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domenica 4 gennaio 2015

«Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa».

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    • Mario Calabresi

    Mario Calabresi

  • Mario Calabresi (Milano 1970), giornalista, dal 2009 è direttore della «Stampa». Ha lavorato all'Ansa e alla «Repubblica», dove è stato caporedattore e corrispondente dagli Stati Uniti. Per Mondadori Strade blu ha scritto Spingendo la notte più in là (2007), La fortuna non esiste (2009),Cosa tiene accese le stelle (2011).
    Nel 2013 ha pubblicato A occhi aperti (Contrasto).
«Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa». MARIO CALABRESI -   MONDADORI


LaStampa
In anteprima dal nuovo libro di Mario Calabresi, la storia di due giovani degli Anni Sessanta che dopo la laurea in medicina partono da Milano per aprire un ospedale in Uganda in mezzo alla savana. Grazie al denaro raccolto come regalo per il loro matrimonio
«Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa». Così, in una lettera del 1970 ai suoi genitori, scriveva Mirella Capra, giovane pediatra partita per l’Africa con il marito ginecologo Gianluigi Rho. E così è intitolato il libro (Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa, in uscita da Mondadori, pp. 119,  17) che il direttore della Stampa Mario Calabresi dedica alle «storie di ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi». Come Mirella e Gianluigi, i suoi zii, la cui avventura africana proponiamo in questa pagina, insieme con l’introduzione del libro


Saint Kizito Hospital, Matany, Uganda: 284 posti letto, 7 medici, 65 infermieri, 8 ostetriche, 4 fisioterapisti. Visite ambulatoriali nel 2013: 39.352; ricoveri: 10.000; operazioni chirurgiche: 2089. Bambini nati: 1416.

La prima tappa
La lista di nozze comprende 22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio, lampada operatoria, attrezzi per la chirurgia. Deve servire ad arredare la loro nuova casa, un minuscolo ospedale in mezzo a una savana molto arida, terra rossa e pochi arbusti spinosi, nel Nord-Est dell’Uganda. L’ospedale non esiste ancora e quel posto, chiamato Matany, non l’hanno mai visto, è solo un cerchietto rosso su una cartina. 

Sulle partecipazioni, sotto i loro nomi, c’è scritto «Lacor Hospital, Gulu, Uganda». La prima tappa della loro vita insieme, l’ospedale in cui lui deve specializzarsi in chirurgia e lei in pediatria tropicale, in attesa che cresca quel reparto maternità che hanno sognato insieme. Non hanno nemmeno pensato di mettere su casa a Milano, la città dove abitano; vogliono partire subito, dopo una settimana di viaggio di nozze in Valle d’Aosta. Nessuno regala servizi di piatti o cornici d’argento, le uniche eccezioni due valigie e una sacca rotonda che per anni saranno le loro compagne di viaggio. Alla vigilia della partenza scrivono una lettera di ringraziamento (erano stati raccolti 4 milioni e mezzo di lire, 40.000 euro di oggi): «Con questa somma si è potuto provvedere all’attrezzatura completa del primo reparto dell’ospedale di Matany. Vi siamo grati perché col vostro gesto avete dimostrato di capire il senso profondo della nostra scelta».

Il reparto maternità viene inaugurato ufficialmente l’8 dicembre 1970, ma i primi tre parti avvengono l’ultima domenica di ottobre. A dire il vero, sono solo due, perché la terza donna partorisce per strada a pochi metri da quell’edificio, che ancora non si può chiamare ospedale, e torna subito al villaggio.

Alla fermata dell’autobus
«Dopo pochi mesi che stavamo insieme, era il 1965 e studiavamo tutti e due medicina, alla fermata dell’autobus gli dico: “Ma mica vorrai andare in Africa, perché sappi che io non mi sposterò mai da qui”. Avevo tutti gli amici a Milano, vivevo con la mia famiglia in una casa di 400 metri quadrati disegnata da un architetto, la mattina trovavo la colazione pronta, non ero capace nemmeno di cucinare una pasta e dell’Africa non sapevo proprio niente. Lui mi rispose tranquillo: “Non parliamo di Africa ma di come stiamo noi”. Non avrebbe più detto una parola, ma sentivo quanto lo attirava quel mondo e la sua passione silenziosa lavorò dentro di me, così alla fine diventò naturale pensare di andarci. Me ne resi conto un pomeriggio che eravamo andati a prendere un aperitivo in piazza del Duomo a Milano con un gruppo di amici con cui studiavamo medicina e che stavano parlando degli ospedali missionari. Davanti al bancone dello Zucca, per la prima volta ho pensato che non avrei più detto di no. Così, prima di sposarci, scegliemmo insieme di raccogliere con entusiasmo una sfida di cui io non avevo davvero idea, una sfida considerata impossibile dai missionari: sostenevano che il posto era talmente inospitale che qualunque coppia di giovani medici sarebbe durata ben poco. Noi, invece, rimanemmo cinque anni».

Il primo figlio
Gianluigi Rho, 26 anni, e Mirella Capra, 27, partono da Linate con un aereo che trasporta i missionari, fanno scalo ad Atene prima di atterrare a Entebbe. Lei si è accorta di aspettare un figlio e forse il lunghissimo viaggio in jeep sullo sterrato non è stata una grande idea, ma la bambina che nascerà in autunno con il nome di Lucia si abitua subito e, a soli due mesi di vita, è presente all’inaugurazione della lista di nozze dei suoi genitori, a cui segue un rinfresco a base di carne di capra arrostita.

I cuginetti «africani»
Quando ero bambino ascoltavo i racconti «africani» a casa dei nonni. Succedeva ogni volta che arrivava una lettera su carta leggerissima, era un mondo lontano e inimmaginabile, non c’erano i documentari in televisione, le mappe su Internet su cui curiosare, ma solo qualche rara foto in cui si vedevano i cuginetti giocare con dei bambini neri e nudi in mezzo alle pozzanghere. Finalmente un Natale, avrò avuto cinque anni, si materializzarono. Oltre a Lucia c’erano Stefano e Marco. Erano biondissimi e avevano i pantaloni corti, mentre io portavo un loden fin sotto il ginocchio. Parlavano tra loro in una lingua incomprensibile, il nonno disse che era il dialetto acioli. Tutti i parenti cercavano di abbracciarli e baciarli, anche se erano praticamente degli sconosciuti, ma loro sfuggivano alla presa e correvano da ogni parte. Io e i miei fratelli eravamo intimiditi, ma alla velocità in cui erano apparsi scomparvero, tornarono in Africa e li avremmo rivisti quando per tutti fu il tempo delle elementari. Una parola mi sarebbe rimasta impressa, Matany, una parola che mi dava una sensazione esotica, calda e di allegria.

Cosa è rimasto
L’aeroplanino a elica comincia ad abbassarsi. Prima abbiamo sorvolato il Nilo, poi abbiamo passato le porte della Karamoja, due montagne che lasciano spazio solo per una strada e segnano il cambio di paesaggio e l’inizio della terra arida, delle acacie e degli arbusti spinosi. Ora ci stiamo dirigendo verso una pista di terra rossa occupata da bambini, capre e una mucca. Il pilota finge un atterraggio per sgombrarla, poi risale, fa un giro e, quando vede che sono scappati tutti ai lati, si decide a scendere. L’arrivo di un aereo a Matany è ancora una festa, i ragazzini con le maglie da calcio – Messi, Agüero e Ronaldo sono in testa alla classifica anche qui – ridono e salutano. Sono venuto a vedere le conseguenze di una lista di nozze, a capire cosa è rimasto. Con me c’è Stefano, mio cugino, quel biondissimo figlio di Gigi Rho che non è mai più tornato nella casa dei primi quattro anni della sua vita. 

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