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mercoledì 28 gennaio 2015

Thomas Merton:Gandhi e i ciclopi & un viaggio alla ricerca dell'uomo

Thomas Merton, Gandhi e i ciclopi

thomas-merton
Ci ha insegnato e riconoscere i ciclopi, i barbari, e oggi abbiamo ancora bisogno della sua parola che scava in profondità, del suo sguardo visionario.
Il 31 gennaio 1915, a Prades (Francia), nacque Thomas Merton, approdato alla fede cattolica e alla vocazione monastica dopo una giovinezza cosmopolita, ricca di esperienze, ma anche travagliata.

Un esploratore del cuore dell’uomo

È stato una delle maggiori personalità spirituali del XX secolo e ha vissuto il passaggio da una fede estranea al mondo moderno a un cristianesimo che abita dentro la storia in comunione con l’umanità e i suoi fermenti, a partire dalla contemplazione e dall’esperienza eremitica. Merton era il solitario e marginale che guardava dentro il cuore dell’uomo e della società planetaria. Scrittore e poeta, con la sua vasta opera – la quale, di fatto, è una monumentale autobiografia spirituale – ha ispirato milioni di persone facendosi pioniere e viandante lungo le strade di regni sconosciuti: la pace, l’ecumenismo, l’incontro tra le religioni, ma soprattutto la ricerca di una spiritualità pienamente umana, al di là dell’irrigidimento di forme e devozioni religiose in cui la consuetudine rischia di prevalere sull’autenticità della relazione con Dio e con gli altri.
Nell’occasione di questo centenario, vale la pena di soffermarsi su uno degli aspetti più rilevanti, e a suo tempo controversi, della ricca elaborazione mertoniana, quella riguardante la pace e la nonviolenza. I recenti fatti di Parigi e l’emergenza del fondamentalismo la rendono particolarmente attuale. Non tanto in vista dello sterile esercizio consistente nel chiedersi: «Che cosa direbbe Thomas Merton, oggi?», quanto nella prospettiva di mettere in risalto i punti focali delle convinzioni da lui maturate che sta a noi mettere in correlazione con le vicende del nostro tempo.

Oggetto di ostracismo

Occupandosi di queste tematiche, Merton ha conosciuto ostracismi da parte di quei confratelli secondo i quali un monaco non avrebbe dovuto occuparsi di politica e da parte di quei cattolici che identificano la propria fede con l’appartenenza con il sistema politico-economico occidentale. «Una cosa è confidare in Dio perché si dipende da lui, un’altra è presumere che egli benedica le nostre bombe perché i russi sono atei e perché non è possibile che egli approvi il comunismo» (Diario di un testimone colpevole, p. 275).
Merton contestava l’alienazione in una sfera religiosa e sacra, distinta da quella profana, e i condizionamenti ideologici della cultura occidentale di cui la religione diventa proiezione e giustificazione. La preghiera, il silenzio, i sacramenti educano lo sguardo dei cristiani – rispetto ai quali il monaco si pone come “sentinella” e avanguardia – nel discernimento sulla storia e le sue urgenze. È un “esercizio di cristianesimo” che richiede tempi lunghi e non la fretta delle risposte di chi abbraccia un punto di vista e un interesse particolari, invece di essere aperto all’umano.
Un riferimento importante è il saggio «Gandhi e il ciclope», pubblicato nel 1964 come introduzione a una raccolta di aforismi del Mahatma, uno dei maestri di Merton. Le caratteristiche distintive della nonviolenza gandhiana sintetizzate in questo scritto rispecchiano la disposizione interiore del monaco-scrittore. Parlando di Gandhi, Merton raccontava le proprie convinzioni profonde.

Nella carità l’incontro Oriente e Occidente

I ciclopi sono gli uomini dell’Occidente che hanno la scienza senza saggezza, senz’anima, dominando la materia e gli altri esseri umani senza comprenderli. E, quindi, senza amarli. Da questo squilibrio nascono oppressione, ingiustizia, morte. Nell’incontro con il cristianesimo, Gandhi apprese la priorità della saggezza e dell’amore, dai quali ricavò la nonviolenza come realizzazione pratica del satyagraha, il restare aggrappati alla verità. «Gandhi così non abbracciò la religione cristiana, ma non la rifiutò; prese dal pensiero cristiano tutto quello che sembrava lo riguardasse in quanto indù».
Ci sono dei valori essenziali – etici, religiosi, ascetici, spirituali e filosofici – che sono universali e condivisi tra Oriente e Occidente e che, dal punto di vista cristiano, trovano il loro compimento nella carità. «Una carità che escluda quei valori non può aspirare al titolo di amore cristiano».
È in nome di quella carità, di cui si trovano le tracce in tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, che Merton ha cercato l’incontro con i loro esponenti. È in nome di quella stessa carità che impegnava la sua parola per diritti civili, per la pace in Vietnam, per il disarmo atomico anche contro la cultura e agli umori predominanti. Mettere in discussione l’arsenale nucleare voleva dire allora contestare la politica di supremazia mondiale degli USA e la logica della guerra fredda e dell’economia capitalista.

La spiritualità è politica

Per lui, però, la priorità spettava a un principio spirituale come già Gandhi aveva intuito, l’unità interiore che ricompone le divisioni da cui deriva la vera libertà e l’impegno politico. «A differenza di quanto si è creduto in Occidente nei secoli recenti, la vita spirituale e interiore non è una faccenda esclusivamente privata. (…) La vita spirituale di un individuo è semplicemente il manifestarsi nel singolo della vita di tutti».
La spiritualità è politica, perché tende alla verità e al bene dell’umano, trascendendo il particolarismo dell’utile e delle ideologie. Ecco, allora, che per Gandhi (e Merton con lui) la sfera pubblica non è secolare, ma sacra e il primo modo di realizzare la verità dell’uomo e l’unità umana nella sua radice spirituale è eliminare la violenza che le contraddice. La nonviolenza, in questo senso, appartiene alla natura stessa della vita politica, mentre la violenza è il segno di una politica disumanizzata.
Da questi presupposti nasce una sottile critica della società moderna, retta sull’uso della forza, in maniera palese nelle tirannie e meno evidente nelle democrazie, a partire dalla convinzione della necessità della violenza e dell’irreversibilità del male.

L’intreccio dinamico delle relazioni umane

«Il “tessuto” della società non è mai finito. È sempre “in fieri”, sul telaio, ed è un intreccio di rapporti in costante mutazione. La nonviolenza tiene conto precisamente di questa natura dinamica e non definitiva dei rapporti umani, perché cerca di trasformare i cattivi rapporti in buoni rapporti, o almeno in rapporti meno cattivi. Perciò la nonviolenza implica un tipo di coraggio diversissimo dal coraggio della violenza. Nell’usare la forza, tendiamo a semplificare la situazione immaginando che il male da vincere sia ben delineato, definito e irreversibile. Quindi non resta da fare altro che eliminarlo».
Anche la democrazia può seguire una logica violenza, identificando i propri mali con una porzione di umanità e combattendola, innescando così una spirale in cui l’aggressione genera altra aggressione, invece di trovare una soluzione comune. Ma quest’ultimo passo richiede consapevolezza, conversione, ritorno alla nostra verità umana e spirituale. Occorre ritrovare se stessi ed essere capaci di comprensione e perdono verso l’altro.

Una lettura profetica

I ciclopi hanno perso questa capacità, vedono solo con l’occhio che concepisce tutto nei termini di un controllo da esercitare e hanno portato nel mondo questo sguardo: «tutto ciò è diventato assai evidente nella triste situazione delle nuove nazioni dell’Asia e dell’Africa, improvvisamente libere dalla tutela coloniale! Avendo accettato la “cultura” dell’uomo bianco nella loro condizione di vassalli, e avendo conservato questo vassallaggio intellettuale e spirituale anche dopo la liberazione, le nuove nazioni sono entrate in una spirale di frustrazione, incoerenza, risentimento e violenza, perché hanno ereditato la colpa delle potenze coloniali sotto forma di odio di sé, di incapacità a capire se stessi e di paura e diffidenza illimitate verso tutti gli altri. Questa non è la libertà e nemmeno la civiltà. È la barbarie dell’uomo post-storico! Una barbarie che può essere evitata solo ricorrendo ai principi e alle politiche di uomini come Gandhi o Giovanni XXIII».
Qui, Merton ha in mente la Pacem in terris, alla quale ha dato un contributo, per come mette in chiaro che la pace non può essere costruita sull’esclusivismo, l’assolutismo e l’intolleranza. La lettura di Merton è addirittura profetica, per come ha saputo cogliere già mezzo secolo fa il germe dell’odierna minaccia del terrorismo fondamentalista, ma anche la debolezza della visione dello scontro di civiltà. Seguire questa strada porterebbe solo a perpetuare e diffondere ciò che si crede di combattere, come ha fatto l’interventismo bellico del primo decennio di questo secolo e di cui ora scontiamo le conseguenze.
Uomini come Thomas Merton sono fuori dagli schemi in cui ci incagliamo, sono i rari uomini che hanno trovato e riaperto l’occhio che i ciclopi hanno perso
Articolo pubblicato come Editoriale
 sul sito dei Viandanti  Christian Albini 


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 MARCO RONCALLI, Avvenire, 28 gennaio 2015

Thomas Merton: 
viaggio alla ricerca dell'uomo

​«L’ultimo giorno di gennaio del 1915, sotto il segno dell’Acquario, in un anno di una grande guerra, al confine con la Spagna, all’ombra di monti francesi, io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi libero per natura, fui tuttavia schiavo della violenza e dell’egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il quadro dell’inferno, pieno di uomini come me, i quali amavano Dio eppure lo odiavano, e, nati per amarlo, vivevano nel timore e nella disperazione di contrastanti appetiti». Così Thomas Merton all’inizio del suo lavoro forse più noto La montagna dalle sette balze, del ’48 (portata in Italia da Garzanti, editore di molte sue opere), ricordando il giorno della sua nascita, a Prades, da Owen, neozelandese, e da Ruth Jenkins, statunitense, pittori globe-trotter.
Un anniversario da rimarcare per più di una ragione che ha riempito una vita di soli cinquantatré anni, ma intensa e originale come la sua spiritualità. Scrittore che richiama un po’ il visionario William Blake, Merton è stato protagonista di un coraggioso impegno per la pace (fonte di diatribe con i superiori, poi valorizzato da Giovanni XXIII e da Paolo VI con i quali ebbe scambi epistolari), nonché un punto di riferimento per il movimento non-violento per i diritti civili, analista di una «pace sulla terra» fondata su ragioni evangeliche e affidata alla testimonianza («una parte essenziale della buona novella è che le misure nonviolente sono più forti delle armi: con armi spirituali, la Chiesa primitiva ha conquistato l’intero mondo romano») che resta in tutta la sua attualità come mostra il suo saggio La pace nell’era postcristiana (Qiqajon).
Ancor prima però, Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione.
Merton, inoltre, va ricordato come uomo dell’ecumenismo e del dialogo, rispettoso delle differenze e concentrato sull’essenziale. Nel dialogo interreligioso, più esplorativo che funzionale, fu pronto ad aprirsi a induisti, buddisti, ebrei, islamici, a cercare le fonti vitali delle altre religioni («Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo»), e con una spiccata attenzione alle espressioni orientali: si vedano le sue riflessioni raccolte da William H. Shannon (L’esperienza interiore, San Paolo) o la sua raccolta che reinterpreta uno dei Padri del Taoismo (La via semplice di Chuang Tzu, che le edizioni Paoline ripresentano ora in una nuova edizione).
Ancora, il dialogo con i non credenti, declinato nella capacità di vedere segni di «fede inconscia» negli atei o di «ateismo inconscio» nei credenti («Il grande problema è la salvezza di coloro i quali, essendo buoni, pensano di non aver più bisogno di essere salvati e immaginano che loro compito sia rendere gli altri buoni come loro»). Una vita contemplativa, la sua, mai isolata dalla realtà. E una vita consacrata concepita come porta aperta all’amore. Un itinerario, quello di Merton, che dopo molti profili tradotti ha trovato ora un suo "racconto italiano", grazie ad Antonio Montanari, Maurizio Renzini e Mario Zaninelli (dell’Associazione Thomas Merton Italia) autori del volume Il sapore della libertà (Paoline).
Rimasto orfano giovanissimo insieme al fratello John Paul (perse la madre nel ’21, poi nel ’31 il padre), Thomas, trascorsa parte dell’infanzia negli Usa e della sua formazione in Francia e in Inghilterra (ma, diciottenne, visitò anche Roma, «la città trasformata dalla Croce»), raggiunse New York nel ’34 completando gli studi alla Columbia University. Approdato al cattolicesimo nel ’38, lasciandosi indietro anche periodi vissuti da libertino gaudente («la mia conversione fu aiuto di Dio, come ogni conversione e da parte mia fu studio e ricerca»), tre anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, entrò nell’abbazia di Nostra Signora del Gethsemani nel Kentucky tra i cistercensi di stretta osservanza e nel ’49 fu ordinato sacerdote.
Un "traguardo" dopo un percorso segnato da studi, viaggi, sbandate, incontri, dal continuo interrogarsi sul senso della vita, sino all’attrazione per il chiostro. Un percorso le cui tappe si riflettono in tante pagine mertoniane talora tormentate ma orientate nella direzione della Grazia, sparse fraNessun uomo è un’isola (del ’53); Il segno di Giona (’52), Semi di distruzione (’66), Diario di un testimone colpevole (’67), tradotti da Garzanti, senza dimenticare Semi di contemplazione (del ’49, ora nel catalogo Lindau) e altri scritti, dove la vita contemplativa non è mai fuga dal mondo, bensì modo per entrare in un dialogo profondo con l’uomo.
Aspettando un editore pronto a presentare la versione integrale dei suoi diari si può magari riaprire Scrivere è pensare, vivere, pregare (Garzanti) curato da fratel Patrick Hart e Jonathan Montaldo, una sintesi il cui risultato è dato da una silloge di "sette stanze", da attraversare seguendo il filo di quel diario che Merton iniziò a scrivere sedicenne e dal quale si staccò solo alla morte. Dalla stanza al n. 35 di Perry Street a Manhattan e dalle camere d’albergo occupate a Miami e Cuba dove visse dopo la conversione nel ’38, sino al bungalow di Bangkok dove un ventilatore lo fulminò il 10 dicembre ’68 (si trovava là per un convegno sul monachesimo e come documenta ilDiario Asiatico ora riproposto da Gabrielli Editori vi si era ben preparato), passando per i luoghi a lui familiari nell’abbazia di Gethsemani (l’infermeria, la cripta dei libri rari dove scriveva, il deposito scelto come romitorio), la sequenza di interni irradia i pensieri del monaco «viandante di Regni» nato cent’anni fa. Così lontano e così vicino.

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