La biblioteca digitale della letteratura italiana>>>Dal sito web www.letteraturaitaliana.net/

La biblioteca digitale della letteratura italiana>>>Dal sito web www.letteraturaitaliana.net/
Avvertenza Alcuni testi o immagini inserite in questo blog potrebbero essere tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio. Qualora, però, la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'Autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. L'Autore del blog non è responsabile dei siti collegati tramite link, né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo.

martedì 31 luglio 2012

Buone vacanze a tutti ...

e LeggiAmo ....

la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro:
leggerli in ordine e vivere,
sfogliarli  a caso è sognare.
Arthur Schopenhauer

 
by GiuMa






immagini dal web

Solitudine <> "Emmaus " Neanche Dio può stare solo di Davide Maria Turoldo



(David Maria Turoldo, Neanche Dio può stare solo,
Casale Monferrato, Piemme, 1991)
Da Sulla strada di Emmaus di Don Marco Pozza
Mentre il sole già volge al declino,
sei ancora il viandante che spiega
le scritture e ci dona il ristoro
con il pane spezzato in silenzio.

Cuore e mente illumina ancora
perché vedano sempre il tuo volto
e comprendano come il tuo amore
ci raggiunge e ci spinge più al largo.

info su assoc-p-turoldo


Da Kairòs Siediti e và!


Il deserto e il giardino. Le due solitudini dell'uomo
di Enzo Bianchi

in “Avvenire” del 29 luglio 2012

Solitudine: una parola che abitualmente suona come negativa, che fa paura, perché rimanda
all’immagine di una landa desolata, a una situazione chiusa, di isolamento, addirittura di reclusione
in prigione. Quando si afferma che qualcuno è solo, lo si dice con un sentimento di pena, di
compassione. Gabriel Marcel è arrivato a confessare: «Non c’è che una sofferenza: l’essere solo»,
ben sapendo che molti uomini e molte donne sono condannati a subire questa situazione. E Victor
Hugo ha scritto lapidariamente: «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine».
Più che di solitudine, dovremmo però parlare di solitudini, al plurale, perché tante sono le forme in
cui la solitudine può apparire, e di fatto appare, nelle nostre vite. Innanzitutto c’è una solitudine da
leggere come una sorta di destino, cioè quella solitudine in cui si precipita a un certo punto della
vita, quando la morte ci strappa chi ci permetteva di non essere soli.
Questa è, per esempio, la solitudine dell’orfano che, perdendo la madre o il padre, non ha più
accanto a sé quella presenza che era la carne, la vita da cui era venuto, non ha più quel riferimento
al 'tu' che l’aveva accompagnato nella sua venuta al mondo. Un tempo la solitudine dell’orfano era
un tema della letteratura, soprattutto quella per i ragazzi, un tema attestato in modo quasi ossessivo;
oggi invece è rimosso, come se non si registrasse più la morte di qualche genitore, che determina
per il figlio, bambino o adolescente, una situazione di triste solitudine.
Solitudine legata a una perdita è anche quella di chi è privato del suo amante/amato, Eugenio
Montale scriveva alla morte della moglie: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di
scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino». Sì, in questa solitudine-destino si può solo
gemere, piangere, fare lamento: il pianto è l’unica cosa necessaria e sembra anche l’unica medicina
possibile.
Un’altra solitudine negativa è quella dell’isolamento. Accade talvolta, spesso a partire da inizi
silenziosi e nascosti, di trovarsi soli, isolati, perché tutti stanno lontano, perché non si è più vicini a
nessuno. La manifestazione estrema di questa solitudine è la prigione, dove si è gettati lontano dalla
vita, dagli affetti, dallo scorrere quotidiano dell’esistenza. Oggi però di fatto molti approdano a tale
isolamento anche senza giungere a questa situazione limite: vi giungono soprattutto a causa di «un
mondo in fuga» (Anthony Giddens), di una società segnata dalla velocizzazione, in cui il singolo
non ha più tempo per dare agli altri la propria presenza.
Sembra impossibile, ma questa lontananza nasce dai figli stessi, dai propri cari, e l’estraneità si
afferma perché i legami si mostrano fragili e sono facilmente allentati o persino troncati. È lo stato
in cui vengono a trovarsi molti anziani, pensionati, invalidi e malati, abbandonati in parte o
totalmente da quanti, impegnati a vivere, non hanno più cura di quelli che non ce la fanno a 'restare
nella vita', a 'correre' come loro. Questi anziani sono - si potrebbe dire - agli arresti domiciliari,
perché impediti dalla loro condizione fisica di muoversi come un tempo.
C’è poi la solitudine di chi vive il sentimento dell’estraneità: questo è soprattutto un malessere
psicologico e intellettuale. Tale solitudine è più rara ed è un morbo che affligge persone in possesso
di una certa educazione, di una certa cultura; non si tratta di abulia o di mancanza di interessi, ma di
rifiuto di ciò che sta intorno, dell’aria che si respira. È un sentire estranei gli altri. Questa, in una
parola, è la solitudine di chi pensa che gli altri siano l’inferno… E poi ci sono le solitudini feconde.
Essere soli, saper stare soli è una conquista che esige fatica, esercizio, audacia. Senza la solitudine e
senza il silenzio come si potrebbe conoscere se stessi, scavare in sé, innestare in sé con
consapevolezza germi di comunione? Ma occorre il coraggio di ritirarsi, di fare anacoresi, di
allontanarsi dal quotidiano, dal proprio impegno, dai propri legami: e questo non per rinnegarli ma
per prendere una distanza da ciò che è uscito da noi, è stato generato da noi, ma non è dentro di noi.
È un uscire dal turbinio quotidiano per fermarsi: 'Siediti e va’', diceva un padre del deserto. È in
questa fase della solitudine assunta che la musica, la lettura, la vista di un’immagine, la
contemplazione di una pianta o di un sasso sono eloquenti, ci pongono domande, accennano a risposte, ci fanno fremere di gioia, ci fanno piangere…
 «Beata solitudo, sola beatitudo!», gridava
Bernardo di Clairvaux.
fonte AlzogliOcchiversoilCielo   qui in PDF

venerdì 27 luglio 2012

La vittoria in un'apparente sconfitta ... da http://www.sullastradadiemmaus.it/

Pippo Pozzato: la vittoria in un'apparente sconfitta

 di

don Marco Pozza

pippo1Come rondini stordite sospese a metà strada tra l'amabilità del Paradiso e la malinconia dell'Inferno. Perchè lo sport è un dio davvero strano: oggi ti bacia e t'illumina, domani t'allontana e ti offusca. E dalla gloria più luminosa sprofondi nell'anonimato più fastidioso.
L'abitudine e l'allenamento alla vittoria sovente fa dimenticare il bisogno di allenarsi anche alla sconfitta: perdere, invece, fa sempre bene, risveglia quel talento che per nascoste ragioni era rimasto intrappolato. Non sempre, però, da una sconfitta si torna più forti: il giorno che accompagnai Marco Pantani verso il cimitero dei pescatori di Cesenatico avvertii il tradimento di uno sport che mi aveva forgiato il carattere e acceso la passione da bambino. M'avevano rotto il giocattolo più bello, la mia bicicletta, in sella alla quale avevo appreso un vocabolario che era il concentrato della vita: passione e applicazione, metodo e stile, fantasia e caparbietà, sogno e costanza, emozione e sacrificio. Chino e piangente su quella tomba costruita a mò di salita, mi ripromisi di rincorrere l'uomo che perde prima che la sua foto finisca sul necrologio di un giornale. M'innamorai profondamente di loro, atleti caduti dall'Olimpo della gloria, derubati della corona e vestiti di miseria. Li scoprii fragili e belli, diamanti impolverati e preziosi, frammenti di umanità in cerca di redenzione. Sono diventati la mia silenziosa famiglia assieme alla quale imparare a capitalizzare le sconfitte per diventare uomini più forti. Vivendo “dietro le sbarre” di una galera, a stretto contatto con il sangue delle ferite prese e procurate, sto apprendendo che il male va compreso senza mai giustificarlo: ogni gesto ha le sue radici in una storia ai più sconosciuta. Ho ripreso la mia bici e ho scoperto l'altra faccia del ciclismo: l'umanità ferita e delusa, le ferite e le speranze che nessuno racconta, ho avvertito il rintocco della speranza rimbombare nel silenzio più assordante di una squalifica. Ho intuito che lo sport è una forma di ascesi senza religione.
Pippo Pozzato è uno di loro, per me è diventato il secondo fratello: bello e dannato, l'eroe tatuato della carta patinata e il bambino pensieroso delle confidenze sussurrate ad un orecchio, il predestinato della gloria e il ragazzo che sa chiedere umilmente aiuto. L'uomo è un mistero davvero strano: anche nell'infamia di una sconfitta rimane la scommessa più bella sulla quale investire. Ci siamo trovati nell'inferno e ci siamo stretti la mano: non c'era la folla festante quel giorno di qualche anno fa. E da lì siamo ripartiti per risalire la scarpata, agganciati ad un messaggio di speranza e di luce che solo il cristianesimo è ancora in grado di offrire. Dal momento che l'ascetica sportiva e quella religiosa tendono a ritrovarsi sotto il medesimo traguardo: con l'alternarsi di successo e fallimento, mette l'uomo nudo di fronte a se stesso, lo scuote alle radici e lo spinge verso il bene massimo di cui è capace, nel tentativo di accenderlo. Domani Filippo avrebbe dovuto essere la punta di diamante dell'Italia nella gara olimpica di Londra 2012: per una strana e discutibile sentenza l'hanno bloccato. Gli alberi più alti sono sempre i più battuti. Nella stessa ora sarà nella periferia di Nairobi, chino sulla miseria e a contatto con l'altra faccia della vita. Quella che gli racconterà di come la passione di un sogno a volte ha bisogno della cenere delle sconfitte per tornare più forte. Come gli amori di Venditti, quelli che non muoiono mai: fanno dei giri immensi e poi ritornano.
Nel frattempo della loro lontananza, si studia per diventare uomini migliori.

(
Avvenire, 27 agosto 2012)