forse a fini anestetici) una spugna per far bere Gesù, ridargli un po' di forza e prolungare cosi la sua agonia e vedere se effettivamente Elia viene a salvarlo. Lo sguardo di fede dell' evangelista sa cogliere in questo gesto un'allusione al destino del giusto sofferente che, nel salmo 69,22, dice: "Nella mia sete mi fanno bere l'aceto". Ma l'agitazione dei presenti viene interrotta dal grido di Gesù che muore. Gesù muore gridando. Ma questo evento, così tragicamente frequente all' epoca, poiché erano molti i crocifissi, manifesta subito la sua qualità teologale: il velo del tempio si squarcia in due dall' alto in basso e il centurione confessa che quell'uomo, morto così "male" era veramente il Figlio di Dio. Il velo di cui si parla era la tenda, la cortina che separava il luogo più interno del tempio, il Santo dei Santi, dal resto del complesso sacro. Nel Santo dei Santi entrava soltanto il sommo sacerdote una sola volta all' anno in occasione del Giorno dell'espiazione. Simbolicamente Marco sta affermando che la comunione con Dio passa oramai attraverso Cristo, non attraverso il tempio. E se il sistema di santità del tempio era basato su separazioni e distinzioni successive e progressive, il corpo di Gesù e la santità che egli vive è inclusiva: egli muore accanto a malfattori, come era stato battezzato in mezzo a peccatori, e a tutti porta la comunione di Dio. Per Marco è proprio vedendo Gesù morire "in quel modo" che il centurione lo confessa Figlio di Dio. Se al battesimo era stata la voce divina a proclamare la dignità filiale di Gesù, sotto la croce è invece la voce di un uomo, di un pagano. Con questa morte Gesù raggiunge ogni uomo e ogni angolo della terra. Oramai non vi è più alcuna situazione di disgrazia o inferno che non possa essere abitata dalla presenza di Dio in Cristo Gesù. E sotto la croce si prepara già la nascita di qualcosa di nuovo: la presenza discreta delle donne discepole, unica presenza fisicamente fedele a Gesù dalla Galilea fino alla fine, già prelude a quell'alba del primo giorno dopo il sabato in cui esse andranno al sepolcro e riceveranno l'annuncio: "È risorto! Non è qui! Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che vi... precede in Galilea: là lo vedrete, come vi ha detto" (Mc 16,6-7).

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Matteo

La narrazione matteana della morte di Gesù presenta significative differenze rispetto a quella di Marco. Eccone tLna versione fedele al testo greco:
Dall 'ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona. Verso l'ora nona Gesù gridò a gran voce, dicendo: "Elì, Elì, lemà sabactàni?", cioè: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Alcuni di coloro che erano là presenti, udito ciò, dicevano: "Costui chiama Elia". E subito uno di loro, andato di corsa a prendere una spugna e avendola inzuppata di aceto e post:a su una canna, gli dava da bere. Ma gli altri dicevano: "Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!". Ma Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce, emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due dall' alto in basso e la terra fu scossa, le rocce furono squarciate, i sepolcri furono aperti e molti corpi di santi addormentati risuscitarono e, uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Ora, il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, vedendo il terremoto e ciò che accadeva, furono presi da grande timore e dicevano: "Veramente questi era Figlio di Dio" (Mt 27.45-54).
La prima parte della narrazione della morte di Gesù secondo Matteo è piuttosto simile a quella di Marco. Matteo, che a differenza di Marco non aveva annotato l'ora della crocifissione di Gesù (cf. Mc 15,25), adesso indica la durata delle tenebre: tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Tre ore di silenzio, di immobilità, in cui l'evangelista non registra né parole né azioni. "Verso" le tre Gesù grida con voce forte le parole che danno inizio al salmo 22. Questo grido paradossale esprime bene il senso della relazione con Dio da parte del credente ebreo, dunque anche di Gesù. Noi siamo abituati a definire il rapporto con Dio una "fede" il cui soggetto è l'uomo. Un uomo crede, oppure no, in Dio. Ma il rapporto con Dio come emerge nei salmi (e Gesù sta pregando un salmo) e in genere nella preghiera biblica, è diverso. Là, il soggetto è Dio. E il rapporto con Dio sgorga da Dio stesso. Sicché anche quando l'uomo dispera di Dio, non può staccarsi da lui. Qui Gesù si sente abbandonato da Dio, e il suo grido dice tale angoscia, ma al tempo stesso egli non può far altro che rivolgersi a quello che rimane il suo Dio. Gesù si manifesta come credente anche nel momento supremo della sofferenza e della morte. E si manifesta anche come obbediente. Così appare dall'espressione utilizzata per indicare il morire di Gesù: "Emise -letteralmente 'lasciò andare' -lo spirito" (Mt 27,50). La morte come gesto di obbedienza! Questa espressione può significare semplicemente il morire di Gesù, ma dato che il termine pneuma ("spirito") in Matteo non ha mai valore antropologico, non si può escludere un riferimento allo Spirito santo e a un senso teologico dell' espressione non distante da quello che troveremo nella narrazione della morte di Gesù secondo Giovanni (cf. Gv 19,30). Questa valenza teologica della morte di Gesù e l'eventuale dono dello Spirito sono in linea con la valenza rivelativa di tale morte che Matteo mette in luce. Morte che comunque è preceduta, come in Marco, dall'incomprensione del grido di Gesù che viene inteso come invocazione di salvezza da parte di Elia (cf. Mt 27.47-49) (10).
Ma ecco la parte più originale della narrazione di Matteo. La morte di Gesù è accompagnata da una serie di eventi sconvolgenti (cf. Mt 27,51-53). Se la lacerazione del velo del tempio era già ricordata da Marco, non così gli altri segni: la terra scossa, le rocce spezzate, i sepolcri aperti, la resurrezione di molti morti, la loro uscita dalle tombe e la loro apparizione a molti in Gerusalemme. Anzitutto va rilevato che i verbi greci usati per descrivere questi eventi sono al passivo: si tratta di una forma linguistica particolare per indicare che il vero soggetto di quanto avviene è Dio. Nella morte di Gesù avviene qualcosa di divino, dice Matteo. La morte di Gesù è l'''ora'' finale della storia, è l'evento escatologico per eccellenza. In effetti Matteo riesce a radunare con mirabile sintesi, nel momento della morte di Gesù, sia la menzione della sua resurrezione che della resurrezione dei giusti. Nel momento della morte ecco i segni della vittoria della vita; al cuore della tenebra si fa strada la luce. La terra intera è coinvolta da ciò che avviene sulla croce. Come la nascita di Gesù secondo Matteo (cf. Mt 2,1-II) era stata salutata da una stella, così la sua morte è accompagnata dallo scuotimento della terra. Come al momento del battesimo di Gesù nel Giordano si erano aperti i cieli (cf. Mt 3,16), ora, al momento della sua morte, si aprono le tombe. Gli eventi elencati da Matteo non vanno intesi in senso storico, ma come segni del significato profondo dell'evento: la morte di Gesù è il crinale della storia umana; essa investe tutto il mondo e apre gli ultimi tempi, i tempi escatologici. E questa morte è indissolubile dalla resurrezione di Gesù ("Dopo la sua resurrezione": Mt 27,53) e dalla resurrezione dei morti. Caratteristica peculiare della narrazione matteana della morte di Gesù è dunque l'anticipazione della resurrezione dei morti. Tutta la storia umana, fino alla consumazione dei secoli (cf. Mt 28,20), trova la sua chiave di lettura nell' evento pasquale, nella morte e nella resurrezione di Gesù. Questa morte è giudizio e salvezza!
I fenomeni naturali elencati da Matteo sono posti in una sequenza logica: prima il terremoto, quindi le rocce che si spaccano, poi le tombe che si aprono, i santi morti che risuscitano, escono dalle tombe e sono visti nella città santa. Certamente Matteo sta affermando che nella morte di Gesù vi è il compimento di profezie veterotestamentarie. Forse vi è l'eco dell' annuncio di Daniele della resurrezione, negli ultimi giorni, di "molti che dormono nella polvere" (Dn 12,2), ma certamente vi è il riferimento alla profezia di Ezechiele 37, 11 - 14. In quella pagina si parla di Dio che soffia il suo Spirito sulle ossa inaridite che rappresentano i figli di Israele. Dio annuncia tramite il profeta: "Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele" (Ez 37,12). La morte di Gesù è evento che anticipa
 e rivela la fine della storia. In questo senso è "apocalisse", cioè non tanto catastrofe o disgrazia, ma rivelazione, svelamento del senso profondo della storia (11). Possiamo pensare che quando, più tardi, Ignazio di Antiochia scriverà che Gesù "fu veramente crocifisso e morì mentre quelli nei cieli, sulla terra e sotto terra stavano a guardare" (12), egli avesse presente la narrazione di Matteo che elenca in successione segni nei cieli (tenebre), sulla terra (velo del tempio, terra scossa e rocce spezzate) e sotto terra (tombe aperte e morti che escono). Coloro che deridevano Gesù attendendo la venuta di Elia per salvarlo, ora sono smentiti da una risposta di Dio infinitamente più potente. I corpi dei santi (ovvero i giusti dell' AT) morti (il testo usa l'eufemismo "addormentati") escono dai sepolcri ed entrano in Gerusalemme, dove furono visti da molti. Cioè, mentre descrive la morte di Gesù, Matteo ne annuncia anche la resurrezione e annuncia anche la resurrezione dei santi morti. Davvero la morte di Gesù è la fine della storia, ma è anche ciò che dischiude il senso di tutta la storia. L'annuncio basilare della fede cristiana per cui Gesù Cristo è morto, risorto e apparso a molti, è il saldo fondamento della fede cristiana nella resurrezione dei morti.
Non a caso il centurione e l'intero corpo di guardia fecero la loro confessione di fede in Gesù "Figlio di Dio" avendo visto il terremoto e tutto ciò che accadeva. La confessione di fede non è individuale, ma collettiva, e non nasce semplicemente dalla visione della
 morte di Gesù (come in Marco 15,39), ma dalla constatazione dei segni che hanno accompagnato tale morte. Il timore che si impadronisce di loro è tipico della reazione davanti al manifestarsi di Dio (cf. Mt 27,54) e la loro confessione di fede parte dalla presa d'atto della potenza di Dio manifestatasi nella debolezza del crocifisso, mentre in Marco è l'esatto contrario. In Marco è la debolezza di Cristo ("Vedendo che spirò così": Mc 15,39) che svela la potenza di Dio.
Ma siamo sempre di fronte all'unico e medesimo mistero della debolezza della croce che rivela la potenza di Dio e il mistero della salvezza.
La morte di Gesù nel Vangelo secondo Luca
Il racconto lucano della morte di Gesù presenta tratti peculiari e specifici sia rispetto a Marco che a Matteo:
Era già circa l'ora sesta e si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo e Gesù, esclamando a gran voce disse: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito". Detto questo, spirò. Ora, il centurione, vedendo l'accaduto, glorificava Dio dicendo: "Veramente quest'uomo era giusto!". E tutte le folle accorse insieme a quella visione, avendo osservato l'accaduto, se ne tornavano percuotendo si il petto. Stavano là tutti i suoi conoscenti, da lontano, e anche le donne che l'avevano seguito insieme fin dalla Galilea, a vedere queste cose (Lc 23.44-49).

La morte di Gesù è preceduta da due segni: il segno cosmico del buio su tutta la terra e il lacerarsi del velo del tempio. Il buio in pieno giorno viene specificato come dovuto a un' eclissi di sole. Si realizzano i segni predetti dai profeti come indicativi del giorno del Signore, il giorno escatologico: "Farò prodigi nel cielo e sulla terra... Il sole si cambierà in tenebre ... prima che venga il giorno del Signore" (Gl 3,3-4); "In quel giorno - oracolo del Signore - farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno" (Am 8,9). A questo segno che avviene nel cosmo si accompagna un segno che avviene nel tempio, nel centro religioso della città santa, Gerusalemme: lo squarcio del velo del tempio. Questo segno in Luca precede la morte di Gesù, una morte che avviene nella preghiera.
Dopo che si è lacerata la tenda che dava accesso al Santo dei Santi, al luogo della comunione più intima con Dio, Gesù mostra di vivere la comunione con Dio con la sua preghiera fiduciosa e serena. Gesù non muore avendo in bocca le parole angosciate del salmo 22, ma un'espressione traboccante di fiducia in Dio tratta dal salmo 31: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito". Nessun grido angosciato di fronte all' assenza da parte di Dio, ma una preghiera di abbandono fiducioso al Signore che esprime la filialità che Gesù ha sempre vissuto: Gesù muore abbandonandosi al Dio che chiama "Padre" (13). Già prima, sulla croce, Gesù si era rivolto a Dio chiamandolo "Padre" e invocando da lui il perdono dei suoi aguzzini (cf. Lc 23,34). Questa invocazione era in bocca a Gesù dodicenne al tempio (Lc 12,49, letteralmente: "lo devo rimanere nelle cose [nello spazio] del Padre mio") e in verità dietro di essa vi è l'esperienza di fede e di preghiera che ha retto tutta la vita di Gesù. La sua morte è in continuità con tutta la sua vita, e questa continuità egli la vive e la esprime nella preghiera, nella sua relazione con il Padre. Nel momento finale Gesù sintetizza in unità tutta la sua vita, passato e presente, e affronta con fiducia il futuro ponendolo nelle mani del Padre. Gesù non subisce la morte, ma la vive come un attivo affidamento a Dio. Gesù, che secondo Luca ha continuato a fare il bene fino alla fine (si pensi alla guarigione dell' orecchio del servo del sommo sacerdote al momento dell'arresto: cf. Lc 22,50-51), muore come un "giusto", cioè certamente come un innocente, ma soprattutto in conformità con il volere divino. Così la sua morte diviene esemplare: negli Atti degli apostoli Stefano muore come Gesù (cf. At 7,59-60). Come si può seguire Gesù nella vita, così lo si può seguire nella morte. La morte di Gesù è esempio delle morti dei martiri. Gesù è il "giusto" servo, la cui morte giustificheràmolti, come afferma Isaia 53,1 I. Ma è anche il Messia, come appare dal suo rivolgersi a Dio come Padre: Gesù è il Figlio che ha vissuto tale filialità nella preghiera, nel dialogo con il Padre. Se subito dopo il battesimo Gesù aveva ascoltato la voce dal cielo che gli diceva: "Tu sei mio Figlio, l'amato, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,22), ora, alla fine del suo ministero e della sua vita, egli si rivolge spesso e intensamente a Dio chiamandolo "Padre" (cf. Lc 22,42; 23,34.46). Gesù è il Figlio di Dio, è il Messia che si rivolge a
 Dio dicendogli: "Tu sei mio Padre" (Sal 89,27; 2Sam 7,14) (14).
Certo se, come riconosce il centurione, Gesù era giusto, la sua condanna è stata una contraddizione. Cogliamo qui un aspetto tipico della passione e della morte di Gesù secondo Luca: Gesù è segno di contraddizione, è colui che svela i pensieri e i sentimenti dei cuori (cf. Lc 2,34-35). La presenza di Gesù suscita una divisione perché obbliga a prendere una posizione. Avviene così anche tra i due malfattori crocifissi con Gesù: uno lo riconosce come Messia e lo prega, l'altro lo bestemmia (cf. Lc 23,39-43). Tutta la narrazione della passione è la storia dello svelamento delle intenzioni dei cuori dei personaggi che incontrano Gesù, i quali sono normalmente colti nella loro incoerenza e nella loro contraddizione. La passione è la storia di una contraddizione: l'innocente è condannato, un omicida viene rilasciato dal carcere, i giudei vogliono la condanna del Messia loro destinato, Pilato riconosce l'innocenza di Gesù e poi lo consegna alla morte, Pietro rinnega tre volte il suo Signore, Giuda tradisce il suo maestro e lo tradisce "con un bacio" (Lc 22,48), cioè con il segno di devozione del discepolo al maestro, le donne che piangono Gesù (le "piangenti", donne che a pagamento seguivano i condannati a morte per fare il lutto su di loro) sono aspramente rinviate a piangere su se stesse e su Gerusalemme (cf. Lc 23,26-31).
Ma questa storia della contraddizione umana di fronte al Figlio di Dio, diviene anche storia dell'instaurazione della verità, del ritrovamento della verità.
E questo avviene proprio alla croce. Croce che per Luca è evento che deve essere contemplato, visto. Egli parla infatti delle folle che "erano accorse a questo spettacolo" (Lc 23,48), usando il termine greco theoria, che indica la contemplazione, ciò che deve esser osservato e contemplato. Ora, dalla visione del Crocifisso le folle sono condotte a un ripensamento dei fatti accaduti e a una loro inedita interpretazione: "Se ne tornavano percuotendo si il petto" (Lc 23,48). Il ritrovamento della verità, della giusta relazione con il Signore passa attraverso una rinnovata visione di sé: di fronte al Giusto condannato a morte emerge la contraddizione del proprio cuore e il ritorno intrapreso altro non è che il movimento della conversione, del cambiare strada. Si esce dalla contraddizione come Pietro che piange amaramente il proprio rinnegamento (cf. Lc 22,62), come il buon ladrone che riconosce il male che ha fatto e la giustizia di Gesù (cf. Lc 23,40-42), come le folle che dopo la visione della croce se ne tornano battendosi il petto e riconoscendo il proprio peccato (cf. Lc 23,48). La tenebra in cui è sprofondato il cosmo nei momenti che precedono la morte del Messia è lo spazio della contemplazione: la tenebra abitata da Gesù (e segno della presenza divina anche nell' AT) diviene rivelazione delle tenebre che sono nel cuore dell'uomo.
In particolare, nel dialogo tra Gesù e il buon ladrone appare che il Messia morente promette al condannato la comunione con lui: "In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43). L'evento della morte viene sottratto alla sua forza isolante, e diviene occasione di comunione. "Con me": la salvezza trova il suo contenuto in queste due parole. Il salmista esprime la sua fiducia in Dio cantando: "Se anche vado in una valle oscura, non temo alcun male perché tu sei con me" (Sal 23,4); Gesù si presenta come Messia affidabile promettendo: "Oggi sarai con me". La morte di Gesù, proprio nella sua irripetibile unicità in quanto morte del Messia e del Figlio di Dio, si rivela decisiva e illuminante per aiutarci a vivere la nostra morte, per innestare la speranza cristiana proprio al cuore dell' evento ineluttabile della fine della vita: "Oggi sarai con me in paradiso" (15).

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni

Il quarto vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici:
Dopo questo, Gesù, sapendo che tutto era oramai compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice: "Ho sete". C'era là un vaso pieno di aceto. Avendo dunque messo una spugna piena di aceto attorno a [una canna di] issopo, [la] portarono alla sua bocca. Quando dunque ebbe preso l'aceto, Gesù disse: "È compiuto", e chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19,28-30).
Il racconto della morte di Gesù è strettamente legato a ciò che precede, come appare dall'espressione iniziale "dopo questo" (v. 28). Ovvero dopo la scena in cui Gesù, dalla croce, si rivolge a sua madre e al discepolo amato. Si tratta di una scena che non deve essere letta banalmente come affidamento della madre che resta sola al discepolo amato e fidato che si dovrà prendere cura di lei. Questa lettura che intende il gesto di Gesù come gesto di bontà e pietà filiale corrisponde in realtà a una griglia morale che non si addice alla profondità teologica del quarto vangelo. Il quarto evangelista ci presenta qui una scena di rivelazione: Gesù "vede" (v.26a), "dice" (v. 26b), "ecco" (v. 27). I tre elementi si trovano sempre in scene di rivelazione. E la rivelazione concerne la costituzione del popolo escatologico di Dio, del popolo messianico che in Cristo trova la sua unità. La scena di Maria sotto la croce rinvia a quella delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12) che si trova all'inizio del quarto vangelo: anche là era presente la madre di Gesù. Ma se a Cana l'ora di Gesùnon era ancora arrivata (cf. Gv 2,4), al Calvario l'ora è giunta ("Da quell'ora": v. 27). Se a Cana Gesù dava il vino, al momento della crocifissione dona il suo sangue. L'alleanza inaugurata a Cana si compie sulla croce16. E alla croce abbiamo la creazione, a opera del Signore, del nuovo popolo di Dio. Il testo presenta dunque anche una valenza ecclesiologica: la chiesa nasce sotto la croce. È il figlio che crea la madre, è il Signore che crea la chiesa. Maria viene stabilita nella maternità spirituale dei credenti. Anche il discepolo amato, il garante della tradizione del quarto vangelo e della comunità giovannea, è collocato all'interno di questa relazione di filialità nei confronti della madre di Gesù. Maria è l'Israele fedele che ha generato il Messia riconosciuto e confessato dai discepoli. Maria sintetizza in sé i due aspetti di figura della sinagoga e di inizio della chiesa (17).
Ebbene è "dopo questo" che il quarto vangelo riporta le ultime parole e gli ultimi gesti di Gesù prima della morte. Una morte che per Giovanni non è una fine ma un compimento: per tre volte ricorre il verbo "compiere" (vv. 28bis.30) che dà una precisa tonalità a tutta la scena.
La morte di Gesù si configura anzitutto come compimento delle Scritture (cf. v. 28) (18). Il compimento, perseguito da Gesù in tutto il suo ministero, si manifesta nella spartizione delle vesti (cf. Gv 19,24; Sal 22,19) come nella costituzione del nuovo popolo di Dio (cf. Gv 19,25-27; Is 60,4-5; 66,8; Bar 4,36-5,9), e infine nel suo stesso corpo morto che sembra incorporare fisicamente il compimento della Scrittura (cf. Gv 19,35-37). Dopo aver infatti annotato che i giudei domandarono a Pilato che venissero spezzate le gambe ai crocifissi perché era la Parasceve, cioè la vigilia della Pasqua, ed essi temevano di restare contaminati se i corpi restavano sulla croce (il condannato a morte che veniva appeso non doveva restare tutta la notte sul patibolo, ma doveva essere sepolto lo stesso giorno per non contaminare il paese: cf. Dt 21,22-23), Giovanni rileva che i soldati spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma non a Gesù stesso che era già morto (cf. Gv 19,31-33). La pratica del crurifragium (spezzare le gambe dei condannati) era volta ad affrettarne la morte: con le gambe spezzate essi non potevano più reggersi, cadevano in avanti, si chiudevano le possibilità di respiro ed essi morivano per asfissia. Gesù, invece, viene colpito da un soldato con un colpo di lancia al costato "e subito uscì sangue e acqua" (Gv 19,34). Ebbene, dopo questo, l'autore del quarto vangelo interviene nella narrazione atte stando che tutti questi eventi non sono stati casuali, ma hanno compiuto le Scritture:
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa di dire il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: "Non gli sarà spezzato alcun osso" (Es 12,46; Nm 9,12). E un altro passo della Scrittura dice ancora: "Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Zc 12,10) (Gv 19,35-37).
Inoltre Gesù compie, nella sua morte, anche la propria missione, e lo proclama: "È compiuto" (v. 30). Gesù ha compiuto l'opera di rivelazione del Padre.
E ha compiuto la sua obbedienza e la sua libertà. Gesù inclina il capo prima di spirare, mentre normalmente dovrebbe avvenire il contrario. Il capo che si reclina sembra alludere a un atto di obbedienza, quell'obbedienza che ha retto tutta la vita di Gesù, le sue parole e le sue azioni perché egli non dice se non ciò che ha ascoltato dal Padre e non compie se non le azioni del Padre. L'obbedienza di Gesù avviene nello spazio della sua libertà, sottolineata dal "sapendo" che dàinizio alla scena. Gesù sa, è pienamente cosciente della morte che arriva e del disegno divino che si compie.
La morte di Gesù appare poi compimento dell' amore. Ciò che era stato profetizzato nel gesto di deposizione delle vesti per inchinarsi davanti ai suoi discepoli e lavare loro i piedi, ora avviene. E Giovanni aveva introdotto la scena della lavanda dei piedi con queste parole: "Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). La croce è il sigillo di una vita donata fino all' estremo, fino alla fine, fina al punto di non ritorno. Gesù l'aveva detto: "Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i pr-opri amici" (Gv 15, 13). E Gesù dona la vita anche per il nemico e continua a chiamare amico colui che g-li si fa nemico, così come lava i piedi anche a Giuda che ha già in animo il tradimento. La croce è l'evento della libertà dell'amore che giunge ad amare il nemico.
E la morte è per Gesù anche il compimento del suo desiderio. Desiderio espresso da quella sete (cf. v. 28) che non sarà estinta da una bevanda ma dall' abbraccio con il Padre. Il testo allude certamente alla sete terribile del crocifisso, ma dietro a quella sete materiale vi è la sete di compiere la volontà del Padre.
Alla luce di tutto questo non stupisce che la morte di Gesù in Giovanni non appaia come una sconfitta, ma come una vittoria: con la sua morte in croce egli ha "vinto il mondo" (Gv 16,33). Anzi, il verbo che Giovanni utilizza- per indicare il morire di Gesù designa l'atto di un v-ivente. Giovanni non dice che Gesù"spirò", ma che" consegnò lo spirito" (v. 30). Si tratta del gesto cosciente e libero di un vivente. L'ultimo gesto di Gesù è ancora un donare: dopo aver donato se stesso, dopo aver- fatto il bene per tutta la sua vita, giunto all'estremo del suo cammino terreno, Gesù ancora dona. E lo spirito che egli dona può benissimo essere inteso come lo Spirito, con la maiuscola, dunque come riferimento allo Spirito santo. La morte di Gesù, da evento di isolamento e di non relazione, diviene transitivamente evento di vita. La morte, come consegna dello Spirito santo, diviene una pentecoste, evento che trasmette il principio della vita spirituale all' esistenza del cristiano. Così si definisce ulteriormente la concezione della morte di Gesù nel quarto vangelo: la morte, la croce è gloria. Gesù appare come un re (si pensi alla corona di spine: cf. Gv 19,2-3), e la sua via crucis è in verità un cammino di intronizzazione regale. La croce è innalzamento e giudizio sul mondo, è un andare al Padre, è un esodo verso il Padre. Una pasqua, un passaggio da questo mondo al Padre. Nella croce, per Giovanni, è già insita l'interezza del mistero pasquale.

[1] Cf. E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia I972.
[2] Cf. X. Léon-Dufour, Face à la mort. Jésus et Paul, Seuil, Paris I979.
[3] Cf. J. Massonet, s.v. "Sanhédrin", in Supplément au Dictionnaire de la Bible XI, Letouzey & Ané, Paris 1986, coll. 1353-1413.
[4] Cf. H. Schuermann, Comment Jésus a-t-il véçu sa mort?, Cerf, Paris 1977; M. Bastin, Jésus devant sa passion, Cerf, Paris 1976.
[5] Cf. B. Gerhardsson, "Jésus livré et abandonné d'après la passion selon saint Matthieu", in Revue Biblique 2 (I969), pp. 206-227.
[6] Cf. J. Bernardin, Il dono della pace. Riflessioni personali, Queriniana, Brescia 1997.
[7] Cf. E. Manicardi, "Gesù e la sua morte secondo Me 15,33-37", in Associazione biblica italiana, Gesù e la sua morte. Atti della XXVII settimana biblica, Paideia, Brescia 1984, pp. 9-28.
[8] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia. Un commentario ai racconti della pas
sione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1999, pp. 1175-1202.
[9] H. Sehlier, La passione secondo Marco, Jaca Book, Milano 1979, pp. 97-98.
[10] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Matteo, Ancora, Milano 1990, pp. 134-147.
[11] Cf. R. A. Monasterio, 
Exegesis de Mateo 27,51b-53. Para una teologia de la muerte de Jesus en el Evangelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980.
[12] Ignazio di Antiochia, Ai Tralliani 9,1.
[13] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia, pp. 1202-1205.
[14] Cf. E. Manicardi, "L'atteggiamento di Gesù nell'imminenza della sua morte nel Vangelo secondo Luca", in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 97-119.
[15] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Luca, Ancora, Milano 1992, pp. 125-146.
[16] Cf. A. Serra, Maria a Cana e presso la croce, Centro di cultura mariana Mater ecclesiae, Roma 1978.
[17] Cf. I. de la Potterie, "La passione secondo Giovanni (18,1-19,42)", in A. Vanhoye, I. de la Potterie, Ch. Duquoc, E. Charpentier, La passione secondo i quattro vangeli, Queriniana, Brescia 19883 pp. 55-71.
[18] Cf. R. Vignolo, "La morte di Gesù nel Vangelo di Giovanni", in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 121-142.
 
MALATTIA E SOFFERENZA: RIPENSARE LA SPIRITUALITÀ

Il corpo: soggetto della vita spirituale

L'incarnazione, al cuore della rivelazione cristiana, afferma che Dio incontra l'uomo nel corpo e che il corpo è la via dell'uomo per incontrare Dio (1). "Entrando nel mondo Cristo dice: 'Tu non hai voluto né sacrificio né offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato'" (Eb 10,5). Il cammino di Dio verso l'uomo, dall' atto creazionale e attraverso l'intera storia di salvezza, è il continuo tendere di Dio alla corporeità: "Il fine di tutto l'agire di Dio è la corporeità", ha affermato il teologo Friedrich Oetinger (2). "Noi siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo", prosegue la Lettera agli Ebrei (Eb 5,10), ovvero, la salvezza non è ottenuta da Cristo mediante la via religiosa dell'economia sacrificale, ma attraverso la via esistenziale del dono, dell' amore e dell' offerta di sé che avviene nel corpo. Oramai, nel Verbo fatto carne (cf. Gv 1,14) il corpo è patrimonio comune di Dio e dell'uomo.
Vivere la condizione umana è vivere la corporeità. E vivere l'obbedienza a Dio significa, per il cristiano, passare attraverso l'obbedienza al proprio corpo. Del resto, come suggerisce il testo della Lettera agli Ebrei, il corpo, nella visione cristiana, non è opacità (come nella visione platonica), ma trasparenza dello spirituale: "Tu mi hai preparato un corpo". Il corpo è rimando di trascendenza, trasparenza del "tu" di Dio. Non un fastidioso fardello, non la prigione dell' anima, ma responsabilità che personalizza. Possiamo dire che il corpo che noi siamo (nel cristianesimo non è possibile pensare il rapporto tra l'uomo e il corpo in termini di avere, di possesso), ma che non viene da noi, è la nostra inscrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è più inalienabilmente mio, non viene da me ma mi rinvia ad altri da me, e mi rinvia anzitutto all'incontro di due corpi che ha dato alla luce il mio corpo, e rinvia al Dio signore e creatore del corpo. Giovanni Paolo II ha affermato: "Il Creatore ha assegnato all'uomo come compito il corpo" (3). A ciascun cristiano è chiesto di divenire il proprio volto - l'elemento più personalizzante del corpo -, realizzando quell'unicità creata e voluta da Dio, e tutto questo in riferimento all'uomo compiuto (cf. Ef 4, 13), Gesù Cristo. L'immagine e somiglianza con Dio trova proprio nella corporeità il suo culmine. Del resto, tutta l'esperienza della salvezza, dalla
 creazione all'incarnazione fino alla resurrezione della carne ha il suo centro nel corpo: "Caro cardo salutis", "La carne è il cardine della salvezza" (4). Alla luce di questa visione si comprende come l'esperienza spirituale sia essenzialmente un' esperienza corporea: non solo non si tratterà di fuggire o negare o, ancora meno, disprezzare il corpo, ma di imparare ad abitarlo in tutta la sua potenzialità relazionale. "Corporeità" indica dunque il soggetto umano nella sua integralità, e designa il corpo individuale della persona come luogo di incontro di una storia che lo precede e in cui si inserisce (un corpo di tradizione), di una società e una cultura in cui egli si situa (un corpo sociale e culturale), di una natura e di un creato che lo accolgono (un corpo cosmico e di natura). "Il più 'spirituale' non avviene, dunque, altrimenti che nella mediazione del più 'corporeo'" (5).
Il lavoro spirituale della vigilanza e della preghiera non può astrarre, pertanto, dal lavoro di ascoltare il proprio corpo, di aprirsi alla memoria di cui esso è portatore, perché noi siamo anche la storia del nostro corpo. E questa storia, che per il credente è anche la storia della relazione di Dio con noi, non risale solo al giorno della nostra nascita, ma al momento del nostro concepimento e ai mesi di vita intrauterina. In noi si sono così depositate tracce di una memoria profonda di ciò che abbiamo patito e sperimentato, vissuto e provato, e che vengono portate alla luce dalle esperienze che facciamo nell' oggi: il corpo è così il libro del tempo su cui restano incise emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è tanto dietro, quanto dentro di noi. La valenza spirituale del corpo è dunque evidente: esso è il nostro modo di essere al mondo, di prendervi parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sue sollecitazioni di gioia o di dolore, cose tutte che plasmano il nostro corpo, fino a renderlo immagine del nostro carattere. Il nostro corpo, che abbiamo ricevuto, è anche costruito da noi e dai nostri incontri, dagli altri e dagli eventi, e il credente lo costruisce anche con Dio, e nella fede vuole fare in modo che l'umanità di Gesù plasmi la sua umanità. La parola facies, "faccia", deriva dal verbo facere, che designa un' attività, e visus,"viso", deriva dal verbo videre, "vedere", e indica che altri ci vedono: noi siamo costruiti dalle relazioni che viviamo; lo sguardo dell'altro, a partire da quello dei genitori fino a quello di Dio che nella fede sentiamo su di noi (si pensi all' esperienza di Maria nel Magnificat: "Ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua serva" [Lc 1,48]), dà forma alla nostra persona.
Dalla concezione biblica discende pertanto una visione unitaria dell'uomo, in cui il corpo non è il rivestimento esteriore di un principio spirituale, né tanto meno uno strumento, ma è in se stesso buono, tanto che se ci si attiene a Paolo, non esiste un peccato del corpo, ma "contro il corpo" (1Cor 6,18), cioè contro la dignità e il valore della persona visibile e chiamata ad agire nel mondo. Non può allora stupire che per la Bibbia il corpo sia il luogo di culto e di preghiera per eccellenza, anzi, sia il soggetto della vita spirituale. L'orante dei salmi prega coinvolgendo tutto il proprio corpo per esprimere la sua totalità di partecipazione
 alla lode divina (cf. Sal 6,3; 35,10); Paolo si rivolge ai cristiani di Corinto . Dicendo loro: "Non sapete che siete tempio di Dio?" (1Cor 3,16), "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo?" (1Cor 6,19). E li esorta: "Glorificate Dio nel vostro corpo" (1Cor 6,20). La preghiera è anche preghiera del corpo, dei sensi, preghiera in cui interiorità ed esteriorità non sono contrapposte, ma in ascolto reciproco, in reciproca interazione: "L'una dimensione prega l'altra di donarle ciò che non è capace di donarsi da sé" (6). È attraverso il corpo e i sensi che il mondo fa esperienza di noi e che noi facciamo esperienza del mondo. Vi è un infinito mistero in ogni nostro senso: nella vista, nell'olfatto, nel gusto, nell'udito, nel tatto. Un mistero afferente all'alterità, la quale ci raggiunge, ci ferisce, ci inabita attraverso i sensi. I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì risiede la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo ha a che fare con i sensi corporei attraverso i quali esso viene esperito da noi: del resto, il significato di un fenomeno è inseparabile dall'accesso che vi conduce. Il corpo ci ricorda l'evento e la realtà spiritualissima per cui ciò che noi siamo sta nello spazio di una relazione e, in definitiva, è dono. "Noi siamo un dialogo" (7) ci dice il nostro corpo. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo.
Questo discorso sul processo che dai sensi conduce al senso ci dice l'intenzionalità del corpo, ovvero il
 fatto che attraverso il corpo noi impariamo e attribuiamo significati al reale: con la vista non vediamo solo colori e forme, ma cogliamo emozioni e messaggi; con il tatto non ci limitiamo ad afferrare oggetti, ma a ricevere e trasmettere tenerezza o altri sentimenti... Quanto all'ascolto, poi, che certamente, nella rivelazione biblica è il senso umano privilegiato perché quello che consente la relazione di Dio con l'uomo, l'alleanza e la conversione, esso tende a inscrivere nel corpo umano, cioè nell'uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola e la volontà divina. Questa è la logica dello Shema' Jisra'el ("Ascolta, Israele": cf. Dt 6,4-9) per cui i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, proclamati in casa e lungo la strada, appesi come pendaglio tra gli occhi, ripetuti ai figli, scritti sugli stipiti delle porte... Attraverso i sensi la parola di Dio raggiunge l'uomo in tutti gli ambiti del suo vivere: personale, familiare, sociale, politico. Un detto rabbinico risalente a rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: "Se la Torà è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai, altrimenti la dimenticherai" (8). Chi infatti si dedica alla Torà, afferma la tradizione ebraica, ne porta i segni nella sua persona:
Proprio come il fuoco lascia un segno sul corpo di chi opera con esso, così le parole della Torà lasciano un segno sul corpo di chi opera con esse. Proprio come coloro che lavorano con il fuoco sono riconoscibili, così i discepoli dei sapienti sono riconosciuti dal loro modo di camminare, dal loro modo di parlare e dal loro modo di vestire (9).
Le cose non stanno diversamente per la tradizione cristiana che attesta nel modo più chiaro possibile che il corpo è il luogo dell'incontro fra Dio e uomo e che l'eucaristia coinvolge tutti i sensi nell' esperienza spirituale dell'incontro nella fede con il Signore morto e risorto. Gusto e olfatto, tatto, vista e udito sono vivificati dallo Spirito santo e divengono capaci di esperienza spirituale. Certo, i sensi devono essere purificati, tenuti vivi, risvegliati, destati perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista deve restare aperta all'invisibile, l'udito dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell'ineffabile, il tatto dovrà accogliere che vi sono realtà inattingibili... E tuttavia i sensi, nella loro materialità e corporeità, hanno un' attitudine intrinsecamente spirituale. Sì, essi possono intontirsi e chiudersi: Gesù parla di occhi che non vedono, di orecchi che non sanno ascoltare, di cuori che si induriscono, in una parola, di corpi che si ottundono. Per svolgere la loro funzione spirituale essi devono restare aperti allo Spirito santo. L'uomo spirituale è appunto colui che tende con tutto il suo essere all' acquisizione dello Spirito. E l'uomo spirituale non sarà rivelato dai riti che pratica o dal contenuto più o meno spirituale delle parole che pronuncia ma, come ricorda un testo della tradizione cristiana orientale, dal suo corpo:
Quando lo Spirito pone la sua dimora in un uomo, questi non può più arrestare la sua preghiera, perché lo Spirito non cessa di pregare per lui. Che lui dorma o vegli, la sua preghiera non si separa dal suo cuore. Mentre mangia, mentre beve, mentre riposa, mentre lavora, mentre è sprofondato nel sonno, il profumo della preghiera esala spontaneamente dal suo cuore (10).
È il corpo che rivela i frutti dello Spirito.

La parola della croce

È Paolo l'autore neotestamentario che maggiormente ha elaborato e approfondito una vera e propria teologia crucis. In particolare, è nel discorso presente nella Prima lettera ai Corinti 1,17-2,16 che l'Apostolo formula l'idea della croce come potenza e sapienza di Dio. Ed è lì che si trova l'espressione unica ed esclusiva di Paolo, "la parola della croce" (1Cor 1,18) (11).
Anzitutto Paolo, quando parla della croce, parla sempre del Crocifisso, di Cristo, non della croce del cristiano (come, ad esempio, in Marco 8,34). Inoltre, sempre egli sottolinea che Gesù non è semplicemente morto, ma che è morto crocifisso. Nella Lettera ai Filippesi 2,8 l'espressione "e alla morte di croce" che specifica il precedente "facendosi obbediente fino alla morte", probabilmente è un'aggiunta della stessa mano di Paolo a un inno cristologico già utilizzato nella comunità cristiana e ripreso dall' Apostolo. Questa specificazione non vuole sottolineare tanto l'inusuale misura di sofferenza e di umiliazione che la morte di croce comportava, ma soprattutto il suo aspetto di scandalo: è il Messia che è morto crocifisso. Questo è scandalo, "lo scandalo della croce" (GaI 5,rr). Dire che il Messia e Salvatore è morto crocifisso significa affermare che è morto nella vergogna, nell'infamia, come maledetto da Dio, scomunicato dal suo gruppo religioso, ritenuto pericoloso per la società civile. Gli storici e i letterati romani dell' epoca parlano della croce come del "supplizio più crudele e orrendo" (12), della "pena estrema e massima riservata agli schiavi" (13): la morte cui conduceva era la "mors turpissima crucis" (14).
Plauto parla spesso della mala crux, della croce come sommo male, "maxima mala crux" (15). La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito ritrovato sui muri di Pompei: "Che tu sia crocifisso". "Dal III secolo a.c., il termine crux diviene una volgare ingiuria negli strati bassi della popolazione; lo si incontra sulle labbra degli schiavi e delle prostitute... L'insulto 'in malam maximam crucem' significava, press'a poco, 'va' al diavolo'" (16). Per la società romana del tempo la croce era dunque il simbolo più disgraziato, terribile e umiliante. Eppure Paolo ne fa l'elemento decisivo centrale dell' agire salvifico di Dio verso l'umanità.
Di più. Per il giudeo, il crocifisso è un maledetto da Dio, come sta scritto nella Lettera ai Galati 3, I 3 (che cita Deuteronomio 21,23): Cristo "è diventato lui stesso maledizione per noi come sta scritto: 'Maledetto chi pende dal legno'". Sono significative le parole dell'ebreo Trifone nel Dialogo scritto da Giustino: "Che il Messia debba essere crocifisso e morire così vergognosamente e ignominiosamente della morte maledetta dalla Legge, noi non possiamo neppure arrivare a concepirlo" (17). Il giudeo Paolo, fariseo osservante, ha vissuto sulla sua pelle questo sconvolgimento teologico e personale al momento della sua "conversione": l'incredibile, anzi l'abominevole, il Messia crocifisso, diviene il centro della rivelazione del volto di Dio. Lo scandalo diviene rivelazione, la disgrazia si fa grazia. Ora, la parola della croce è appunto il vangelo, il messaggio che ha al suo cuore la croce e tutto ciò che essa significa. Senza la croce non c'è vangelo, così come non si dà evangelizzazione scissa dalla croce di Cristo.
Ovvio che quando si parla di croce si intende sempre il Crocifisso, colui che vi è steso sopra, il Figlio di Dio che con la sua vita di amore, di donazione, di obbedienza al Padre, rende sensato anche "il legno criminale" (18). Che questo evento sia rivelazione del volto di Dio e salvezza dell'umanità, Paolo lo connota come follia di Dio. La follia (moria), quella insipienza e idiozia sempre connotate negativamente e fuggite come ripugnanti, trovano per la prima volta un'accezione positiva nella penna di Paolo che parla della pazzia di Dio come più sapiente della sapienza umana e del mondo.
Il cuore del vangelo è scandalo, e oramai tutta la fede cristiana è sotto il segno di questo paradosso scandaloso: si tratta di credere l'incredibile (il Rivelatore di Dio è l'appeso alla croce), di amare chi non è amabile (il nemico), di sperare l'insperabile (la salvezza del mondo sgorga dalla potenza di Dio manifestata nella croce). La croce contesta la razionalità pagana e la religiosità che si nutre di segni e portenti. Alla religiosità che cerca lo straordinario, il miracolistico, Paolo oppone la rivelazione della croce di Cristo; a chi è fiero della propria razionalità e della propria cultura, a chi pone la fiducia nelle facoltà intellettuali, Paolo oppone la rivelazione della croce di Cristo (cf. 1Cor 1,22). E invita a trovare lì, nella croce stessa, che umanamente esprime debolezza e follia, la potenza e la sapienza. Nel testo della Prima lettera ai Corinti Paolo afferma che la potenza di Dio non si manifesta nella resurrezione come correttivo della morte di Cristo, ma è già presente nella crocifissione. Nella debolezza e sconfitta estrema cui Dio espone la propria onnipotenza nel Cristo crocifisso, proprio lì va riconosciuto il gesto radicale della potenza di Dio nel suo agire di svuotamento, di abbassamento, di condiscendenza verso gli uomini. È la potenza dell' amore. Oramai, non esiste più un luogo senza Dio: Dio, in Cristo, ha abitato gli inferi dell' esistenza, e per il credente non esiste più cielo chiuso, ma anche la situazione di inferno esistenziale, di tunnel di sofferenza che non ha fine, di male irrimediabile, può essere vissuta come luogo che è stato abitato da Cristo e dunque come occasione di comunione con lui.
La potenza di Dio che si manifesta nella croce di Cristo (cioè, nel Cristo crocifisso) è potenza di salvezza, cioè che dispiega energie di vita nel credente che,
 dando il nome di croce alla propria sofferenza e unendosi così al Crocifisso, vede agire in lui anche la potenza dell'amore più forte della morte, la potenza della resurrezione. La croce è allora veramente capace di farci conoscere Dio. Scrive Gregorio di Nissa: "La croce è teologa per coloro che hanno uno sguardo penetrante e proclama con la sua forma la potenza sovrana di colui che compare su di lei ed è tutto in tutti" (19). La paolina "parola della croce" mostra così la croce come il luogo della grazia, non certo come un modello da imitare eticamente o da perseguire in una visione masochista. Allora, la parola della croce diviene non solo l'annuncio del Crocifisso, ma anche l'eloquenza della croce, ciò che la croce dice e annuncia. Ed essa annuncia che i pensieri di Dio non sono i nostri, che le sue vie non sono le nostre, che le nostre immagini di Dio devono sempre essere convertite e purificate alla luce del Crocifisso, unica vera, definitiva icona di Dio.
"Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne" (Col 1,24)
È difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito del vangelo, della vita e della predicazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza. E che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermzioni, che poi ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una "spiritualità", erano tratte o fatte derivare da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse a essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l'autorità della parola di Dio contenuta nella Scrittura dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare. E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, e acquisiscono così, a basso prezzo, quell'autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà. Sappiamo, ad esempio, che il paradosso espresso da Paolo nella Seconda lettera ai Corinti 12,10 con le parole: "Quando sono debole - o 'malato' -, allora sono forte", estrapolato dal contesto in cui esso manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale e nella propria personale sequela del Crocifisso la sua preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa "spina nella carne" che lo affligge, ha potuto essere utilizzato per fondare affermazioni non equilibrate sulla malattia e sulla sofferenza. Questo testo tardomedievale ne è una buona espressione:
Se l'uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l'infermità del corpo è la salute dell'anima... Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l'orgoglio svuotato, l'invidia allontanata, la lussuria bandita ... Facendo odiare il mondo essa dispone all'amore di Dio (20).
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee.
È il caso della Lettera ai Colossesi 1,24, normalmente tradotto: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa". Questa traduzione sembra implicare l'idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l'ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: "Io trovo la mia gioia nelle [mie] sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa". Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è a essa che manca qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla
 partecipazione dell'Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è "nella mia carne", cioè alla "mia povera persona umana", come traduce Rinaldo Fabris (21), che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo.
Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama "tribolazioni di Cristo nella mia carne", e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l'annuncio del vangelo e a causa sua e per la chiesa(22).
Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080-1149/1150), commentando la Lettera ai Colossesi, si chiede "dove" manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde:

Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, anzi, in essa tutte le sofferenze trovano la loro pienezza. Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa (23).

La tradizione cristiana fin dall'antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e a esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d'Aquino, nel suo commento alla Lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell' Apostolo:
Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: "Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo" (1Gv 2,2) (24).
Del resto, proprio la Lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell' agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto:
Piacque a Dio di fare abitare in lui [il Figlio] tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo (Col 1,19-20).

Insomma:
Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché 1'Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta e la lettera non cessa di dire il contrario (25).
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l'espressione tradotta dalla Bibbia CEI con "patimenti di Cristo", andrebbe più correttamente resa con "tribolazioni di Cristo". Il termine greco thlipsis non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell' Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni, eccetera. La passione e morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come "sangue", "morte", "croce", "morte in croce", mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall' evento pasquale di Cristo e segnano in particolare l'attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito. Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende diakonos, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l'annuncio e la predicazione della parola di Dio (cf. Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (pathémata: "Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi") e incontra tribolazioni (thlipseis: "Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne") che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l'edificazione della chiesa. E in quel vivere le sofferenze in Cristo e per i cristiani delle sue comunità, egli trova anche la sua paradossale gioia nelle tribolazioni. Capiamo allora che l'espressione "tribolazioni di Cristo" designa le tribolazioni che l'Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio" che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (GaI 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell' Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia - disegno che ha per destinatarie tutte le genti -, ha nel Cristo morto e risorto il protagonista centrale. "Ciò che manca", dunque, "alle tribolazioni di Cristo", ha a che fare con l'attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio.
Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza a ogni carne e fino ai confini del mondo (26).
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all'interno di corrette coordinate di teologia biblica.

Offrire a Dio la sofferenza?

Un' espressione che ricorre frequentemente nei discorsi spirituali cristiani circa la sofferenza e la malattia è quella che chiede o invita a offrire a Dio la sofferenza (27). Che cosa significa questa espressione? La risposta che viene da un malato grave è molto netta: "Non si offre qualcosa di cattivo", ha detto un malato di cancro intervistato da André Sève,
Cristo non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma gli ha offerto ciò che egli diventava in quelle sofferenze: un essere che andava fino al fondo, fino all'estremo, fino al punto più profondo dell'amore, fino a quei vertici di amore che sono capaci di salvare (28).
Questa affermazione sposta l'accento dalla sofferenza all' amore, e questo spostamento è equilibrato ed equilibrante dal punto di vista umano e teologico. Umano: è l'amore che può dare senso anche all'insensatezza della sofferenza. Teologico: la rivelazione cristiana afferma che è l'amore che salva, non la sofferenza. La sofferenza può, infatti, abbrutire, mentre l'amore può umanizzare anche chi vive gravi situazioni di dolore. Questo è verificabile anche nella vita e nella morte di Gesù. Non è la croce e non sono le sofferenze patite nella passione e sulla croce che hanno reso grande Gesù, ma è l'esatto contrario: è la vita di Gesù, l'intera vita di Gesù traversata dall'amore, spesa nell'amare, che ha dato senso anche a quell'abominio che era, che è e che sempre resterà la croce. Strumento di tortura e di pena di morte che uomini comminano ad altri uomini, la croce appare simbolo delle situazioni di sofferenza che disumanizzano, simbolo degli inferi dell' esistenza. Non la croce, ma colui che vi è appeso è veramente importante e decisivo: quella morte diviene eloquente alla luce della vita precedente che la illumina con la luce dell' amore e della dedizione incondizionata agli altri. Il Cristo Signore, colui che "ha fatto bene ogni cosa" (Mc 7,37), che "è passato facendo il bene, guarendo e liberando" (At 10,38), colui che è il "maestro buono" (Mc 10,17), che ha amato i suoi fino all'estremo, fino al punto di non ritorno (cf. Gv 13,1), dà senso alla croce, ovvero anche alle sofferenze fisiche, psichiche, morali, che si sintetizzano nella realtà della croce. Cristo non ha offerto le sue sofferenze, ma ha offerto se stesso, ha fatto della sua vita un' offerta a Dio trovando la propria gioia nell' amare gli altri e questo l'ha fatto sempre, non solo sulla croce: la croce è il culmine di una vita spesa per gli altri, nell'amore e nella dedizione. Il rischio insito nell'atteggiamento ispirato alla disposizione di offrire a Dio la sofferenza è quello del dolorismo, del pensare che la sofferenza in quanto tale abbia un valore salvifico e sia gradita a Dio e, connesso a questo, c'è il rischio dell'immagine di un Dio perverso, sadico, che si compiace della sofferenza che l'uomo patisce fino ad accettarla come offerta gradita. In sostanza il problema è questo: come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta l'umanità del suo figlio, l'uomo? Come può il Dio Padre di Gesù Cristo gradire come offerta ciò che è male per la sua creatura?
Un passaggio del teologo Xavier Thévenot mi pare impostare correttamente la questione:
La consegna spirituale "offri le tue sofferenze" deve conoscere un processo di chiarificazione. La potenza di questa formula è notevole in quanto decentra da sé la persona sofferente e le fa cogliere in un istante che ciò che ha gusto di morte può diventare il luogo di uno scambio con Colui che lei ama. Ma allo stesso tempo, essa rischia di far dimenticare che la gioia di Dio non potrebbe mai consistere nel ricevere ciò che è cattivo, ma nell'accogliere come un dono ciò che costruisce l'uomo sotto l'effetto del suo amore divino riconosciuto. Il "piacere" di Dio è di vedere che la sua presenza misteriosa manifestata nel suo Figlio e attraverso 1'azione del suo Spirito è capace di permettere a quella persona schiacciata dal dolore, di lottare contro le forze di disunione che la sofferenza sviluppa e di ritrovare poco a poco il gusto della vita. Se colui che soffre ha qualcosa da offrire nella sua prova, non sono le sue miserie, le sue malattie, le sue sofferenze - tutte cose che dispiacciono a Dio, come mostra l'atteggiamento di Gesù nel vangelo -, bensì è questo lavoro discreto di Dio in lui. È questa scoperta stupefacente e talvolta anche meravigliata che, se ci si rimette nelle mani di Dio, la vita può ancora sgorgare anche quando il male sembra sommergere tutto (29).
Di fronte alla sofferenza il problema non è anzitutto quello di "offrirla", quasi santificandola immediatamente: e se dietro a questo atteggiamento vi fosse la rimozione della fatica che essa chiede, ovvero, quella di assumerla, di darle un senso, di integrarla nella propria vita, accettando che essa susciti in noi reazioni di rivolta e ribellione? Probabilmente, l'espressione "offrire a Dio le sofferenze" esprime in modo maldestro e troppo abbreviato qualcosa di più complesso e vero: fare, anche della malattia e della sofferenza, un cammino in cui si conosce qualcosa della vicinanza e della consolazione di Dio; continuare, pur con tutte le difficoltà e le intermittenze dovute alla gravità della sofferenza, a nutrire fede, speranza e carità anche nella prova. Ma in verità, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, bensì ciò che ne abbiamo fatto: al cuore di ciò che quella espressione significa in profondo, non vi sono le sofferenze, ma il lavoro interiore e di fede che abbiamo compiuto e che abbiamo lasciato compiere a Dio in noi.
Qui, noi raggiungiamo anche il senso propriamente cristiano dell'offerta. Un senso che ci è svelato dall'eucaristia. L'eucaristia è forse un' offerta che l'uomo fa a Dio? Ha scritto Joseph Ratzinger:
Nell'eucaristia non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta l'uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Dio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro - quasi che ciò non fosse già per principio suo! -, bensì facendoci regalare qualcosa di suo, e riconoscendolo così come unico Signore ... Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano (30).
È Dio che donandoci il suo Figlio unigenito ha offerto a noi la via che ci insegna a vivere e anche ad assumere le contraddizioni della vita cercando di amare sempre e di fare di ogni situazione un' occasione per amare. Gesù al Getsemani non ha offerto la sua sofferenza al Signore, ma ha pregato per essere liberato dalla sofferenza e dalla morte ignominiosa, quindi ha rimesso tutto al Padre nell' atteggiamento di dono di sé, di vita spesa per gli altri e per Dio che ha contraddistinto tutta la sua esistenza. Atteggiamento di offerta, questo, che arriva a comprendere e abbracciare anche il momento della sofferenza e della morte. Tutto può essere vissuto evangelicamente, anche la sofferenza: forse è questo che tenta di esprimere l'espressione "offrire a Dio la sofferenza". Più che offrire a Dio la sofferenza, si tratta di rielaborare dall'interno, nella fede, con l'amore, la sofferenza stessa, nella convinzione che il senso della vita sta nell' amore con cui Dio ci ha amati in Cristo e nell' amore che noi sappiamo vivere e trasmettere. Il filosofo Gabriel Marcel ha scritto:
Io sono incline ad affermare che la sofferenza è un male, ma che 1'anima umana, in certe condizioni, può liberamente, cioè con un atto libero, trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l'anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi su se stessa o sulla sua ferita (31).

Per fare questo lavoro occorre però una base salda che l'uomo non può darsi da se stesso: il cristiano riconosce questa base nell'esperienza di amore di Cristo per lui, un amore più forte della sofferenza e della morte.
La realtà umana e spirituale evocata dall'inadeguata espressione" offrire a Dio la sofferenza", implica l'esperienza di fede di un amore preveniente e di un essere amati anche nella propria malattia e situazione infelice. Insomma, è la passione dell'amore che dà senso alla passione del soffrire. Amare implica sempre una sofferenza. A volte avviene che persone molto malate o gravemente sofferenti sappiano irradiare una luminosità, una gioia di vivere e una capacità di amore che il semplice contatto con loro, il restare accanto a loro anche per poco tempo si rivela essere un' esperienza spirituale e umana di profondo arricchimento: quelle persone hanno saputo innestare la sofferenza nell' amore e far prevalere la passione dell' amore sulla passione del soffrire. E ci trasmettono l'insegnamento grande: l'amore dà senso, e la vita, in tutti i suoi aspetti, ha senso quando diviene un capolavoro di donazione e di amore. Perché allora è una vita beata. E la beatitudine può essere sperimentata, sulle tracce di Cristo, anche nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle afflizioni. Quando si entra nella comprensione della liberante parola: "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20,35), allora il senso della vita tutta, ogni suo momento, è trovato nella capacità di fame un' offerta, un dono. Di fare di sé un' offerta. Fino a trasfigurare ciò che bene non è, come la sofferenza e la malattia.

La volontà di Dio

È sempre molto difficile osare una parola sulla sofferenza, sulla malattia, sulla morte. È difficile avere una parola all'altezza di eventi così gravi come la sofferenza e, soprattutto, la morte. È difficile pronunciare una parola umana, ma anche una parola teologicamente adeguata. Impreparazione e improvvisazione possono portare il visitatore o l'accompagnatore di un malato a pronunciare parole non solo insensate teologicamente e non fondate biblicamente, ma anche offensive o imbarazzanti per la sensibilità del malato. Dire al malato il "privilegio" della sua sofferenza perché questa è segno della predilezione divina, oppure perché questa avvicina maggiormente e unisce misticamente a Cristo crocifisso, o dare l'impressione che la sofferenza in quanto tale sia un valore salvifico in sé, tutto questo significa sostituirsi con violenza al malato nel lavoro di interpretazione dell' evento della sua malattia e veicola !'immagine di un Dio perverso, che certamente non è il Dio narrato da Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi atti, e infine nella sua morte.
Occorrerebbe poi prestare molta attenzione al ricorso alla categoria della "volontà di Dio". Troppo facilmente e velocemente si attribuisce alla volontà di Dio un male, una malattia, una sofferenza, una morte invitando così a un atteggiamento di rassegnazione fatalistica. E così si confonde il Dio cristiano con il fato pagano. "Bisogna accettare la volontà di Dio": questa frase detta al capezzale di un malato, che cosa rivela? L'imbarazzo di chi non sa che cosa dire e pur tuttavia si sente in dovere di dire qualcosa, quasi temendo che il silenzio possa essere una sua personale sconfitta? Spesso il silenzio partecipe è denso di forza comunicativa molto più di qualsiasi parola! Oppure rivela una necessità ("Bisogna") a cui nessuno può sottrarsi e così chiude un discorso troppo rischioso se intrapreso e approfondito? Ma il linguaggio del "si deve", "bisogna", "occorre", "è necessario", elimina l'unica cosa veramente essenziale: la libertà dell'uomo chiamato a scegliere e a situarsi responsabilmente davanti a Dio nelle diverse contingenze e, in particolare, in emergenze così ardue come una malattia. E poi, soprattutto, il riferimento alla "volontà di Dio" che può solo essere accettata, sembra indicare qualcosa di già fissato, di prestabilito, che cade dall'alto, e che non lascia alcuno spazio alla risposta umana, al suo necessario e faticoso articolarsi soprattutto di fronte a eventi dolorosi e tragici come malattie e sofferenze.
Va qui denunciata una concezione purtroppo diffusa della "volontà di Dio" che non risponde in nulla alla rivelazione evangelica. Concezione visibile anche in rapporto al discorso della vocazione che ogni credente è chiamato a cercare e discernere. La vocazione non è un già-dato, prestabilito dagli imperscrutabili disegni celesti e che il credente deve "trovare", "scoprire", quasi come per magia o per fortuna, in una logica da "gratta e vinci". La vocazione, in verità, avviene nell'incontro fra le esigenze evangeliche e la precisa creaturalità della persona. Così, anche di fronte a una malattia da assumere, il "fare la volontà di Dio" avviene all'interno di un plesso di elementi quali la condizione psicofisica del malato, la sua fede, l'ambiente che gli sta accanto e il tipo di accompagnamento e di assistenza di cui gode... In ogni caso, non risponde certo né alla lettera né allo spirito del vangelo l'affermare che Dio vuole la sofferenza dell'uomo. Dio vuole la libertà dell'uomo e la sua umanizzazione; Dio vuole la felicità dell'uomo, una felicità trovata nell' amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni. Una distorsione del messaggio evangelico diffonde l'idea che la volontà di Dio consista unicamente nella "croce", nel "rinnegamento di sé", nell"'umiliarsi", dimenticando che non queste dimensioni di per sé sono ciò che immette nella comunione con Dio, ma solo l'amore, la libertà con cui una persona sceglie di amare e donare la vita accettando anche le sofferenze (e dunque le umiliazioni, i rinnegamenti di sé, la croce) che questo comporta. Non la sofferenza, ma l'amore salva! Non la croce di per sé, che è strumento di morte, salva, ma la vita di colui che vi è steso sopra, la quale dà anche senso alla croce.
Se ci volgiamo al Nuovo Testamento noi vediamo che ciò che Dio vuole è "la salvezza di tutti gli uomini" (1Tm 2,4), è che "chiunque crede nel Figlio abbia la vita eterna" (Gv 6,40), è che "nessuno di questi piccoli si perda" (Mt 18,14). La volontà di Dio è espressa nella vita di Gesù Cristo, l'uomo secondo il cuore di Dio, che cioè adempie l'intenzione di Dio. Così la volontà di Dio non schiaccia, ma eleva l'uomo, non lo paralizza, ma lo dinamizza, non lo disimpegna, ma lo responsabilizza, non lo rende supino, ma suscita la sua libertà, non deprime la sua umanità, ma la esalta. Il Dio rivelato da Gesù Cristo non vuole sacrifici cruenti, ma il libero dono di sé per amore. Così il Cristo, entrando nel mondo, può dire: "Non hai voluto né sacrifici né offerta ... allora ho detto: 'Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà '" (Eb 10,5-7). La volontà, cioè l'intenzione profonda che guida Dio nel suo rapporto con gli uomini, è la salvezza, l'amore, la preoccupazione amorosa. Certo, questo incontrare l'uomo là dove l'uomo è, dunque anche negli inferi dell'esistenza, nel male, nella sofferenza, nella morte, porta Dio stesso, nel suo Figlio, ad abitare queste realtà che ora possono essere vissute dal credente con una speranza nuova. Dio non è un dio sadico che vuole la sofferenza né del suo Figlio Gesù Cristo, né dei suoi figli, gli uomini. Anzi, vuole mostrare che la sofferenza e la morte non hanno l'ultima parola sull'uomo, ma possono essere risignificate in Cristo, vivificate dall' amore. Il Cristo che al Getsemani prega: "Abba, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36; cf. Lc 22,42: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non la mia ma la tua volontà sia fatta"), non indica certo che il Padre voglia la morte cruenta del Figlio, ma che il Figlio, nell' amore per il Padre e nella dedizione alla sua missione, si dispone a viverne anche un esito non voluto e non desiderato facendo la volontà di Dio, cioè amando e donando fino alla fine. La croce è innalzata dagli uomini, è segno del peccato e della violenza umana, dell'inimicizia di cui gli uomini si fanno portatori contro Dio, è un evento non-divino, e tuttavia Gesù arriva a viverla nella libertà e nell' amore. Ha scritto il teologo Dietrich Bonhoeffer:
Certamente non tutto quello che accade è semplicemente "volontà di Dio". Ma alla fine comunque nulla accade "senza che Dio lo voglia" (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio (32).
È stato così per Gesù di fronte alla croce, è così per il cristiano di fronte alle situazioni di malattia, sofferenza e morte che incontra nella sua esistenza. Il cristiano ogni giorno prega le parole del Padre nostro che dicono: "Sia fatta la tua volontà", preghiera che equivale alla domanda dello Spirito santo. Infatti, lo Spirito santo, che è l'intenzione profonda che muove Dio nel suo agire per gli uomini e per il mondo intero, attua e interiorizza negli uomini "la volontà del Padre rinnovandoli dalla vetustà alla novità di Cristo" (33). La volontà di Dio, infatti, si è pienamente manifestata nella vita di Gesù Cristo, nella sua umanità, nella sua persona. E lo Spirito santo è l'energiadivina che ci rende simili al Cristo.
È utile riflettere su queste considerazioni che Dietrich Bonhoeffer rivolse nel 1941, in una lettera circolare, ai suoi ex studenti del seminario di Finkenwalde, oramai dispersi, in occasione della morte di alcuni loro compagni arruolati nell' esercito tedesco:
Di fronte alla morte, non possiamo dire fatalisticamente: "È volontà di Dio". Dobbiamo aggiungere subito il contrario: "Non è volontà di Dio". La morte dimostra che il mondo non è quel che dovrebbe essere, ma che ha bisogno di redenzione. Solo Cristo vince la morte. Nella sua morte, le due espressioni "è volontà di Dio" e "non è volontà di Dio" raggiungono il massimo del paradosso e dell'equilibrio. Dio accetta di lasciarsi coinvolgere in qualcosa che non è la sua volontà e da quel momento in poi la morte deve servire Dio nonostante tutto... Solo nella croce e nella resurrezione di Gesù Cristo la morte è stata ridotta sotto il potere di Dio e costretta a servire il piano di Dio. Non una resa fatalistica, ma una fede viva in Gesù Cristo, che è morto e ancora è risorto per noi, può veramente sbarazzarci della morte (34).

Giustizia, amore e sofferenza di Dio

Che rapporto vi è tra la giustizia di Dio, così spesso affermata nella Scrittura, e la sofferenza? Può essere utile cercare di comprenderlo partendo da una riflessione sullo Spirito di Dio. Nell' Antico Testamento lo Spirito (ruach) santo, lo Spirito di Dio, designa la libera volontà di Dio di entrare in relazione e comunione con la creazione, soprattutto con gli uomini e anzitutto con Israele. Il termine ruach ha senso solo relazionale: la ruach di Dio non è un' entità a sé, ma esprime la presenza attiva del Dio trascendente. Il significato primitivo del termine è quello di "aria", "atmosfera", "spazio", "vuoto", "spazio vitale", tuttavia, il vocabolo mostra anche un altro significato: pathos,"emozione", "passione" (35). Abbinato ad altri termini indica particolari emozioni come "amarezza" (Gen 26,35), "dolore" (Pr 14,10), "esasperazione" (Es 6,9), "afflizione" (1Sam 1,15)... Anche applicato a Dio questo vocabolo può significare pathos. In Isaia 63,10 si dice che i figli di Israele "si ribellarono a Dio e contristarono il suo santo Spirito". Qui la ruach di Dio è lo spirito che può essere toccato dal dolore, è vulnerabile. Il profeta può essere chiamato 'ish ha-ruach, "uomo dello Spirito" (Os 9,7), cioè del pathos divino, che condivide ilpathos divino. Pathos che è la volontà di Dio di partecipare con compassione alle sofferenze dell'uomo. Dio prende così sul serio gli uomini che egli soffre con loro e nei loro peccati viene ferito nel suo amore (36). Lo Spirito di Dio fa sì che Dio non stia fuori del raggio della sofferenza umana. Lo Spirito esprime l'intenzionalità di Dio tutta rivolta all'uomo e alla storia e al mondo; designa la preoccupazione di Dio per il mondo. Questa rivelazione, presente soprattutto nei libri profetici, mostra che il rapporto di Dio con il mondo è di interessamento e di compassione. Alla luce della compassione di Dio si comprende anche la sua ira; la collera di Dio nasce dalla sollecitudine divina per l'uomo: ira e compassione sono correlate. Abacuc dice: "Nell'ira ricordati di avere clemenza" (Ab 3,2). L'ira di Dio esprime la sua sofferenza di fronte al male: essa va letta come manifestazione dell'amore di Dio ferito dall'ingiustizia umana, come sdegno di fronte alla catastrofe del peccato, dell'oppressione, del male. E non è una reazione emotiva o irrazionale di Dio, ma tende a ristabilire la giustizia.
Possiamo verificare tutto questo nella concezione che la Bibbia presenta della giustizia di Dio. Apparirà che la giustizia di Dio si declina come:
1) sofferenza di fronte all'ingiustizia;
2) con-sofferenza di fronte all'oppresso;
3) sofferenza di fronte al fallimento dell'uomo.
1) Tipico della concezione biblica della giustizia è che essa non corrisponde a un atteggiamento di asettica oggettività, ma è impegno appassionato del giudice in favore di colui il cui diritto è calpestato. "Nella Bibbia il giudice non è soltanto una persona che ha la facoltà conoscitiva di esaminare un caso e pronunciare una sentenza; è anche una persona che soffre e pena di fronte all'ingiustizia" (37). La Bibbia, che crede che Dio è "il giudice giusto", afferma che Dio manifesta questa sua giustizia con l'ira: "Dio è giudice giusto, ogni giorno si accende il suo sdegno" (Sal 7,I2).
L'ira di Dio non rinvia al capriccio di Dio, non è un suo difetto di giustizia, ma è espressione del pathos di Dio che è stato ferito dal male perpetrato. Il profeta, che condivide lo scandalo divino di fronte al male e all'ingiustizia, grida, con l'intero suo ministero, che Dio non è indifferente al male! Il grande male è l'indifferenza al male, è l'abitudine al male fino a non vederlo, a non denunciarlo, a farsene complici. La giustizia di Dio è dunque anzitutto sofferenza di fronte all'ingiustizia.
2) Il profeta è una persona che soffre per il danno che è stato arrecato a un altro. La giustizia diviene così compassione verso l'oppresso, verso la vittima del male. La rivelazione biblica presenta Dio come colui che" conosce le sofferenze" del suo popolo (Es 3,7) e che "in tutte le sue [del popolo] sofferenze ha sofferto con loro" (Is 63,9). Dai capitoli iniziali del libro dell'Esodo si evince che Dio è il liberatore di Israele facendosi consofferente con il suo popolo e condiscendente nei confronti del suo popolo. Il Dio biblico èil Dio che consoffre con l'uomo sofferente. È il Dio il cui ascolto del grido dei sofferenti diviene visione, cioè esperienza di sofferenza, passione divina e responsabilità dei sofferenti stessi, e il cui vedere le angosce e l'oppressione dei sofferenti diviene ascolto delle loro sofferenze, diviene un far risuonare in sé, nella vibrazione della compassione, la voce della sofferenza altrui. Nei capitoli 2 e 3 dell'Esodo abbiamo due passaggi singolarmente complementari: in Esodo 2,24-25 si dice, letteralmente, che "Dio ascoltò il lamento [dei figli di Israele] ... Dio vide e Dio conobbe". In Esodo 3,7 la successione dei verbi "ascoltare" e "vedere" è invertita: "Il Signore disse: 'Ho visto l'afflizione del mio popolo in Egitto e ho ascoltato il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze"'. Il conoscere, in cui sfociano la visione che ascolta la sofferenza e l'ascolto che vede il sofferente, indica sia la compartecipazione, la con-sofferenza, che la presa in carica, l'assunzione di responsabilità per il sofferente; i sensi (ascolto, vista) si mobilitano per fare l'unico atto sensato di fronte all'insensatezza della sofferenza di chi soffre: essergli accanto e farsi suo prossimo.
3) Vi è un ultimo aspetto di sofferenza implicato nella giustizia di Dio: la sofferenza di fronte all'ingiusto. Il peccato, il male, l'apostasia feriscono Dio. Il profeta piange di fronte alla rovina a cui il peccato ha condotto il suo popolo; Gesù piange su Gerusalemme perché il suo peccato le prepara giorni di rovina (cf. Lc r 9,4 r -44). La giustizia di Dio si configura così come sofferenza di fronte al fallimento dell'uomo che ha peccato (38).
Una bella pagina di Origene sottolinea l'aspetto della con-sofferenza di Dio che emerge dalla rivelazione biblica. Così egli parla di questa "passione di Dio":
Quando mi rivolgo a uno e lo supplico d'un favore, che abbia compassione di me, se è privo di pietà non lo tocca nessuna delle parole che gli dico; se invece è di animo sensibile e non ha alcuna durezza di cuore, mi presta ascolto, prova compassione per me e si dispiega dinanzi alle mie preghiere un'interiore tenerezza. Riguardo al Salvatore, fai conto che accada la stessa cosa. Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell'amore. Persino il Padre, il Dio dell'universo, "pietoso e clemente" (Sal 103,8) e di gran benignità, non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti "il Signore tuo Dio ha sopportato i tuoi costumi, come un uomo sopporta quelli di suo figlio" (Dt 1,31). Quindi Dio prende i nostri costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre è impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s'immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini (39).
Il Padre, dice Origene, soffre per amore. Giustizia e sofferenza si incontrano nell'amore. Se ci volgiamo al Nuovo Testamento, noi vediamo che l'amore e la giustizia di Dio si sono manifestati in Cristo: "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo..." (1Gv 4,9-10; cf. Gv 3,16); "Si è manifestata la giustizia di Dio ... Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo" (Rm 3,21.26). Ma quale giustizia, nel senso di principio di corrispondenza e di equivalenza, vi è nell' evento del dono del Figlio all'umanità? Quell'evento parla di un amore non contraccambiabile e di un dono che non può essere ripagato. Dice Paolo: "Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). Il punto di incontro fra giustizia e amore di Dio è la sofferenza: il Dio che soffre diviene il Dio che s'offre, che si dona in nome della sua giustizia e del suo amore. È di fronte alla sofferenza dell'uomo che tanto la giustizia quanto la bontà di Dio sono messe in crisi, ma è dall' amore e dalla giustizia di Dio, divenute sofferenza di Dio in Cristo Gesù, che prendono nuova luce l'amore e la giustizia dell'uomo. Da questo eccesso divino possono nascere una giustizia e un amore traboccanti. Diviene possibile l'eccesso di amore che consiste nell'amare il nemico (cf. Lc 6,27-28); diviene possibile l'eccesso di giustizia che mira a fare all' altro ciò che si vorrebbe venisse fatto a noi (cf. Lc 6,31). Diviene possibile vivere la paradossale giustizia dell'amore (amate i nemici, fate del bene a chi vi odia) e il paradossale amore della giustizia (ciò che volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro). In un unico mistero di passione che è sofferenza e amore. Il Dio giusto e consofferente è - dice Giovanni - il Dio che" è amore" (1Gv 4,8.16).

[1] Per una trattazione più ampia cf. L. Manicardi, Il corpo, Qiqajon, Bose 2005.
[2] Citato in J. Moltmann, Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986, p.283.
[3] Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, Città Nuova-Libreria Editrice Vaticana, Roma 19872, p. 235.
[4] TertuIIiano, Sulla resurrezione dei morti 8,2.
[5 ] L.-M. Chauvet, "Editoriale. La liturgia e il corpo", in Concilium 3 (1995), p. 13.
[6] C. Chalier, Sagesse des sens, p. 37.
[7] F. Holderlin, Festa di pace, in Id., Le liriche, Adelphi, Milano 1993, p. 604.
[8] Citato in C. Chalier, Sagesse des sens, p. 110.
[9] Sifre Devarim 343.
[10] Si tratta di un passo della prima collezione dei discorsi di Isacco (1,35). Cf. Isacco di Ninive, Un'umile speranza, a cura di S. Chialà, Qiqajon, Bose 1999, p. 165.
[11] Cf. E. Bianchi, "Io non ho voluto conoscere altro che Cristo crocifisso! (ICor 2,2)", in Parola, Spirito e Vita 18 (1988), pp. 127-147.
[12] Cicerone, Contro Verre V,64,165.
[13] Ibid. V,66,169.
[14] Tacito, Storie IV,3,11.
[15] Plauto, I Menecmi 66,849; Id., Poenulus 347. Altri riferimenti in M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988, p. 40, n. 16.
[16] Ibid., p. 42.
[17] Giustino, Dialogo con Trifone 90,1.
[18] Seneca, Lettere 101,14.
[19] Gregario di Nissa, Omelia sulla resurrezione I, PG 46,624.
[20] Citato in 1. Noye, S.v. "Maladie", in DS X, Paris 1977, col. 143.
[21] Le lettere di Paolo III, a cura di R. Fabris, Boria, Roma 1980, p. 93.
[22] Saint Paul, Epitre aux Colossiens, a cura di J.-N. Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 135.
[23] Erveo di Bourg-Dieu, Lettera ai Colossesi, PL 181,1325.
[24] S. Thomae Aquinatis, Super Epistolam ad Colossenses lectura, in Id., Super 
Epistolas s. Pauli lectura II, a cura di P. Raphaelis Cai, Marietti, Taurini-Romae 1953, p. 137.
[25] Saint Paul, Épìtre aux Colossiens, p. 135.
[26] P. Iovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della Thlipsis nelle lettere di san Paolo, Edi Oftes, Palermo 1985, p. 154.
[27] Cf. Ch. Delhez, "Peut-on offrir ses souffrances à Dieu?", in Vie consacrée 3 (2002), pp. 148-160.
[28] L'intervista è stata pubblicata su La Croix il 20 aprile 1988.
[29] X. Thévenot, Souffrance, bonheur, éthique. Conférences spirituelles, Salvator, Mulhouse 19902, p. 27.
[30] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 229-230.
[31] G. Marcel, La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier, Paris 1964, pp. 142-143.
[32] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, p. 226.
[33] Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 17,1.
[34] Citato in R. S. Anderson, La fede, la morte e il morire, Claudiana, Torino 1993, p. 129.
[35] Cf. D. Lys, "Rùach". Le souffle dans l'Ancien Testament, Presses universitaires de France, Paris 1962.
[36] Cf. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia I9752.
[37] A. J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Boria, Roma 1981, p. 87.
[38] Cf. E. Bianchi, "Giustizia e perdono alla luce della Bibbia", in Associazione Biblia, L'esercizio della giustizia nella Bibbia. Alti del Convegno nazionale di Biblia (Milano, 23-25 aprile 1994),Biblia, Settimello 1996, pp. 211-231.
[39] Origene, Omelie su Ezechiele 6,6.
 



Conclusione COMUNITÀ CRISTIANA E SOFFERENTI PSICHICI
A mo' di conclusione, queste pagine, che si incentrano sulla sfida che i malati psichici rappresentano per le comunità cristiane, vorrebbero aiutare a riflettere sulla lezione che la debolezza ha da offrire alle comunità cristiane.
La comunità, cercando di ripensarsi a partire dal punto di osservazione dei deboli, e particolarmente dei malati psichici, più facilmente individua l'essenziale che la caratterizza, ritrova se stessa spogliata dai tanti elementi che oggi la appesantiscono e la distraggono dall' essenziale. Ritrova la sua fisionomia di corpo, lasciandosi alle spalle le sue configurazioni pesanti di "azienda" o di "macchina". Jean Vanier, la cui esperienza di decenni di vita in comunità con persone portatrici di handicap psichici anche molto gravi, spesso persone che hanno trascorso lunghi periodi di vita in ospedali psichiatrici, è preziosa per configurare il rapporto fra comunità cristiana e malato mentale, ha scritto:
Bisogna che la chiesa sia sempre costruita sul più povero, e non il povero come oggetto di carità, ma il povero che, in quanto presenza di Gesù e fonte di vita, può guarirei (1) .
In effetti, troppo spesso anche nella chiesa queste persone sono o emarginate o temute o giudicate non necessarie o insignificanti o tutt'al più curate come oggetti di carità. Mentre essere vicini a loro è una grazia e una benedizione.

Premessa

Che atteggiamento hanno i cristiani verso le persone sofferenti nella psiche? Che responsabilità si assume la comunità cristiana in quanto tale? Come svolge, se lo svolge, il suo mandato di essere elemento essenziale per un percorso di assunzione e cura del sofferente? Si ha coscienza che la guarigione è anche fatto relazionale, che la qualità buona delle relazioni umane è decisiva per il ritrovamento di un benessere o almeno di un assetto vivibile dell' esistenza? Può essere utile ricordare che lo psichiatra inglese Maxwell Jones cercò di organizzare l'ospedale psichiatrico come una comunità terapeutica (2). C'è in noi, nelle nostre comunità cristiane la disponibilità all'incontro e alla relazione con il malato e il sofferente psichico? La comunità cristiana ha coscienza di poter sviluppare potenzialità terapeutiche proprio in quanto luogo comunitario, relazionale, schola amoris, come amava ripetere Giovanni Paolo II riprendendo un'espressione di san Bernardo?
Già porre il problema del rapporto fra comunità e persone con handicap o sofferenze psichiche pone il dito su una grave piaga e su una malformazione ecclesiologica: non vi sono malattie che escludano dal far parte del corpo ecclesiale. Sano o malato, un cristiano è membro del corpo ecclesiale, ne è parte essenziale e irrinunciabile. Anzi, è portatore in sé di quella debolezza che lo rende somigliante al Crocifisso. Se dunque si deve affrontare questo rapporto come problema, significa che una malattia certamente c'è: ma si pone sul piano ecclesiale, sulla modalità con cui noi intendiamo e diamo forma concreta alle comunità cristiane.

Presenza dei malati, latitanza della comunità

Il tema propone una polarità: comunità cristiana e sofferenti psichici. I due termini del problema richiedono una riflessione preliminare. La presenza di persone afflitte da disagi, disturbi e malattie mentali è oggi ampiamente documentata e di proporzioni impressionanti. I livelli di gravità sono molto diversi, ma la realtà è di tali dimensioni da interpellare e scuotere le coscienze. Sappiamo bene che oggi le malattie della soggettività sono diffuse. Possiamo parlare di medicalizzazione dell' esistenziale: l'uso e l'abuso crescente di prodotti farmaceutici di sostegno quali sonniferi, tranquillanti, antidepressivi, è lì a mostrarlo. Sembra quasi che vivere sia una malattia. Occorre chiedersi a chi pensiamo sentendo parlare di "sofferenti psichici". Sempre e solo ad altri? Ai cosiddetti "matti"? La sofferenza psichica è dimensione che in maniere differenti, anche non patologiche, concerne ciascuno di noi.
Ma la mia domanda, provocatoria, verte invece sull'altro polo del problema: dov'è la comunità? E soprattutto dov'è o qual è la comunità che può aiutare un processo di guarigione? Non mi riferisco solo all' attenzione carente di fronte al problema specifico che stiamo trattando, che pure è indubbia, ma alla presenza e alla configurazione stessa della comunità cristiana come tale. In particolare, come si configura la comunità cristiana locale in rapporto al problema del disagio e della malattia mentale, tra i poli della comunità familiare (e la cerchia affettiva di conoscenti, parenti, amici), delle istituzioni mediche e terapeutiche (il polo professionale tecnico della cura del malato) e della più ampia comunità civile e politica (il polo della convivenza sociale)? Questa domanda, su cui torneremo, ci suggerisce di porre un'ulteriore riflessione preliminare e urgente per non cadere nei rischi della retorica sulla positività sempre e comunque dell' entità comunitaria e sulla sua possibilità di guarire. E ci dice come la presenza del malato, e del malato mentale, interpelli l'ecclesiologia, ma anche la fede e la spiritualità.

La comunità che produce sofferenti

La riflessione è questa: la comunità può produrre malattie, disagio psichico. Da un punto di vista sociologico, Marcel Gauchet ha mostrato come nel mondo disincantato, nel mondo che conosce il declino della presenza e dell'influenza degli dèi e del divino, nel mondo che fa a meno di Dio, il soggetto sia sottoposto a uno sforzo psichicamente stressante per tentare di essere se stesso: "Il declino della religione si paga con la difficoltà d'essere-sé... Siamo oramai destinati a vivere nella nudità e nell' angoscia ciò che ci è stato più o meno risparmiato dall'inizio dell'avventura umana per grazia degli dèi" (3). Una iper-responsabilità di cercare di darsi un senso nella radicale solitudine, nella debolezza e fragilità dei legami, diviene schiacciante per l'uomo. Del resto, anche il ritorno di religiosità, di spiritualità, oggi eclatante, sembra spesso non uscire dalla stessa logica narcisistica, autocentrata, per nulla liberante, in definitiva patologica e, a mio parere, neppure cristiana.
Il clima culturale che traversa il mondo delle relazioni sociali e lavorative è contrassegnato da individualismo radicale, antagonismo, concorrenzialità. Nel mondo tecnologico i criteri di valutazione delle persone, che divengono anche i criteri di autovalutazione (ed eventualmente di svalutazione), sono funzionali ed esaltano la produttività e l'efficienza, non sollecitano la creatività, ma esigono esecutività precisa. È insomma una cultura che seleziona, e perciò esclude, crea primi e ultimi, produce emarginati e malati, deboli e perdenti. Certamente produce frustrati e illusi. Il quadro della comunità familiare, pure luogo di affetti vitali, appare oggi talmente fragile ed esposto, che spesso manca della robustezza e saldezza necessarie, oltre che delle competenze, per poter aiutare il familiare che vive un disagio o una malattia psichica. Senza calcolare che spesso deve saper mettere in atto misure di difesa per non essere travolta dall'ingestibilità della malattia. E senza calcolare ancora che spesso proprio la famiglia è l'alveo dell'insorgere di disturbi e malattie psichiche. E lì certo si pone l'esigenza di un rapporto comunità cristiana-famiglia in cui la prima sappia essere sostegno e aiuto concreto alla seconda.
Ma soprattutto anche la comunità cristiana deve sapersi vedere come luogo che sa creare malattia, disagio, sofferenza psichica. Deve dunque operare un' autocritica e saper riconoscere che si può strutturare in maniere tali che aiutano l'insorgere di sofferenze psichiche.
- Quando è luogo burocratizzato, efficiente, organizzativo, efficace, ma dimentico dell' attenzione da dare al piano umano, all'ascolto delle persone, all'educazione alla parola, alla formazione alla libertà e alla responsabilità, alla verità e all'autenticità, anch'essa può produrre esclusioni, e dunque sofferenze, ferite che divengono difficilmente rimarginabili.
- Quando la comunicazione all'interno della comunità e i suoi toni non sono evangelici o semplicemente civili, allora possono nascere ferite e sofferenze; quando i rapporti tra autorità e fedeli sono traversati da logiche di potere e da personalismi, possono avvenire
oppressioni e abusi psicologici, fino a suscitare dipendenze o produrre rigetti; quando i rapporti tra le diverse componenti e articolazioni della comunità sono solcati da gelosie e rivalità possono nuovamente insorgere dinamiche di esclusione, di scarto, psicologicamente pesanti; quando la direzione spirituale, la confessione o la predicazione suscitano ingiuste colpevolizzazioni; quando si vive in climi di paura, di libertà a scartamento ridotto, di non limpidezza, quando si verificano casi di abuso spirituale (4) o addirittura di abuso fisico e sessuale, allora anche la comunità cristiana crea malattia e disagio psichico.
- In particolare mi pare utile ricordare la responsabilità della parola all'interno della comunità (come all'interno di ogni relazione interpersonale e sociale). Può essere espressa con le parole di Hans-Georg Gadamer: "Appartiene alle più grandi responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode" (5). E noi sappiamo bene come la parola può ferire, uccidere, conficcarsi come una dolorosa spina nella memoria e nella mente dell'altro.
La riscoperta della valenza terapeutica della fede deve pertanto accompagnarsi a una certa compaginazione della comunità cristiana in cui siano al centro alcune dimensioni essenziali che le consentano di essere comunità secondo il vangelo.

Una comunità datrice di senso
Una comunità così non può che avere un connotato di fondo essenziale. Un connotato in cui consiste la sua vocazione profetica. Se il profeta è colui che fa segno, la comunità cristiana è chiamata a essere segno e a declinare la sua vocazione profetica come invenzione del senso, reperimento e creazione di senso. In un contesto culturale che tende a evacuare la domanda sul senso giudicandola marginale e restringendo il campo d'interesse al funzionale, a ciò che è utile, conveniente economicamente, che emargina ciò che è gratuito, la chiesa ha il compito di custodire la domanda sul senso vivendo e trasmettendo la fede come cammino del senso. Proprio in questo la presenza del malato psichico, e magari del malato psichico grave, in cui le facoltà umane stesse sono drasticamente ridotte, il suo essere visto e considerato all'interno della compagine ecclesiale, può aiutare la comunità cristiana a posizionarsi correttamente. Chi è il malato psichico? Cosa suscita in noi? Prima di pensare a che fare per lui c'è da prendere sul serio la domanda che suscita in noi, il lavoro che ci obbliga a fare. Di fronte alle reazioni che può suscitare di paura, rimozione, estraneità, credo utile ricordare che il paziente psicotico non può non essere considerato come uno uguale a noi, anche se presenta una reale diversità; egli è immerso in una angosciata e disperata ricerca di senso e a questo senso noi non siamo estranei, anzi. Il non-senso, l'assurdo in cui procede il malato psichico, non è destituito di senso, anzi rivela qualcosa della ricerca di senso "normale" .
Cogliamo qui un aspetto forse inatteso. Il malato mentale proprio nella sua inquietante diversità, in questa diversità indesiderata e che ci coinvolge o almeno ci interpella e ci sgomenta in profondità, ci ricorda che cos'è la comunità cristiana. Forse proprio il malato mentale, qualora si accetti di vederlo, considerarlo, assumerlo per quanto è possibile, può aiutare la comunità a guarire lei dalle sue patologie. Sarà provocatoria, ma la questione va posta: e se fosse il malato che guarisce la comunità? Per poter essere comunità che cura il malato psichico la comunità cristiana deve essere anzitutto e semplicemente comunità. E questo, l'accennavo già prima, richiede almeno tre dimensioni: centralità dell' ascolto e della celebrazione della parola di Dio; essere luogo di fraternità e di relazioni significative; apertura al debole, in particolare al malato mentale.
a) Una comunità che sia luogo di ascolto e di celebrazione della parola di Dio. L'ascolto della parola di Dio come centrale: solo un'ecclesia audiens, scrive Karl Barth, può essere ecclesia docens (6), ovvero, solo l'ascolto della parola di Dio che rende la chiesa serva, può abilitarla alla sua missione, a rispondere alle parole di Gesù che le dicono: "Guarite i malati, cacciate i demoni, annunciate che il regno di Dio si è fatto vicinissimo" (Mt 10,7-8).
b) Una comunità che sia luogo di fraternità e di relazioni significative. Il secondo elemento costitutivo della comunità è il suo essere luogo di fraternità e relazioni significative, buone e forti, semplici e gratuite. Echeggiando quanto ha scritto il cardinal Martini nel discorso del 6 dicembre 1995, si tratta di "una
 comunità alternativa, cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco" (7). Non è semplice istanza etica o economia pastorale: è obbedienza all"'amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi" (Gv 13,34); è fare della comunità il sacramento del corpo di Cristo.
c) Una comunità aperta al debole. Infine, per essere autenticamente comunità, essa deve aprirsi al debole, al malato e trovare nel debole un criterio della sua verità e autenticità. Una comunità in cui l'elemento attivo ed efficentistico divenga preminente, rischia di emarginare il debole, di non dar spazio alla presenza inutile del malato, di colui che non ha strumenti di conoscenza e di parola, e limitate possibilità di azione. Una tale comunità risponde allora a una concezione per cui la comunità deve essere l'insieme dei forti, la somma delle ricchezze di ciascuno, mentre ogni autentica comunità è frutto della condivisione delle povertà di ciascuno. La comunità ècom-munitas, termine che rinvia a munus, che è il dovere, il mandato, il compito, ma anche il dono, in particolare il dono che si dà, il dono che ci spoglia di noi stessi e che rende coloro che vivono in una comunità dei donati a... e donanti a... La communitas allora è !'insieme di persone unite non da una proprietà, da un possesso, da un di più, ma da una mancanza, una povertà, un di meno (8). Paolo direbbe che la comunità è l'insieme delle persone che sono unite da un debito, il debito dell'amore reciproco (cf. Rm I3,8). Il malato mentale, nel suo reale deficit, nella sua concreta disabilità, che (sia ben chiaro!) con tutte le forze si deve assolutamente cercare di arginare e ridurre, ricorda alla comunità il suo status di corpo - è Paolo che la definisce così - in cui le membra più deboli sono le più necessarie (cf. 1Cor 12,22).
Non da ultimo, una delle maniere in cui il malato mentale può aiutare la comunità e i membri della comunità a guarire loro spiritualmente, è il carattere rivelatore della sua disarmante inermità, della sua debolezza, della sua fragilità. Essi ci ricordano che solo chi è vulnerabile può amare e lasciarsi amare. Splendida, anche qui, la testimonianza di Jean Vanier: "Le persone portatrici di handicap hanno una terrificante capacità rivelatrice". Un malato, la cui madre morì al momento del parto, fu colpito da meningite e rimase gravemente leso, incapace di parlare, costretto a vivere per quattro anni completamente da solo, prima di essere accolto in una delle comunità di Vanier in Africa. Quando era molto angosciato batteva furiosamente la testa contro il muro, contro le pareti. Ora, quando gli assistenti della comunità vivono una tensione o non si parlano, egli lo sente e comincia a battere la testa contro il muro: non si tratta allora di cercare uno psichiatra, ma di trovare la via di riconciliare tra loro gli assistenti. Commenta Jean Vanier: "Ciò che una persona portatrice di handicap mentale esige è che si viva l'amore e che si sia nella verità. Non si può giocare con lei, perché lo sente" (9).
Gli elementi a cui abbiamo accennato - liturgia, relazionalità e fraternità, apertura al debole, la condivisione delle debolezze come costitutiva della comunità cristiana - sono parte di un'unica sacramentalità, la sacramentalità che fa della chiesa un luogo in cui le energie dell' agape di Dio si traducono in relazioni interpersonali e divengono ispiratrici di relazioni sociali. Insomma, solo una comunità sana può essere una comunità che cura. Ma una comunità sana è una comunità sanata, o meglio, una comunità malata che il Signore ha guarito: nel Vangelo di Marco, figura dei discepoli sono i malati che Gesù guarisce. Noi siamo dei guaritori malati.

La competenza del cristiano di fronte al malato mentale

In obbedienza a questo fondamento evangelico credo che il primo ed elementare passo che la comunità cristiana è chiamata a fare nei confronti dei malati mentali è di accettare di vederli, e non di coprirsi la faccia e gli occhi come di fronte allo sfiguramento del Servo sofferente di Isaia 53: "Uno davanti al quale ci si copre la faccia". C'è un modo di vicinanza terapeutica: essere presente a qualcuno rivelandogli il suo valore, la sua importanza, la sua dignità. Liberarci dallo sguardo mondano e intriso di pregiudizi che spesso è il nostro e assumere lo sguardo di Dio su questi suoi figli e sue creature.
È urgente cambiare il nostro sguardo su coloro che chiamiamo malati mentali, ed è urgente che essi cambino il loro sguardo su se stessi. Esiste un livello di essere che resta intatto. Esiste un luogo in ciascuno in cui noi siamo non solo guariti ma già restituiti a noi stessi ... È a questo nucleo intatto che io mi rivolgo parlando a voi malati, non perché io abbia in me la speranza che un giorno voi sarete di nuovo integri, ma perché c'è in me la certezza che voi lo siete già (10).
Questa la competenza propria del cristiano circa il malato mentale: saper vedere in lui e accogliere in lui un uomo, una donna a immagine e somiglianza di Dio, un fratello, una sorella in cui risplende il volto di Cristo, uno per cui Cristo è morto. Questo cambiamento di sguardo è anche cambiamento del cuore: la presenza assunta del malato mentale immette il credente e la comunità cristiana in un cammino di conversione. Se uno dei problemi che possono frenare il credente nell'affrontare questo problema o nel cercare di assumerlo è quello della mancanza di competenze specifiche, non si può dimenticare questa competenza umana e spirituale del cristiano che lo abilita a farsi prossimo del malato.

Tratti e compiti della comunità cristiana

La comunità che si prende cura del malato psichico non può che essere una comunità di ascolto. Esercitarsi all' arte dell' ascolto è essenziale per aiutare a dare vita, a proseguire quel processo di nascita di una persona che non è avvenuto una volta per tutte, o più modestamente per far sentire soggetto parlante e desiderante l'altro che ci è davanti. Essere ascoltati, accolti, sentire che c'è chi ha bisogno di noi è un tratto che si deve vivere nella comunità cristiana. Nella comunità cristiana, che è un corpo, nessuno può dire "io non ho bisogno di te" (1Cor 12,21), esattamente come in un corpo, dice Paolo, la mano non può dire al piede "io non ho bisogno di te". È noto che l'abbé Pierre ha iniziato la sua esperienza del villaggio Emmaus quando ha teso la mano a un disperato e gli ha detto: "Prima di suicidarti potresti aiutarmi a ricostruire una casa per una donna e il suo bambino che sono sulla strada?". Quell'uomo accettò (11). L'ascolto è essenziale per guarire: ascoltare la persona, non solo le sue frasi, ma la persona. Allora si crea un clima di accoglienza e di amore. La comunità diviene allora un luogo dove si è portati gli uni gli altri ("Portate i pesi gli uni degli altri", i pesi che siete gli uni per gli altri).
Se anche ci sono difficoltà comunicative o limiti comunicativi con il sofferente psichico, noi sappiamo che il sistema immunitario reagisce soprattutto agli stimoli emozionali. E la comunità cristiana che è un corpo non può che essere mossa da quell'amore intelligente che crea linguaggi di amore nuovi. Quei cristiani che nell' eucaristia domenicale si scambiano il segno della pace, il bacio santo, l'abbraccio comunionale, come possono non cercare vie di contatto e comunicazione non verbali con chi è limitato a livello di parola? Il
 toccare (arte sviluppata dall'aptonomia che studia la comunicazione tattile affettiva essenziale soprattutto con i malati terminali, con chi non riesce a parlare) ci ricorda che è il corpo che parla, che trasmette messaggi, che comunica.
Ascoltare diviene un ascoltare la sofferenza dell' altro e immette nella compassione. La compassione è un tratto della comunità che assume la responsabilità del malato psichico e che si relaziona con la sofferenza del malato mentale. Non si tratta di un mero sentimento, non ha nulla a che vedere con la commiserazione che è giustamente rifiutata dal malato che la trova offensiva, ma di un sentire che coinvolge la totalità della persona e che diviene virtù, etica, responsabilità verso l'altro facendo ciò che è in nostro potere e collaborando attivamente con chi può aiutarlo ad altri livelli di competenza. È una compassione-virtù, non una semplice compassione-sentimento, è un curare nel senso di prendersi cura dell'umano che è nell' altro, nel malato, anche nel malato in cui questo umano è offuscato. Questa compassione si radica nella coscienza della comune umanità di cui sia io che il malato siamo ospiti. Questa compassione abita la coscienza della comune, universale umanità e della comune, universale esperienza della sofferenza. Proprio l'umanità più sofferente, più offuscata, più menomata, può svegliare la nostra assopita umanità, la nostra umanità imbarbarita. Uno dei tratti più tipici della nostra società è il cinismo: l'ostentazione compiaciuta e anche gridata, sguaiata, dell'indifferenza per l'altro. Dimenticando l'evidenza: che egli è ospite dell'umanità che ospita anche me.
La compassione si radica anche in quella solidarietà che connota la comunità cristiana che è corpo: e se in
 un corpo un membro è malato, tutto il corpo risente e partecipa della malattia. Come ritenere estranea a me la malattia del fratello? Il malato presenta e rappresenta la malattia degli altri, come un bambino che manifesta dei comportamenti devianti presenta e rappresenta l'ostilità e i litigi dei genitori: nella sua malattia, il malato rappresenta e presenta il groviglio di relazioni umane da cui è uscito.
Questi tratti ci portano a sottolineare l'importanza nella comunità cristiana di sviluppare una cultura della presenza. Di fronte alle dominanti dell' apparire e del fare, il malato ci chiede di essere, di essergli accanto, di essere una presenza. Presenza che si situa sul piano del dono: dare tempo, dare ascolto, dare la parola. Ovvero, dire all' altro, nella sua malattia: tu ci sei e sei importante per me. E spesso avviene che il sofferente psichico stesso sappia essere una presenza rilevante nella comunità ecclesiale non solo e non tanto per le incombenze che riesce ad assolvere, ma per la presenza che è, per l'umanità, per la bontà...
Nelle comunità cristiane si fa lavoro di educazione, di trasmissione della fede in particolare a giovani, bambini, adolescenti. lo credo che una vigilanza per aiutare una crescita solida, anche dal punto di vista psicologico, dei giovani, sia da mettere in conto da parte della comunità cristiana: non si tratta solo di assumere i sofferenti psichici, ma di operare in modo che ci possa essere uno sviluppo sano anche dal punto di vista psicologico. Introdurre all'arte della vita interiore, del dar nome alle proprie emozioni, del parlare la sessualità, del discernere bene e male e dell'assumere la disciplina dei limiti, questa è forse azione preventiva, o semplicemente educazione che libera dai sensi di onnipotenza e aiuta lo stabilirsi di un certo equilibrio psicologico. Introdurre: alla leggibilità delle proprie emozioni e sentimenti, alla capacità di gestire le situazioni (interiori ed esteriori), il che suppone lo sviluppo di una capacità di fiducia e confidenza. Introdurre al senso della vita, all'importanza della vita che merita un investimento personale di energie e passione. Tutto questo, e moto altro, fa parte dell'opera di trasmissione della fede intesa come cammino del senso della vita.
Infine, io penso che la rete di aiuto e sostegno concreto che la comunità cristiana può mettere in atto per venire in soccorso alle situazioni di disagio psichico presenti in loco, insomma il lavoro di carità vissuta, di tempo ed energie spese, debba da un lato accordarsi con il lavoro svolto nelle istituzioni sanitarie e teso alla riduzione del deficit, all'ampliamento delle abilità, all'incremento dell'integrazione, al guadagno dell'autonomia, al consolidamento dell'identità, e debba, dall'altro lato, arricchirsi di una riflessione che aiuti pian piano a elaborare un'antropologia che sappia ragionare sul tipo di diversità che la malattia mentale comporta, sul tipo di ostacoli che incontra nella cultura odierna e che portano a rimuoverla e a non volerla vedere, e sappia arricchirsi anche di un ascolto della Scrittura che possa dare peso e sostanza a una considerazione di fede della malattia mentale. Sappia arricchirsi di pensiero, consapevolezza e idee. Forse stiamo muovendo solo i primi passi.



[1] J. Vanier, "La force de la vulnerabilité" , in Christus 178 (1998), p. 195.
[2] Cf. H. I. Kaplan, B. J. Sadoek, Manuale di psichiatria, EdiSes, Napoli 1993, P.145.
[3] M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 303.
[4] Cf. D. Johnson, J. van Vonderen, Le pouvoir subtil de l'abus spirituel. Comment reconnaitre la manipulation et la fausse autorité spirituelle dans l'église et comment y échapper,Jaspe, Magog 1998.
[5] H.-G. Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 58.
[6] Cf. K. Barth, La proclamazione del vangelo, Boria, Torino 1964, p. 58.
[7] C. M. Martini, Alla fine del millennio lasciateci sognare, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 220.
[8] Cf. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. IX-XXXVI.
[9] J. Vanier, "La force de la vulnerabilité", p. 194.
[10] Ch. Singer, Où cours-tu? Ne sais-tu pas que le ciel est en toi?, Albin Michel, Paris 2001, pp. 38-39.
[11] Narrato in J. Vanier, "Au coeur de la compassion", in Christus 152 (1991), p.414.



Renè Voillaume: "Con Gesù nel deserto" 1




Una lettura indicata per la Quaresima, dagli Esercizi Spirituali predicati in Vaticano da Renè Voillaume.

Renè Voillaume: "Con Gesù nel deserto" 2




Una lettura indicata per la Quaresima, dagli Esercizi Spirituali predicati in Vaticano da Renè Voillaume


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