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domenica 7 aprile 2013

Il Pranzo di Babette & Libri da Das Kabarett

Dal romanzo "Il pranzo di Babette" di Karen Blixen (inedito)


Da tizillustra.blogspot.it






Qual è davvero lo stile di pensiero di Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco? Sui giornali si leggono tante cose, ma negli ultimi giorni sono usciti in lingua italiana tre libri che permettono davvero di conoscerlo meglio. Il primo è «Papa Francesco. Il nuovo Papa si racconta», una conversazione con i giornalisti Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti pubblicata da Salani. Mondadori ha tradotto «Il cielo e la terra», un dialogo fra Bergoglio e il rabbino argentino Abraham Skorka. Il rabbino appartiene all’ebraismo «conservatore», un gruppo che – nonostante il nome – è molto più liberale dell’ebraismo ortodosso, tanto che in Israele – dove costituisce una minoranza infima, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti e in Argentina – si discute da anni se riconoscerlo come «veramente» ebraico. Ma il libro rimane interessante. Infine, Andrea Tornielli ha raccolto in «Jorge Mario Bergoglio Francesco – Insieme» (Piemme) il meglio dei due testi precedenti, integrato dai ricordi della sorella del Papa e dalle cronache del vaticanista italiano nei giorni del Conclave e del dopo-Conclave.
Nelle prime recensioni, vediamo come molti si concentrino sui dettagli più pittoreschi, dalla fidanzatina del giovane Bergoglio studente fino al tifo calcistico (per il San Lorenzo de Almagro) e alla passione per il dialetto piemontese, appreso parlando da bambino con la nonna astigiana. Una certa «sinistra» critica la difesa del celibato sacerdotale, le parole forti sul matrimonio omosessuale e l’aborto, e il ricordo di una verità ovvia in Argentina ma che molti preferiscono tacere: all’inizio, «il golpe [militare] del 1976 è stato approvato quasi all’unanimità, persino dalla stragrande maggioranza dei partiti politici», anche se in seguito non solo la giunta militare si è rivelata incapace di risolvere i problemi del Paese, ma le sue violazioni dei diritti umani sono state gravissime e ingiustificabili. Dagli arresti indiscriminati e dalle esecuzioni Bergoglio – allora provinciale dei Gesuiti – riuscì a salvare non poche persone, anche se – e lo ricorda – questo avvenne tramite rapporti mai completamente interrotti fra Chiesa e governo, «privilegiando la strategia delle trattative riservate rispetto alla denuncia pubblica», come scrivono i giornalisti Rubin e Ambrogetti, dando atto che quelle trattative, in tanti casi, salvarono delle vite. 
Dal canto suo, una certa «destra» non apprezza la critica al «riscaldamento globale», la franca ammissione che da ragazzo il futuro Papa leggeva pubblicazioni comuniste – anche se, precisa, «non fui mai comunista» –, apprezzando in particolare gli articoli del drammaturgo di sinistra Léonidas Barletta (1902-1975), e l’invito a distinguere fra diverse forme di teologia della liberazione nonché fra aspetti ideologici e «deviazioni» e la ricerca giusta di «una particolare attenzione nei confronti dei poveri». In realtà, la distinzione si ritrova nei due documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla teologia della liberazione del 1984 e 1986, attenti a condannare – in termini molto forti – le deviazioni d’impronta marxista e l’ideologizzazione del «povero» come categoria teologica, separandole da quanto può essere invece considerato espressione di una comprensibile preoccupazione per le situazioni di povertà estrema dell’America Latina e per le loro cause. Credo sia in questo senso – con riferimento a quanto è stato etichettato come «teologia della liberazione» nel suo insieme, un insieme di cose diverse tra loro –, che Bergoglio affermava che a proposito dei documenti sottoscritti dal cardinale Ratzinger «non parlerei neppure di una condanna in senso legale di certi aspetti, bensì di una segnalazione». L’etichetta «teologia della liberazione» copre in verità almeno due teologie diverse.
Per quanto questi aspetti possano essere interessanti e importanti non è qui, come fa notare anche Tornielli, che si trova l’essenziale. Gli alberi rischiano di nascondere la foresta. Se cerchiamo il «cuore» delle riflessioni dell’allora cardinale Bergoglio, una porta d’ingresso più significativa è costituita da due riferimenti artistici, che ritornano nei diversi volumi: al poema epico nazionale argentino «Martín Fierro» e al film danese del 1987 del regista Gabriel Axel «Il pranzo di Babette», tratto da un racconto della scrittrice, pure danese, Karen Blixen (1885-1962).
Il poema «Martín Fierro» ha un autore che fu un dignitario della massoneria argentina, José Hernández (1834-1886), ma dagli argentini è considerato il poema nazionale, sulla cui base è celebrato ogni anno – anche dai cattolici – il «Giorno della tradizione» il 10 novembre, data di nascita del poeta. La tradizione cui si fa riferimento è quella dei «gauchos», i cow-boy dell’Argentina, protagonisti di un mondo che – nota Bergoglio – oggi «per la maggior parte dei nostri giovani e dei nostri bambini [argentini] è più alieno degli scenari mistico-futuristi dei fumetti giapponesi». Tra le tante interpretazioni del «Martín Fierro», Bergoglio sceglie quella che legge il poema alla luce del suo seguito, pure opera di Hernández, «Il ritorno di Martín Fierro». Se infatti nella prima opera sembra che il «gaucho» protagonista rifiuti la civiltà, nella seconda è educato e si integra progressivamente nella società. Questa integrazione, ci dice Bergoglio, è necessaria. A leggerlo bene, il poema «non è mosso da una specie di nostalgia per un “Eden gauchesco perduto”». Anzi, leggiamo che: «Debe el gaucho tener casa, escuela, Iglesia y derechos». Il «gaucho» è una sorta di barbaro o di uomo selvatico che si civilizza tramite la casa, cioè la sedentarizzazione, la scuola, la Chiesa e il diritto, il quadro giuridico che assicura anche i «suoi» diritti.
Ma, si chiede Bergoglio, «che cos’ha a che vedere il “gaucho” con noi», che evidentemente non viviamo nella Pampa argentina del secolo XIX? In realtà, ha molto a che vedere. Il «gaucho» è un barbaro nativo – ancorché portatore di valori propri, come del resto lo erano i cosiddetti barbari dei tempi della fine dell’Impero Romano – mentre oggi ci troviamo di fronte a un barbaro di ritorno, a un uomo imbarbarito. «Vi sono – afferma Bergoglio – due tipi di “inciviltà”». Oggi quella che si manifesta è «una seconda forma di incultura», caratterizzata dall’entusiasmo «per leggi antiumane credendole progressiste» e dal «suicidio sociale» della denatalità. Se guardiamo al processo che si è sviluppato nell’ultimo secolo, e che si va concludendo, «la storia ci appare come un disastro, un disastro morale, un caos». Ci troviamo di fronte a «eremiti localisti in un mondo globale» e a «decerebrati e mimetici passeggeri del furgone di coda, seduti ad ammirare i fuochi di artificio (degli altri) con la bocca spalancata e l’applauso programmato». Nel dialogo con il rabbino – in consonanza con Benedetto XVI – Bergoglio vede l’epitome di un «regresso antropologico» nell’ideologia di genere e nei tentativi di assimilare le unioni omosessuali al matrimonio.
Se si è arrivati addirittura a un «regresso antropologico», si comprende il paragone con «l’invasione dei barbari del 400 d.C.» e l’idea che l’incultura di secondo grado cui oggi ci troviamo di fronte «è quella che determina le catastrofi e che, in definitiva, porta l’umanità, in un certo senso, a dover ricominciare da capo». Si tratta di civilizzare i nuovi barbari, impresa più difficile rispetto a quella del V secolo o dell’Argentina dell’Ottocento con i «gauchos», attraverso gli stessi strumenti: «casa, escuela, Iglesia y derechos».
Come fare? Qui i libri sembrano rivelare molto dello stile che già vediamo emergere in Papa Francesco. «Ricominciare da capo» significa partire dalle piccole cose, educare a «tre o quattro certezze», ripartire dall’essenziale. La buona educazione, «chiedere permesso» anziché spingere. «Partire dalle grandi certezze esistenziali. Per esempio, fare il bene ed evitare il male rappresenta una delle certezze morali più elementari». Poi – e lo abbiamo già visto nel Magistero di Papa Francesco – la misericordia di Dio, e l’azione del Diavolo che vuole farci dubitare di questa misericordia. «Credo nell’esistenza del Demonio – dice il futuro Papa al rabbino –. Forse il suo maggior successo in questi tempi è stato farci credere che non esiste». 
Qui si trova la chiave dello stile di Papa Francesco. Non una negazione dei vertici della filosofia e della teologia cui ci aveva abituato Benedetto XVI. Ma l’idea che di fronte al «regresso antropologico», prima di arrivare ai vertici, occorre ripartire con pazienza da «certezze elementari» che ci sembrano evidenti ma che a molti evidenti non sono più. Una metafora prediletta da Bergoglio è quella del naufrago, che ricomincia da quello che trova: «deve cominciare a costruirsi una capanna utilizzando le assi della barca affondata». La dieta e la volontaria spoliazione di Papa Francesco rispetto ai grandi discorsi – e anche ai simboli e alle liturgie – di Benedetto XVI non è indolore, né sempre facile da capire e da apprezzare. Ma quello che va capito è il suo scopo: spogliarsi di molto perché resti e si veda bene l’essenziale.
Incontrare i naufraghi vuol dire – lo abbiamo già sentito ripetere in Piazza San Pietro – «uscire» dalle sagrestie di una Chiesa «autoreferenziale» e andare alle «periferie dell’esistenza», andare a cercare i «poveri». Ma chi sono i poveri? Ce ne sono – lo ha già ribadito Papa Francesco – di due tipi: il povero materiale e il povero spirituale. E a capire il problema ci aiuta il film danese «Il pranzo di Babette». Qui vediamo Babette, una cuoca in fuga dalla repressione successiva alla Comune di Parigi, rifugiarsi in un villaggio danese rigidamente protestante, guidato da due arcigne zitelle chiamate dai genitori Martina e Filippa in onore di Martin Lutero (1483-1546) e del suo collaboratore Filippo Melantone (1497-1560). Come ci dice Bergoglio, «appartengono a un mondo calvinista [quanto a stile di vita, perché in realtà sono di confessione luterana] e puritano talmente austero che anche la redenzione di Cristo viene vista come una negazione delle cose di questo mondo. […] Era una comunità che non sapeva che cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore. Stava attaccata a una parvenza di vita. Aveva paura dell’amore».
Dopo anni in cui ha cercato d’integrarsi in questo mondo così lontano da Parigi, Babette vince la Lotteria Nazionale. E decide di spendere il denaro della vincita per organizzare un memorabile banchetto nel villaggio, con i cibi più raffinati e i vini migliori. Un anziano generale che è tra gli invitati afferma che il cibo gli ricorda il vecchio «Café Anglais» di Parigi, dove la cucina diventava arte e «avventura amorosa». E lo sostiene senza sapere che la cuoca del «Café Anglais» di quegli anni era proprio Babette. Alla fine del pranzo, le sorelle luterane dicono a Babette che senz’altro le rimarranno comunque abbastanza soldi per essere ricca. Ma non è così: Babette ha speso tutto in cibo, vino, tovaglie, piatti, bicchieri. E quando Martina le dice «Ora sarai sempre povera», Babette risponde che «un’artista non è mai povera».
Un bel film, certo – vinse l’Oscar nel 1987 come miglior film straniero –, ma per chi ha una certa immagine della povertà l’entusiasmo con cui ne parla Bergoglio deve risultare incomprensibile. La comunità danese dove Babette viveva non era alla fame, ma era povera. Perché mai – direbbe il tipico pauperista – Babette, anziché sprecare il suo denaro in champagne Veuve Cliquot, brodo di tartaruga, vino Clos Vougeot Louis Latour e bicchieri bordati d’oro, non lo ha distribuito ai poveri? Ma Babette ha ragione, e il pauperista – anche quando interpreta in un certo modo i primi gesti di Papa Francesco – ha torto. Perché c’è la povertà materiale, che per Bergoglio dev’essere assolutamente affrontata, e c’è la povertà di senso, di felicità, di civiltà di donne e uomini imbarbariti che devono essere civilizzati. La cucina, il vino, lo splendore delle tovaglie, dei piatti, dei bicchieri – tutte cose poco «calviniste» e molto cattoliche – offrono agli abitanti di quella remota landa danese molto di più di qualche aiuto materiale: offrono la bellezza, l’arte, l’occasione di camminare verso la civiltà. Perché – come notava il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) – anche quelle minori, come l’arredamento e la gastronomia, sono arti, e danno un contributo decisivo alla genesi di tendenze verso il bello, antidoto al moderno dilagare del brutto e primo elemento per civilizzare i nuovi barbari: proprio come avvenne con i «gauchos» argentini cui erano offerti cultura, Chiesa e diritto. «All’arrivo di un alito di libertà, costituito dalla sontuosità di una cena – spiega Bergoglio parlando di Babette –, tutti ne rimangono trasformati». Non è certo un invito a trascurare la povertà materiale, che ha un posto così grande nelle preoccupazioni di Papa Francesco. Ma è un monito a considerare che non di solo pane ha bisogno l’uomo vittima del «regresso antropologico». (M. Introvigne)
Fonte: La nuova bq

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Das Kabarett -
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dove il grande nemico è la semplificazione. (C. Guillén)

Ho letto il racconto di Karen Blixen tanti anni fa, forse addirittura al liceo, e non lo ricordo per niente. Ma non c'è stato bisogno di troppa letteratura per amare Il pranzo di Babette (1987, tit. or. Babettes gaestebund) diGabriel Axel. Se l'avevo visto allora, e non credo, mi ero perso il senso di questo racconto che, da qualunque parte lo si interecetti, ha molto da dire a noi che lo vediamo a un quarto di secolo di distanza. Vi si racconta la storia di Filippa (Bodjl Kjer) e Martine (Birgitte Federspiel), figlie di un pastore, a sua volta padre di una chiesa nella provincia danese, che festeggiano il centesimo anniversario della nascita del loro papà. A preparare il menu, però, è Babette (Stéfane Audran), la loro cuoca francese, che molti anni prima si era rifugiata presso di loro tramite raccomandazione, avendo perso marito e figlio in una spietata guerra civile in Francia.

Il pranzo di Babette è sontuoso, costosissimo e prelibato, ma desta molti sospetti nella piccolissima comunità provinciale a cui è rivolto. Si tratta di un pasto squisitamente francese e gli ingredienti non sembrano neanche commestibili alle due padrone di casa, al punto da far temere una specie di rito stregonesco, un vero e proprio sabba sotto il tetto timorato delle due donne. È solo la presenza del Gen. Lorens Löwenhielm (Jarl Kulle), estraneo al circuito ristretto dei fedeli, a riportare il cibo a una dimensione meno spirituale di quella che si voleva intendere in quel tavolo: è lui, in ogni caso, a spogliare la cena di quella censura che pesava come una cappa sull'evento.

Il pranzo di Babette è un sacrificio in nome della fedeltà, dell'amore familiare, è la celebrazione di un rito, un dono che coinvolge l'umanità ristretta a un tavolo che ha perduto modi e ragioni per riconoscersi. Il film scritto e diretto da Gabriel Axel ha il tocco delicato e leggero di un atto d'amore. Girato in una periferia onirica, Il pranzo di Babettecolpisce per la sapienza con cui l'innaturale lentezza di una Danimarca lontanissima e intorpidita dalla bellezza e dalla nebbia viene coniugata con sapiente dosaggio degli umori e tempi cinematografici molto ben calcolati, che non comportano mai la noia dello spettatore. A differenza di altri film nei quali la convivilaità è un pretesto, il pranzo in sé e la sua preparazione sono in effetti il fulcro di un film recitato benissimo da tutti (anche i più sconosciuti attori, ma si ricordi la presenza di Bibi Andersson), denso e simbolico, colmo di eleganza e di mistero, prezioso e narrativamente equilibrato.

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