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martedì 17 aprile 2018

Per chiudere in bellezza Leggiamo... “Il fu Mattia Pascal”

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“Il fu Mattia Pascal”

Trama:
«Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal.» Ma anche la certezza del proprio nome dovrà svanire ben presto nella vita del bibliotecario Mattia Pascal. A lui il caso ha dato una clamorosa possibilità: azzerare il proprio passato e cominciare una nuova vita. Moglie, suocera e amici lo riconoscono nel cadavere di un suicida e lo credono morto. Ricco grazie a una vincita al gioco, può rifarsi una nuova vita e inventarsi il ruolo di Adriano Meis. Ma la libertà appena acquisita si rivela in realtà una ferrea prigione... Il romanzo capolavoro di Pirandello, pubblicato nel 1904, un umoristico e grottesco scandaglio della realtà piccolo-borghese che evidenzia l'impossibilità per l'uomo di essere davvero artefice del proprio destino.


www.oilproject.org/lezione/pirandello-fu-mattia-pascal


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Quando di legge Pirandello viene quasi da chiedersi in quale tempo abbia vissuto, e “Il fu Mattia Pascal”, in quale secolo sarà collocato? L’estratto proposto rappresenta il cuore del romanzo, il momento in cui il protagonista muore e poi rinasce, per un caso fortuito della vita, nel nome di Adriano Meis. Chi è costui? “Un uomo inventato“, scrive l’autore. Mattia Pascal viveva i suoi giorni senza quasi esserne padrone, con una moglie che non amava, una famiglia che non sentiva sua. Decise così di partire, eppure non aveva idea, non poteva sapere che non sarebbe più ritornato uguale.
Io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza“, si legge nel romanzo. Mattia Pascal non esiste più, è morto suicida per un dissesto finanziario: è questo che scrivono i giornali, è questa la fittizia verità che il mondo conosce. E nasce Adriano Meis. Nasce dal nulla, come una fiaba improvvisata dal padre per addormentare suo figlio, nasce già adulto, già capace di ricordare, di fantasticare, di costruire. E come chi assiste ad una nuova nascita, guardando il corpo prendere forma, gli occhi aprirsi sul mondo, Adriano Meis è felice, di “una felicità improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore“. Si tratta come di un protagonista nuovo, che scorge davanti a sé la possibilità di fare di sè stesso ciò che più vuole, è una libertà pressoché infinita, come quella di un neonato che ancora deve imparare tutto. Si scontrano presto in Adriano Meis emozioni contrastanti, una sorta di inquietudine affianca l’impulsiva gioia iniziale, perché in fondo Adriano non possiede nulla, una casa, una famiglia, nemmeno un passato può accompagnarlo nel suo vagabondare. È solo, e lo grida tre volte, “Solo! Solo! Solo!“, solo come non era mai stato prima. È felice e nello stesso tempo accompagnato da una “certa mestizia“, perché non esiste un uomo in grado di pensare che non senta il peso dell’isolamento. Come sosteneva Aristotele, “l’uomo é un animale sociale“. E Adriano Meis, per il mondo, per la società, non esiste.
Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo gli infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le mie tante fila spezzate. Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? […] No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia“. Quello di Adriano Meis è un lavoro di invenzione, di costruzione della sua storia come si può costruire il personaggio di un romanzo, e tutte quelle emozioni contrastanti che lo travolgono sfociano in un solo unico gesto: il sorriso. Sorride davanti a tutto il reale, compreso sè stesso. Sorride perché è consapevole di non essere più parte del mondo vero e concreto: Adriano Meis non è che un’apparizione, un racconto che non può essere dimostrato, e che guarda la natura davanti a sè con la coscienza del suo non esistere. Guarda con ironia e distacco le cose, perché le cose sono distaccate da lui. Eppure non si lascia vincere dall’apparente impossibilità di realizzare tangibilmente sè stesso, ma continua a vivere sospeso, alla ricerca delle sue artificiose certezze, cogliendo dal reale i particolari a lui più affini e mettendoli sistematicamente insieme, quasi fosse un gioco a incastro. “Vivevo non nel presente soltanto, ma anche per il mio passato cioè per gli anni che Adriano Meis non aveva vissuti“. E tutto questo non fa che produrre gioia e mestizia, perché il tempo da inventare è sconfinato, ma ritorna sempre la consapevolezza che neppure la fantasia possa realizzare tutto. Mattia Pascal si ritrova catapultato in una realtà nuova, padrone del suo stesso corpo, immutato, vivo, libero di scegliere quale angolo di universo visitare, solo e incapace di capire se quella solitudine sia un bene o sia un male. “Or che cos’ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sè, pur calata nella realtà“.
Forse quello che più emerge da questo stralcio, tratto dal romanzo di Pirandello “Il fu Mattia Pascal”, è che possiamo scappare da tutto, illuderci di poter cancellare la nostra vita e rinascere dal niente, ma ciò che rimane è una libertà infinita e impossibile da riempire. L’uomo ha bisogno di sè stesso per vivere, così come necessità dell’ossigeno per respirare. E non possiamo noi privare il nostro corpo di ciò che gli è più caro: la nostra anima. Perché sarebbe esattamente come morire.
Voto: nove

Ilmondodelleparole


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