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sabato 2 aprile 2016

Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi,

Dialogando 

il blog di Luigi Alici
Il fragile e il prezioso



«Tra noi e l’inferno o il cielo, c’è solo la vita,
che è la cosa più fragile del mondo»
(B. Pascal)
  


Giovedì 17 marzo sarà in libreria il nuovo libro, di cui qui anticipo per i lettori del blog l'introduzione.
Il libro sarà presentato e discusso dai proff. Piergiorgio Grassi, dell'Università di Urbino, e Massimilano Marinelli, dell'Università Politecnica delle Marche, mercoledì 16 marzo, alle ore 17, a Macerata, Via Garibaldi 20, III piano, aula A.


Introduzione


L’intera storia dell’etica – non solo occidentale – potrebbe essere riletta anche come un lungo e tormentato itinerario segnato dagli incontri stupefacenti e dagli appuntamenti mancati tra la vita e il pensiero: un cercarsi e un ignorarsi reciproco, in un cui prossimità e distanza si avvicendano incessantemente. Un ennesimo capovolgimento di fronte, in questo pendolarismo inquieto, segna la lunghissima stagione di congedo dal moderno, di cui a volte abbiamo la sensazione di essere prigionieri, in una penombra che continua ad esitare tra la retorica di un tramonto interminabile e l’attesa di un nuovo giorno, sempre troppo lontano.
Il rovesciamento di paradigma si manifesta essenzialmente nel passaggio da un antropocentrismo sistematicamente disattento (se non pregiudizialmente avverso) al mondo della natura e della vita a un biocentrismo pervasivo e in molti casi non meno dogmatico. Una contrapposizione così schematica tra vita e pensiero non deve trarre in inganno: declinazioni multiformi, non di rado divergenti, interessano sia il paradigma antropocentrico sia quello biocentrico, anche se per motivi diversi. Nella sua storia recente e non ancora ben sedimentata, il biocentrismo sta assumendo la fisionomia di un contenitore culturale sin troppo elastico e perfino incoerente, al quale fra l’altro guardano, con intenti fondamentalmente dissimili, ecologia e bioetica.
La prima tende a rafforzare risolutamente la pressione normativa dell’etica percorrendo vie molto diverse: nel passaggio dalla Shallow alla Deep Echology si accentua l’antitesi tra riduzionismo metodologico, che non vuole rinunciare al rigore scientifico nell’analisi di situazioni complesse, e olismo radicale, che rischia un corto circuito tra natura, etica ed estetica, fino a sfumare in forme di ecosofia transpersonale. Nei movimenti di liberazione animale, d’altro canto, domina soprattutto una polemica contro gli steccati ideologici dello specismo, in nome di una riconsiderazione unitaria della vita animale, forse meno attenta alla complessità degli ecosistemi e ancor meno preoccupata di farsi carico della differenza tra organico e inorganico.
Al contrario, in ampi settori della bioetica contemporanea, che peraltro non si riconoscono come una forma di biocentrismo in senso proprio, si afferma soprattutto la tendenza a indebolire – o comunque rimodulare – ogni prescrittivismo etico “forte”, nell’intento di decostruire un collegamento univoco tra vita naturale e vita morale, dovendo farsi carico, peraltro, di un equilibrio tra autonomia individuale e responsabilità pubblica, particolarmente problematico per una cultura estranea o addirittura ostile al principio del bene comune.
Nel caso della bioetica il riferimento biocentrico cambia profondamente, soprattutto quando si tende a spogliare la vita naturale di ogni intrinseca valenza normativa, riconoscendole piuttosto il carattere di un dato biografico originario, con il quale l’intero spettro dell’esistenza deve confrontarsi: nella salute e nella malattia; nelle pratiche di vita e nella istituzioni che plasmano la cultura e il costume; nelle convinzioni etiche, religiose e spirituali in cui s’incarnano gli ideali della convivenza e della cura, prolungandosi sul piano dell’economia e del diritto, dell’educazione e della politica.
Si possono forse intravedere, in questa sorta di nuovo “conflitto delle interpretazioni”, interno al biocentrismo, alcune eredità irrisolte dell’antropocentrismo moderno, che per la sua lunga e complessa parabola interna è impossibile ricondurre a una linea di sviluppo coerente e unitaria: dalla versione originaria, ingenuamente dominativa o potentemente utopica, fino al suo esito estremo, nichilistico e disperato, che alla fine tiene insieme morte di Dio e morte dell’uomo.


Il rapporto tra vita e pensiero, che matura nella bioetica contemporanea, può essere inquadrato in questa prospettiva. L’irrompere tumultuoso e imprevisto del primato della vita, di cui le biotecnologie sono nello stesso tempo lcausa ed effetto, trasformando di fatto la scala funzionale del possibile in una nuova scala etica del lecito, ha trovato il pensiero etico-filosofico in gran parte impreparato, se non addirittura chiuso in un atteggiamento di estraneità pregiudiziale. Il brusco risveglio, provocato dall’incrinarsi in modo sempre più preoccupante del precario equilibrio della biosfera, si è rapidamente trasformato in un vero e proprio campanello d’allarme quando le sfide della tecnoscienza hanno assunto dimensioni macroscopiche e non più occultabili, fino all’avanzare impetuoso delle cosiddette tecnologie GRIN (geno-, robo-, info-, nano-), che promettono di destrutturare – e ristrutturare – fin dalle fondamenta il cammino plurisecolare dell’Homo sapiens.
Negli ultimi decenni, mentre il pensiero europeo era ancora largamente monopolizzato dal dibattito intorno alla crisi della ragione e si andava consolidando la volontà di far coincidere il congedo dalla modernità con una sostanziale delegittimazione dei suoi paradigmi antropocentrici, il pensiero angloamericano appariva per lo più assorbito, nella dominante impostazione analitica, in questioni di metaetica, spesso istruite e condotte sulla base di approcci autoreferenziali e dichiaratamente evasivi sul piano dell’etica normativa. In una sorta di involontaria alleanza tra analitici e continentali, alla fine ogni competenza di ordine prescrittivo ha finito di fatto per essere abbandonata alle preferenze individuali, alle semplificazioni ideologiche o alle confessioni religiose.
L’irruzione di dilemmi drammatici e in molti casi laceranti, assunti e rilanciati dall’etica medica, ha in un certo senso “salvato” la riflessione morale dall’aridità e dall’isolamento, provocando una frettolosa riconversione alle urgenze della cosiddetta etica applicata, anche se non sempre assistita da una adeguata elaborazione teorica. Così, di fronte all’incalzare di una casistica inedita, mentre nei comitati etici degli ospedali e dei centri di ricerca si sperimentavano “sul campo” forme nuove di dialogo interdisciplinare, e mentre negli ordini professionali si cercavano compromessi faticosi nella elaborazione di codici deontologici sempre più aggiornati e specifici, per la mancanza di una mediazione etica tra vita e pensiero si è accentuata una oscillazione instabile tra un eccesso di concretezza e un eccesso di astrazione: per un verso, privilegiando ricerche empiriche di bioetica clinica; per altro verso, consacrando principi normativi spesso assunti in modo irrigidito e dogmatico.
Lo spazio che si è creato tra i due estremi si è trasformato rapidamente in una prateria, dove paura del nuovo e delirio di onnipotenza, nostalgia di sicurezze antiche e sogno di nuove frontiere hanno ripreso un antico duello, fatto di scorribande e colpi di mano, che gli interessi economici, la spettacolarizzazione mediatica e la semplificazione ideologica non esitano a cavalcare spudoratamente. Il percorso che qui si cerca di disegnare ha l’ambizione di assegnare a una bioetica “in punta di piedi” il compito di custodire criticamente questa distanza tra vita e pensiero, evitando di irrigidirla in un blocco monolitico, che condannerebbe l’etica ad essere inghiottita dall’egemonia naturalistica, e, al contrario, di diluirla in una forma di vago galateo deontologico, che nasconde a malapena dietro la convenzionalità instabile dei propri precetti l’antica logica del più forte.
La custodia di questa distanza dipende dalla possibilità di far valere in bioetica una distinzione preliminare, che precede altre differenze – certamente rilevanti – fra orientamenti ideali e normativi diversi: si tratta della distinzione fra bioetica critica, disposta ad argomentare razionalmente le proprie tesi, anche riconoscendo spazi di radicale problematicità, e bioetica ideologica, ciecamente aggrappata alle proprie certezze, spesso frutto di chiusure pregiudiziali. Tale differenza non coincide necessariamente con quella che intercorre tra credenti e non credenti: anche il credente deve entrare nel dibattito bioetico portando argomenti, così come nemmeno il non credente può uscirne, ad esempio delegittimando l’interlocutore o il valore stesso del confronto critico, facendo pesare su di esso un’ipoteca relativista.
La natura critica e non ideologica dell’approccio bioetico in questo libro viene accreditata in modo per lo più indiretto, ponendo la cifra tematica del fragile e del prezioso alla base di quattro approfondimenti, dettati dalla condizione dell’Homo (inteso ovviamente come persona umana, maschile e femminile) fragilis, patiens, moriens, curans. Solo uno sguardo cordiale e inclusivo sull’intero della vita personale (e dunque, già da sempre, interpersonale), può abbracciare il doppio volto – fragile e prezioso – della finitezza, all’origine della differenza fra limite e ferita, fra vulnerabilità ontologica e fallibilità morale. Da questo scenario etico-antropologico, di cui si debbono rintracciare le coordinate, la bioetica deve lasciarsi costantemente ammaestrare: nella elaborazione del proprio statuto epistemologico, prima ancora che nella definizione di un catalogo prescrittivo, più o meno severo o “trattabile”.
Il fatto che l’intero percorso abbia come approdo conclusivo la riqualificazione di un’etica della cura, intesa come un paradigma relazionale esigente e coestensivo all’intero volume dell’umano, aiuta a liberarsi dall’equivoco di fondo che identifica la forza del vincolo etico con le false sicurezze di un approccio chiuso e irrigidito. Al contrario, altezza dell’etica e profondità antropologica vanno sempre di pari passo, soprattutto quando si cerca di tener ferma la coincidenza del fragile e del prezioso, in modo da escludere un’interpretazione relativista del fragile e nello stesso tempo un’interpretazione fondamentalista del prezioso. Non si deve scambiare l’umiltà della ricerca, che deve sempre coniugare ascolto attento della vita e senso vigile del limite, con una debolezza teoretica o una timidezza etica, dimenticando che il bisogno di facili scorciatoie prescrittive s’afferma quasi sempre in una terra di nessuno, dove non si lascia parlare la vita e non s’impegna mai a fondo il pensiero.
L’auspicio è che si colga nello spirito dialogico che ha ispirato ogni pagina di questo libro qualcosa di più che un semplice esercizio di stile, irrilevante o peggio evasivo sul piano della ricaduta normativa, cui la bioetica non può certo rinunciare, pur senza cedere, nello stesso tempo, alla fretta di arrivare troppo presto. Su questo punto, mi affido alla parola di Agostino, il quale ricava da una meditazione sulle apparizioni discrete del Risorto ai propri discepoli un insegnamento particolarmente attuale anche per il nostro tema, in cui forma e contenuto appaiono inscindibili: «Insegnare agli amici l’umiltà era più importante che rinfacciare ai nemici la verità».

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