La biblioteca digitale della letteratura italiana>>>Dal sito web www.letteraturaitaliana.net/

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sabato 25 maggio 2013

Vota il tuo libro preferito ...

Sul  sito di Jessica  Sulle ali di un libro 

sotto  il banner di questa bella iniziativa:
sulle : ali-di-libro.
C'era tempo fino a oggi per iscriversi a questo   giveaway.


sabato 18 maggio 2013

«Inferno» ...


Sandro Botticelli, «La mappa dell’Inferno» (1480-1490)
L’ultimo Dan Brown? 
Sembra copiato da una guida turistica

I fiorentini descritti nel predestinato bestseller fanno colazione con olive al forno e lampredotto


E’ ben noto come Gesù Cristo, minacciando il castigo per gli empi, fa riferimento a una certa “Geenna”, della quale si sente raramente trattare. E invece, come ogni parola del divino Maestro, essa merita una grande attenzione, perché il tema tocca la questione della salvezza o della dannazione eterna.
​Sappiamo che si riferisce all’inferno. Ma perché usa proprio quell’espressione? Che vuol dire? Che significato ha? Non si tratta, come vedremo, di semplice significato di parole, ma di una profonda ed interessante questione teologica. 
​Questa “Geenna” o “Gehenna”, infatti, termine presente nelle traduzioni italiane del Vangelo, è “trascrizione latina della parola greca che, a sua volta, non è se non la ellenizzazione dell’aramaico ge hinnòm, valle di Hinnom”. Si tratta di una valle a sud-est di Gerusalemme, dove ai tempi di Cristo si bruciavano i rifiuti, oggi diremmo un inceneritoio, come ne vediamo ormai tanti soprattutto nei pressi della grandi città.
​Era stato adottato questo luogo perché in tempi precedenti si erano praticati dei sacrifici umani offerti al dio pagano Molok. Contro queste pratiche abbominevoli era insorto il profeta Geremia ed anche Isaia vi fa allusione. Già nella letteratura apocalittica del sec.II a.C. questa valle è presentata come luogo della finale resa dei conti degli idolatri e degli apostati.
​La questione precisa che ci poniamo in questo articolo non è quella di trattare in generale dell’inferno, che ci porterebbe troppo lontano, ma vorrei puntare l’attenzione su di un aspetto particolare della dannazione infernale così come vien presentato da Cristo sotto l’immagine dell’immondezzaio o del luogo dei rifiuti.
​La domanda che può sorgere è la seguente: Cristo evidentemente in quanto dice rappresenta la volontà di Dio. Allora ci chiediamo: Dio, come causa prima di tutte le cose, è vicinissimo ad ogni sua creatura; Egli infatti è bontà infinita, ama e governa con infinita sapienza tutte le sue creature, naturalmente buone e belle, il che Lo porta a custodirle e a mantenerle in essere, giacchè se esse non ricevessero questo influsso divino e non fossero oggetto delle sue cure, si trattasse anche di spiriti immortali, cadrebbero nel nulla dal quale sono state tratte.
​Dunque, come è possibile che esista un “immondezzaio”, un inceneritore – Cristo parla esplicitamente di bruciare col fuoco come si fa con le erbacce – agli occhi di Dio? Noi sì, produciamo escrementi e rifiuti che ci fanno schifo, e cerchiamo di sbarazzarcene e di distruggerli con disprezzo, per non pensarci più, come non fossero mai esistiti.
​Chi conserva cose vecchie, guaste e inutilizzabili, lo giudichiamo di poco buon senso. Infatti normalmente quando qualcosa non ci serve più, lo gettiamo via senza rimpianti, non ne teniamo nessun conto e non c’interessa più vederlo od occuparci di esso. Al limite può essere qualcosa che odiamo, perché ci ha fatto soffrire o ci ha recato del danno.
​A volte ci comportiamo così non solo con le cose, ma anche con certe persone: interrompiamo i rapporti e non pensiamo più a tali persone, anzi le disprezziamo. Ma questa certo non è carità fraterna. Ma questo succede a Dio? Anche Dio si comporta così? Anche per lui ci sono cose o persone che gli fanno schifo?
​Ci chiediamo più precisamente: può Dio avere simili sentimenti e condotta nei confronti di qualche creatura, per quanto odiosa, malvagia e ribelle? Ci può essere qualcosa che Egli odia e non intende più vedere e di cui non intende più occuparsi? Qualcosa di talmente spregevole da rifiutarne l’esistenza? Qualcosa o qualcuno circa i quali ritiene che è meglio che non esista piuttosto che esistere? Dio sopprime o annulla qualcosa o qualcuno?
​No assolutamente, come risulta con certezza dal già detto; diversamente concepiremmo Dio non come Dio ma come una creatura come noi, che non ha il compito di mantenere in essere l’universo. Noi creature fragili ed esposte ai pericoli dobbiamo evitare o respingere ciò che ci può recar danno; ma Dio da chi può ricever danno, Egli che è onnipotente, immortale, inviolabile ed impassibile? Anche quando si parla del peccato come “offesa” a Dio, questo è solo un modo di dire per significare che l’offesa in realtà la arrechiamo a noi stessi. Dio non ha bisogno di ripararsi o di difendersi da nessuno, Egli che è il difensore di tutti i deboli e il vindice di tutti gli oppressi. Dio annulla il peccato ma non il peccatore.
​C’è un’altra considerazione da fare. E’ profondo nel nostro animo, soprattutto se vogliamo essere buoni, il bisogno e il desiderio di un universo e di un’umanità uniti, armoniosi e concordi, totalmente governati da un Dio bontà infinita, il bisogno che, a cominciare dalla stessa realtà, non ci siano contraddizioni insanabili, dualismi o separazioni non unificabili, contrasti irresolubili, peccati inespiabili, ingiustizie irreparabili, conflitti inconciliabili.
​Ci accorgiamo, certo, dell’opposizione tra bene e male, e non vogliamo confonderli tra loro, ma il nostro desiderio sarebbe di poter esser parte di una grande famiglia cosmica, dove ogni cosa, sotto il governo divino, avesse il suo posto in un ordine complessivo del tutto e delle parti, dove tutti, per quanto diversi tra di loro, andassero d’accordo, si volessero bene e vivessero nella pace, in collaborazione reciproca e in una profonda comunione con la natura e con ogni essere, e vorremmo sperare che almeno un giorno si dia una vittoria totale del bene e dappertutto il male scompaia completamente dovunque senza lasciar traccia.
​D’altra parte agli occhi di uno spirito onesto, è impossibile un compromesso tra il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, la bontà e la malvagità. “Che c’è di comune, si domanda S.Paolo, tra Cristo e Beliar”? Per questo bene e male sono destinati a restare eternamente separati, l’uno contro l’altro, almeno come possibilità, salvo che non scompaia di fatto ogni male, ogni ingiustizia, ogni peccato.
​Ora, nella visione cristiana non ogni malvagio, tra gli uomini, si converte; quanto ai demòni, essi restano irremovibili nella loro malvagità e ribellione a Dio per tutta l’eternità. Con la Parusia finale di Cristo alla fine del mondo, cessa l’aumento dei peccati commessi tra gli uomini, ma resta in eterno opposizione dei demòni e dei dannati contro Dio. 
​Certo. Col Ritorno di Cristo, sarà inaugurato in pienezza il Regno di Dio che inizia quaggiù con la Chiesa, un’umanità felice, concorde e libera da ogni male, Ma nel contempo sussisterà per sempre in altro “luogo”quella città di Satana che inizia quaggiù con l’attività degli empi e dei ribelli alla legge divina.
​Accanto a Gerusalemme resterà la geenna. Ma che senso ha tutto ciò? “Accanto” come? E dove? Così come alla periferia di Bologna si trova una collinetta che nasconde i rifiuti e che sempre ognuno può vedere dal treno quando giunge alla città da sud?
​ E che dire dei demòni? Quanto a loro, dopo la Parusia essi continueranno nell’inferno ad odiare Dio e gli uomini, anche se non potranno più far danno ai giusti che sono ormai tutti al sicuro in paradiso, nella Gerusalemme celeste, dove i demòni non possono giungere.
​Tuttavia, essendo i demòni già puniti sin dalle origini del mondo, non pare che durante il corso della storia presente e nella storia conseguente alla Parusia potranno aumentare le colpe, così come non possono farlo gli uomini dannati dell’inferno, in quanto sia gli uni che gli altri hanno ormai ricevuto il castigo definitivo per le loro colpe.
​Infatti, come gli uomini non possono più meritare in bene o in male nell’al di là, pare che lo stesso valga per gli angeli e per i demòni, benchè i primi continuino a fare il bene, mentre i secondi continuino a fare il male.
​Quindi nella visione cristiana, benchè Cristo abbia offerto a tutti gli uomini la riconciliazione tra di loro e con Dio, non vi sarà alla Parusia, come pensava Origene, una pacificazione di tutti gli uomini e di tutti gli angeli tra di loro e con Dio, né pertanto i demòni saranno perdonati. Infatti questa teoria è stata condannata dalla Chiesa.
​ Tale teoria riflette quel bisogno di unità o unione di tutto con tutto, che è sempre esistito nei filosofi occidentali e soprattutto orientali sin dall’antichità fino ai nostri giorni, e che si è espressa nelle varie forme del monismo panteista, i cui albori si trovano in occidente in Parmenide ed in India con la vasta letteratura del Vedanta ed ha significativi esponenti in occidente negli stoici, in Scoto Eriugena, Bruno, Spinoza, Hegel e ai nostri giorni in Severino, mentre in India abbiamo tra i principali Shamkara e Madhva, sino ai moderni come Aurobindo e Ramakrishna.
​Significativo è il fatto che in India esistano istituzionalmente le due grandi correnti tradizionali antichissime della sapienza dvaìta, che sostiene la dualità di Dio buono e mondo cattivo, mentre la advaìta opta per il monismo ciclico panteista, nel quale bene e male si succedono eternamente secondo la ruota della “svastica”, simbolo che poi fu ripreso dai nazisti. Questo alternarsi e conciliarsi eterni – perché divini – di vita e morte si trova anche nella massoneria esoterica. 
​Un traccia di questo orribile e blasfemo accoppiamento si trova in una certa cristologia contemporanea del Cristo cosiddetto “Crocifisso Risorto”, dove la risurrezione non è successiva ma simultanea alla morte e inseparabile dalla morte. Quindi in questa cristologia non valgono le parole di S.Paolo secondo le quali “Cristo non muore più”: no, Cristo è sempre morto come è sempre risorto. Tale cristologia ciclica, di impostazione prettamente pagana (vedi il mito di Dioniso), ha come sottofondo la sofferenza non come mezzo di salvezza (il che è giusto), ma come attributo divino.
​Tra occidente ed oriente abbiamo poi la famosa sapienza persiana, quasi compromesso tra le altre due, con la sua massima espressione del manicheismo, il quale prende dall’occidente la distinzione tra bene e male e dall’oriente il monismo panteista Bene-Male, però, pur sostenendo l’esistenza delle divinità opposte del Bene e del Male, prevede che alla fine della storia il Bene vincerà il Male, per cui si avvicina più all’occidente che all’oriente.
​Riprendendo il nostro tema, dobbiamo dire dunque che l’inferno è un deposito dei rifiuti? Così sembra, come abbiamo visto, almeno dalla metafora usata da Cristo: la geenna. Come dobbiamo considerare questo immondezzaio? E’ un ammasso confuso, caotico e disordinato di repellenti e puzzolenti rifiuti gettati a casaccio?
​Rispondo con franchezza pur sapendo di sorprendere qualche anima pia: no, non è tutto questo, perché abbiamo visto che anche l’inferno fa parte dell’universo creato da Dio e Dio nella sua provvidenza si prende cura di tutte le sue creature, disponendo tutto “in numero, pondere et mensura”, come dice la Bibbia, seppure o con la misericordia o con la giustizia. 
​Certo la pena è severa ed eterna, ma giusta e la giustizia è sempre bellezza, cura, ordine, bontà. Così similmente nella tecnica moderna i rifiuti vengono riciclati, per cui possiamo immaginare un utile impiego degli abitanti dell’inferno. Anch’essi danno il loro contributo all’armonia e alla bellezza del mondo, per quanto ciò a tutta prima possa apparire paradossale e forse ingiusto. Ma non bisogna confondere la giustizia con la crudele vendetta. Questa lasciamola agli odiatori e ai mafiosi. Ma Dio è Amore, sempre e comunque. 
​Inoltre, se l’uomo sa ricavare concime dagli escrementi o nuove sostanze plastiche dal petrolio o da quelle gettate tra i rifiuti, forse che Dioi nella sua sapienza non è più bravo dell’uomo e non sa ricavare dal male un maggior bene o l’utile dall’inutile, non sa ottenere dall’attività di un dannato un vantaggio per l’umanità, magari contro la voglia dello stesso dannato?
​Così similmente in un carcere moderno i detenuti, benchè costretti ma poi non del tutto, sono occupati in servizi utili alla comunità. Per concepire dei lavori forzati non c’è bisogno di arrivare agli orrori di Auschwitz o di Büchenwald, ma possono esistere anche forme dignitose di questo tipo di lavori, benchè in un regime di punizione. Dio non è un aguzzino ma resta Padre anche per i dannati. 
​Lo so che questa è una visione nuova dell’inferno: ma perché non la si potrebbe ricavare dalla moderna concezione della divina misericordia, la quale non esclude certo la giustizia – l’inferno resta l’inferno – ma la mitiga con l’amore e la bontà?
​Bonum diffusivum sui: il bene diffonde se stesso anche nel mondo del male, recita con sano ottimismo un detto neoplatonico citato da S.Tommaso. Il bene supera e vince il male non solo annientandolo ma anche trasfigurandolo per fini buoni superiori. Il male non è necessario all’esistenza del bene – qui sta il difetto della dialettica hegeliana. Ma una volta posto il male, il bene sa vincerlo e metterlo al suo servizio anche senza annullarlo, dandogli un senso e facendolo servire a un bene maggiore. Così il male diventa accettabile e riceve una spiegazione.
​Non si tratta quindi di minimizzare la portata del male con vani artifici dialettici, come quello di Spinoza, per il quale il male è ciò che appare tale al singolo, ma ponendosi dal punto di vista universale, sub specie aeternitatis, si scopre che il male non esiste; oppure quello di Hegel, per il quale il male è il necessario polo logico-dialettico del bene o come crede Teilhard de Chardin, che ritiene che il male sia un inevitabile incidente di percorso nella catena di montaggio o nella produzione evolutiva del bene verso le “felici sorti e progressive”. 
​Al contrario, la questione del male è molto seria. Esso, a seconda delle possibilità, va riconosciuto ben distino dal bene, va combattuto, attenuato, sopportato, tolto, perdonato, castigato, espiato. Ma anche ciò che è rifiutato, ciò che è respinto e gettato nell’immondizia ha un senso, ha un valore. Nel piano della Provvidenza nulla va sprecato, nulla viene sciupato: “raccogliete i pezzi avanzati”, dice il Cristo dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani.
​C’è sempre qualcuno o qualcosa a beneficio dei quali va ciò che ci pare inutile, repellente, sporco o immondo, da buttare, ma tutto viene recuperato e riscattato, come diceva il grande Lavoisier nell’ordine fisico: “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Lo scarabeo stercorario è ghiotto di piccole palline di sterco. Anche i ragni, i topi, gli scarafaggi, i virus e i serpenti velenosi, anche le ossa dei morti e gli escrementi hanno il loro scopo e la loro bellezza.
​Il bene, dal canto suo, produce il bene in abbondanza, tanto che pare che sia sprecato. Pensiamo al seme di evangelica memoria che cade sulla strada o il seme umano che, prodotto in sovrabbondanza, defluisce nel piacere anche nel sonno. Si parla erroneamente di “polluzione”: in realtà è la generosità della natura e della vita.
​Pensiamo all’enorme quantità di spermatozoi che affluiscono all’ovulo in una gara eccitatissima per chi arriva primo, perché uno solo penetrerà nell’ovulo. Questo non è sciupìo, questa è una grande avventura. Anche gli spermatozoi cha hanno fallito restano sotto la sguardo di Dio.
​Nulla va perduto, ma tutto viene rivalorizzato e rimpiegato per altri scopi. Nulla agisce senza un fine: questo è un principio metafisico che Dio stesso ha posto nel cuore di ogni ente, si tratti del beato o si tratti del dannato. La perdizione eterna certo esiste: è l’inferno, ma ricordiamoci che l’ha creato Dio, sia pure per punire i malvagi e coloro che lo odiano, ma Dio non odia nessuno.
​L’uomo spreca, sciupa, distrugge, disprezza, rovina. Dio non manda nulla in rovina, ma tutto conserva, ordina e custodisce, anche io suoi nemici, anche coloro che Lo odiano: “fa piovere sui buoni e sui cattivi”. L’inferno stesso entra nell’ordine e nel piano della divina provvidenza. Bisogna saper capire il senso di questo piano, come ben lo comprese Dante, quando all’ingresso del l’inferno il divino Poeta trova questa scritta “Etterno Amor mi fece”.
Cavalcoli

Un manifesto per la cultura della morte

Massimo Introvigne "Inferno" di Dan Brown, "un manifesto anti-cattolico per la 'cultura della morte'"


Per il sociologo, direttore del CESNUR, il libro sembra strizzare l'occhio ad aborto, sterilizzazione forzata ed eutanasia




«Il Vaticano mi odia», afferma a un certo punto di «Inferno», il nuovo romanzo di Dan Brown, la dottoressa Elizabeth Sinskey, direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e santa laica del racconto. «Anche lei? Pensavo di essere l’unico», risponde Robert Langdon, il professore di simbologia di Harvard già protagonista dei precedenti romanzi «Angeli e demoni», «Il Codice da Vinci» e «Il simbolo perduto», che svolge sempre la funzione di portavoce delle idee di Dan Brown.



L’avversione per «il Vaticano», cioè per la Chiesa Cattolica, è il filo rosso che tiene uniti i romanzi di Dan Brown. In «Angeli e demoni» – scritto prima de «Il Codice da Vinci», anche se tradotto dopo in italiano – scopriamo che la Chiesa è da secoli nemica della scienza. Ne «Il Codice da Vinci» Brown cerca di distruggere le fondamenta stessa del cristianesimo, rivelandoci che Gesù era sposato con Maria Maddalena, non pensava di essere Dio e non intendeva fondare la Chiesa. Ne «Il simbolo perduto» il romanziere americano aggiunge che la tradizionale rivale della Chiesa, la massoneria, è un’organizzazione molto più simpatica, illuminata e amica del progresso. Stavolta… e qui devo chiedere al lettore interessato a farsi sorprendere dai colpi di scena di Brown di smettere la lettura di questo articolo, perché – pur senza scendere in troppi particolari – per illustrare l’ideologia che presiede a «Inferno» è necessario dire qualcosa della trama.


Stavolta Langdon – che all’inizio del romanzo ha perso la memoria e si trova in un letto d’ospedale a Firenze – è impegnato in una corsa contro il tempo per evitare una pandemia, un’epidemia planetaria scatenata – prima di suicidarsi – dallo scienziato svizzero Bertrand Zobrist. Lo scienziato, un famoso biochimico, fa parte di un’ala estrema del Transumanesimo, un movimento realmente esistente, alle cui origini c’è il biologo Julian Huxley (1887-1975), che propugna la trasformazione della natura umana in una realtà di livello fisicamente e intellettualmente superiore attraverso l’uso senza limitazioni dell’ingegneria genetica. Nel romanzo, Zobrist si convince che gli scopi del Transumanesimo non potranno essere raggiunti, perché richiedono tempi lunghi e nel frattempo l’umanità sarà annientata dalla crescita demografica. Come spiega un’altra scienziata a Langdon, «la fine della nostra specie è alle porte, Non sarà causata dal fuoco né dallo zolfo, dall’apocalisse o da una guerra nucleare… Il collasso globale sarà provocato dal numero di abitanti del pianeta. La matematica non è un’opinione».

Zobrist ha dunque pensato a una soluzione drastica. Ha nascosto nell’acqua in un luogo molto frequentato una sacca idrosolubile, che entro pochi giorni da quando Langdon entra in scena si aprirà e libererà un virus in grado di diffondersi rapidamente nel mondo intero, risolvendo drasticamente il problema della sovrappopolazione. Aiutato dall’inevitabile bella signora, – ce n’è una diversa in ogni romanzo – di cui finirà per innamorarsi, Langdon si mette dunque alla ricerca della sacca letale. Decifra indizi lasciati dallo stesso Zobrist, fanatico cultore dell’«Inferno» di Dante Alighieri (1265-1321), che alludono alla «Divina Commedia», al pittore e storico dell’arte rinascimentale Giorgio Vasari (1511-1574) e all’astuto e controverso doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205), che lo portano da Firenze a Venezia e da Venezia a Istanbul. Perché Zobrist – se veramente voleva che la sacca non fosse scoperta – abbia lasciato degli indizi che un esperto di simboli può decifrare abbastanza facilmente non è veramente spiegato. 

Ma l’appassionato di Dan Brown trova comunque quello che cerca: inseguimenti mozzafiato quasi in ogni capitolo, perché con Langdon corrono per trovare la sacca – senza che si capisca subito chi lavora per chi, chi finge, chi fa il doppio gioco – gli agenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità guidati dalla dottoressa Sinskey, quelli del «Consortium», una società privata di «contractor» – Brown afferma che esiste davvero, gli ha solo cambiato nome – disposta a fare qualunque cosa per il migliore offerente, e i Transumanisti discepoli di Zobrist i quali intendono assicurarsi, dopo il suicidio del loro maestro, che il suo piano giunga comunque a compimento.

Non senza un ulteriore ammonimento a saltare almeno questo paragrafo rivolto a chi vuole leggere il romanzo e lasciarsi sorprendere dal finale – che però è essenziale per capire gli aspetti ideologici – menzionerò soltanto che Langdon, per una volta, fallisce. Quando arriva al luogo dov’è nascosta la sacca, questa si è già aperta, e il virus ha ormai rapidamente contagiato quasi tutti gli abitanti della Terra. Ma non si tratta di un virus che uccide. Rende sterili, ma in alcuni casi l’organismo riesce a difendersi così che questa sterilizzazione forzata, inconsapevole e trasmissibile alle generazioni future colpisce solo un terzo degli abitanti della Terra. E alla fine Langdon, la sua bella e la stessa dottoressa Sinskey si rendono conto che Zobrist usava sì metodi discutibili e perfino criminali ma i suoi scopi erano giusti: conviene non cercare nessun antidoto e lasciare le cose come stanno. Forse lo avrebbe voluto lo stesso Dante, il cui messaggio «non riguardava tanto i tormenti dell’inferno quanto la forza dello spirito umano nell’affrontare qualsiasi sfida, anche la più terribile». Questa «laicizzazione» di Dante, che ignora il profondo cattolicesimo del poeta, ha una lunga tradizione nel mondo esoterico, ma è del tutto infondata.

Nell’epilogo del romanzo Langdon medita sul fatto che il «peccato» esiste, ma non è quello di cui parla la Chiesa Cattolica. È la «negazione» (denial), una «pandemia globale» che fa sì che cerchiamo di non pensare alla bomba a orologeria della sovrappopolazione mondiale che ticchetta e che distruggerà certamente l’umanità, distraendoci e rivolgendo la nostra attenzione ad altri problemi, tutti in realtà meno urgenti.
La Chiesa Cattolica è la principale responsabile di questo «peccato» universale. Si oppone alla sterilizzazione di massa – di cui il virus del romanzo è un’ovvia metafora – e alla «diffusione capillare degli anticoncezionali», specie in Africa. La dottoressa Sinskey spiega che il Papa e i vescovi «hanno speso un’enorme quantità di soldi e di energie per indottrinare i paesi del Terzo mondo e indurli a credere che la contraccezione sia un male». «Chi meglio di un gruppetto di ottuagenari celibi può spiegare al mondo come si fa sesso?» risponde con il consueto livore anti-cattolico Langdon. E, in uno scambio con Zobrist, la Sinskey si vanta del fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha «speso milioni di dollari per inviare medici in Africa a distribuire profilattici gratis». Non serve, risponde Zobrist: «dopo di voi un esercito ancora più numeroso di cattolici si è precipitato ad ammonire gli africani che se avessero usato i profilattici sarebbero finiti all’inferno». Per fortuna, ci hanno pensato Bill Gates, il padrone della Microsoft, e sua moglie Melinda – che per avere «coraggiosamente sfidato l’ira della Chiesa» meriterebbero di «essere santificati» – a donare «cinquecentosessanta milioni di dollari per favorire l’accesso al controllo delle nascite in tutto il mondo». Ma anche questo sforzo è arrivato troppo tardi.

Chiudendo il romanzo, si rimane perplessi. Brown non può non sapere che quello dell’esplosione demografica è un mito, un «cavallo morto» – per usare un’espressione americana – distrutto da innumerevoli studi statistici che mostrano come gran parte del mondo soffra precisamente del contrario della sovrappopolazione. L’Europa e la Russia hanno troppe poche nascite, non troppe, e i giovani sono già diventati troppo pochi per mantenere livelli adeguati di produzione, di consumo e di contribuzione pensionistica a favore di chi ha cessato di lavorare. 

La Banca Mondiale prevede che la Cina avrà a breve lo stesso problema. L’Africa stessa potrebbe mantenere una popolazione ben superiore a quella attuale, con una migliore e più razionale distribuzione delle risorse. In un momento in cui da tanti grandi economisti a Putin tutti paventano semmai il «suicidio demografico» evocato dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005) sembra paradossale che Brown si presenti a frustare il cavallo morto della sovrappopolazione, riprendendo un vecchio mito che sembrava perfino sprofondato nel ridicolo. Chi prende sul serio oggi il Club di Roma che nel 1970 prevedeva intorno al 2000 guerre mondiali per il controllo di risorse agricole che sarebbero dovute venire a mancare a causa dell’aumento della popolazione?

Ma Brown non è solo. Per rimanere a casa nostra Marco Pannella, Dario Fo, Eugenio Scalfari – per non parlare di Gianroberto Casaleggio, il vero capo del movimento di Beppe Grillo, che considera anche lui necessario ridurre da sette miliardi a un miliardo gli attuali abitanti della Terra per assicurare loro un luminoso futuro a cinque stelle – hanno cercato di rilanciare negli ultimi anni, in un coro unanime e sospetto, i vecchi miti della sovrappopolazione. Nostalgie della loro giovinezza? No, c’è una ragione precisa per questo ritorno a miti screditati. Si tratta di fare propaganda per la sterilizzazione forzata, l’aborto, l’eutanasia e anche per l’ultimo abominio, l’infanticidio dei bambini già nati – e sfuggiti all’aborto – di cui si paventano malattie gravi, mascherato sotto il nome ipocrita di «aborto post-natale» e per cui si è già cominciato a battere la grancassa. 

Il virus del dottor Zobrist – purtroppo, direbbe Brown – non esiste, è solo un’invenzione da romanzo e non è possibile immetterlo nell’aria per sottoporre a sterilizzazione forzata, senza che possa in alcun modo opporsi, un terzo della popolazione mondiale e i suoi discendenti. Ma siccome la «negazione» e il non voler pensare all’inevitabile e relativamente imminente – cento anni al massimo – fine dell’umanità dovuta alla sovrappopolazione è l’unico vero «peccato», è chiaro che si deve fare qualcosa. Subito: e non manca, come in tutti i romanzi di Dan Brown, la solita avvertenza in prima pagina secondo cui tutti i riferimenti scientifici «si basano su dati reali». Così, il libro si risolve in un manifesto per quella che il beato Giovanni Paolo, Benedetto XVI hanno chiamato la cultura della morte: la cultura dei «disegni di morte» evocata da Papa Francesco nella Messa d’inaugurazione del suo pontificato. Se un virus che rende molti sterili non è disponibile, non resta che lottare contro le nascite con altri mezzi. E favorire le morti: Langdon ricorda che «negli Stati Uniti circa il sessanta per cento delle spese sanitarie serve a curare i pazienti durante gli ultimi sei mesi di vita». «Il nostro cervello capisce che è una pazzia», gli risponde la sua compagna.

giovedì 16 maggio 2013

Improvvisazione libera su Dio, la musica, la scienza e l’amore. «Amo Gesù. E voglio raccontarLo a tutti»



Egli canta ogni cosa


DI AUTORI VARI

egli canta ogni cosa
di Francesco Montini
«Amo Gesù. E voglio raccontarLo a tutti». Don Jonah Lynch, giovane prete americano e rettore del seminario della Fraternità dei Missionari di San Carlo, non usa tanti giri di parole per spiegare il motivo e il perché della sua ultima fatica letteraria, che arriva dopo il grande successo del suo *Profumo dei limoni”, dedicato al rapporto con le nuove tecnologie.
Egli canta ogni cosa (Lindau 132 pagine euro 10) è uno di quei libri, che come dice il comico Paolo Cevoli nella sua divertente quanto inusuale prefazione, «fa compagnia».
Il sottotitolo è tutto un programma: improvvisazione libera su Dio, la musica, la scienza e l’amore. Un sacerdote che parla di Dio è cosa abbastanza scontata, ma cosa c’entrano la musica, la scienza e addirittura un tema delicato quanto comune a tutti gli uomini come l’amore? Don Lynch racconta che l’impulso a scrivere è nato dalle domande che un nutrito gruppo di giovani dell’Emilia Romagna gli hanno rivolto alcune settimane dopo il terremoto che aveva colpito quella regione. «Perché Dio permette il male?». «E’ possibile vivere un amore per sempre?». Ma soprattutto quella domanda che accomuna l’uomo da sempre: «Come si fa a credere in Dio?». Per rispondere don Jonah non parte dalla astratta teoria cristiana o dal catechismo, ma racconta la sua vita. Quella di un adolescente, che dopo aver letto i Fratelli Karamazov sorvolando le Montagne rocciose, comincia ad avere i primi dubbi su Dio. «Perché permette il male?» si chiedeva.
E da quell’istante il suo rapporto con il Mistero comincia a raffreddarsi. Va in Chiesa per far contenta la mamma, ma si rifiuta di pronunciare il Credo. Cerca negli anni dell’Università delle certezze, nella fisica, nella scienza come nell’amore per una donna, quello che può durare per tutta la vita. A poco a poco però cominciano a nascere in lui dubbi e domande. La realtà come sempre incalza e inizia a fargli vacillare tutto. Ma Dio non si è dimenticato del giovane Jonah. Gli fa incontrare, per via del tutto casuale, un professore, che lo inviterà alla “Scuola di comunità”, uno dei momenti di incontro promossi dal movimento di Comunione e Liberazione. Una scintilla rinasce nel cuore di don Jonah che ricomincia a guardare Dio con occhi diversi.
jonah lynch
Un rapporto che nel tempo diventerà tanto profondo dal portarlo ad abbandonare la sua terra per approdare a Roma ed entrare nel seminario fondato da Mons. Camisasca, oggi vescovo di Reggio Emilia – Guastalla. Oggi ha il delicato quanto impegnativo compito di formare i nuovi sacerdoti, educandoli soprattutto ad amare Dio, a radicarsi in Lui. «Cristo è la chiave di ogni domanda, non ci sono angoli bui che la sua luce non raggiunga» scrive nel libro, guardando alla sua vita e alle tante note che Dio ha suonato in lui. E che suonano in ognuno di noi. Perché Egli canta ogni cosa


Dall'ARCHIVIO › UNA FOGLIATA DI LIBRI ( Il Foglio )


"Il profumo dei limoni" di Jonah Lynch


martedì 14 maggio 2013

ENCICLOPEDIA DELLE RELIGIONI IN ITALIA.



ELLEDICI




Intervista con il sociologo Introvigne, curatore dell'«Enciclopedia delle religioni in Italia»: aumentano gli ingressi dei cristiani
Di Andrea Tornielli.È appena arrivata in libreria L'«Enciclopedia delle religioni in Italia» (Editrice Elledici, pp. 1240, 125 euro), un corposo volume curato dal sociologo torinese Massimo Introvigne e da Pierluigi Zoccatelli, rispettivamente direttore e vicedirettore del CESNUR. Vi sono censite e descritte le 836 religioni presenti nel nostro Paese. Un primo dato che emerge dalla ricerca è l'aumento considerevole degli immigrati di fede cristiana ortodossa che si avvicinano ormai alle cifre degli immigrati musulmani e potrebbero superarli nei prossimi anni. Vatican Insider ha intervistato Massimo Introvigne. 




Nell'immaginario collettivo gli immigrati sono musulmani, mentre invece la comunità ortodossa è in crescita e nei prossimi anni potrebbe superare quella degli immigrati musulmani. Come si spiega questo fenomeno?


«La più grande comunità ortodossa presente in Italia è quella romena, con 163 parrocchie - e il numero cresce continuamente. L'ingresso della Romania nell'Unione Europea nel 2007 ha reso più facile l'immigrazione in Italia, che è favorita anche dal fatto che il romeno è una lingua neolatina e i romeni, specie i bambini e i giovani, apprendono l'italiano più rapidamente di altri immigrati. Ci sono anche molti romeni cattolici, ma la maggioranza è ortodossa. Nonostante la crisi economica italiana, che ha frenato altri tipi d'immigrazione, le condizioni sociali ed economiche della Romania rendono ancora attraente l'emigrazione in Italia. Lo stesso vale, in misura minore della Romania, per altri Paesi dell'Est a maggioranza ortodossa. La crescita degli immigrati ortodossi in Italia non deriva dunque da ragioni specificamente religiose ma da motivi che attengono ai flussi migratori. Nello stesso tempo, è vero che la Chiesa ortodossa - ancora, specie romena - riesce in Italia a mantenersi in rapporto con la maggioranza dei suoi fedeli immigrati, così che il fenomeno della secolarizzazione degli emigrati - che, lasciato il paese di origine, si allontanano anche dalla religione - per gli ortodossi vale solo relativamente. 




Gli appartenenti a minoranze religiose sono il 2,5 per cento dei cittadini italiani, il 7,6 per cento delle persone presenti sul territorio italiano. Perché la sensazione, a livello di opinione pubblica, è invece quella di un'invasione di appartenenti ad altre religioni e in particolare islamici?


«Con un processo che non è nato ma si è notevolmente accelerato con l'11 settembre 2001, l'Europa ha cominciato ad avere paura dell' "invasione dell'islam" e di una conquista del nostro continente da parte dei musulmani non più per via militare - come si tentò fino all'assedio di Vienna del 1683 - ma per via demografica tramite l'immigrazione. Paradossalmente - ma non troppo - questa paura è stata rafforzata da esponenti del fondamentalismo islamico che hanno cominciato a inneggiare a questa conquista dell'Europa tramite l'immigrazione e le famiglie numerose ("voi non fate più figli e noi ne facciamo tanti" e così via). Si è trattato di quello che la sociologia chiama "panico morale", cioè un fenomeno che si fonda su dati e pericoli reali che però nell'immaginario collettivo è amplificato così che diventa difficile distinguere fra statistiche reali e statistiche folkloriche. Non bisogna dimenticare né sottovalutare che alcuni dati sono reali. 


In Italia, che per molti anni è stata terra da cui si emigrava e non dove s'immigrava, il numero di immigrati non cattolici e in particolare di immigrati musulmani non è cresciuto in modo graduale come in Francia lungo l'arco di un secolo e più ma in modo rapidissimo lungo l'arco di pochi decenni. Nel 1970 i musulmani in Italia erano qualche migliaio, oggi sono - secondo la nostra Enciclopedia, altri ne stimano di più - 1.475.000, compresi 115.000 che sono cittadini italiani. Una crescita così rapida pone evidentemente dei problemi. Anche l'esistenza di piccole minoranze sedotte dall'ultra-fondamentalismo e dal terrorismo è un dato reale, che le cronache di polizia ci propongono spesso. Tuttavia i problemi si affrontano sempre male se non si parte dai dati statistici reali. Questi dati ci dicono che i musulmani sono numerosi ma non c'è nessuna «invasione». E anche che il pluralismo religioso è un fenomeno culturalmente importante e in crescita, ma statisticamente molto minoritario, se è vero che il 97,5% dei cittadini italiani non fa parte di minoranze religiose». 




Il protestantesimo è in crescita in Italia? E se sì, per quali ragioni? A che cosa si deve il successo dei Pentecostali a fronte della riduzione di appartenenti alle comunità storiche?


«Qualche anno fa una figura storica del protestantesimo italiano, il pastore valdese Giorgio Bouchard, presentando un mio libro disse che quando era nato lui il protestante tipico italiano era uomo, viveva in Piemonte, aveva un cognome come Bouchard ed era valdese. Oggi il fedele protestante tipico italiano è una donna, vive in Campania o in Sicilia, è pentecostale e si chiama Esposito. Il protestantesimo italiano cresce in modo significativo, e questa crescita di deve in larghissima parte alle comunità pentecostali. Il fenomeno è mondiale: ovunque nel mondo le comunità protestanti storiche perdono membri e quelle pentecostali - arrivate ormai al mezzo miliardo di fedeli - ne guadagnano. Certamente - lo sa bene il nuovo Papa Francesco, che si è interessato del fenomeno in Argentina, dov'è molto vistoso - una delle ragioni del successo è la preghiera molto viva e calorosa, che attira ex-cattolici specie nelle zone dove c'era un forte attaccamento a una religiosità popolare che andava certo purificata ed evangelizzata ma che una maldestra "modernizzazione" cattolica ha combattuto, determinando un esodo di cattolici verso il pentecostalismo. Non a caso Papa Francesco nell'incontro con le confraternite del 5 maggio ha messo in guardia contro la liquidazione frettolosa della religiosità popolare. Ma una seconda ragione è riassunta nel titolo di un'opera del giurista e sociologo protestante americano Dean M. Kelley (1926-1997) del 1973, che è diventata un classico della sociologia: Why Conservative Churches Are Growing, "Perché crescono le Chiese conservatrici". A Kelley, che era un dirigente del Consiglio Nazionale delle Chiese americano, quello che riunisce le comunità storiche, il fenomeno non piaceva, ma già nel 1973 lo constatava e prevedeva che sarebbe esploso: adottando posizioni "liberali" su temi come l’aborto e l’omosessualità, e più in generale una teologia progressista che mette in dubbio la storicità della resurrezione e dei miracoli, le comunità storiche ottenevano l’applauso dei grandi media – il che dava loro l’impressione di essere sulla strada giusta – ma nello stesso tempo perdevano a ritmo sempre più rapido membri, che passavano alle comunità più conservatrici, soprattutto pentecostali».
Le tante denominazioni protestanti fanno sì che dopo la Chiesa cattolica la seconda organizzazione religiosa numericamente più importante tra i cittadini italiani siano i Testimoni di Geova. Che cosa può dirci di loro? Stanno conoscendo un'espansione?


«La grande espansione dei Testimoni di Geova in Italia si è verificata negli anni che vanno dal 1960 al 1990. Dopo, il ritmo di crescita è diventato relativamente modesto, senz’altro più modesto di quello dei protestanti pentecostali. Negli ultimi anni la crescita è ripresa, grazie a una capillare opera di proselitismo tra gli immigrati: i Testimoni di Geova italiani hanno Sale del Regno non solo di lingua araba o romena ma anche cinese, russa, singalese, bengali, tamil. La nostra Enciclopedia documenta per esempio come i Testimoni di Geova in Italia abbiano 32 gruppi e otto congregazioni di lingua cinese diffuse su tutto il territorio nazionale. Per quanto riguarda gli italiani i Testimoni di Geova hanno probabilmente raggiunto un tetto massimo di espansione – con risultati tutt’altro che modesti (circa quattrocentomila fedeli) – e non penso che la crescita possa riprendere ai ritmi degli anni 1970 o 1980. Dal punto di vista sociologico l’Enciclopedia dà rilievo alla svolta del 1995, quando i Testimoni di Geova hanno deciso che non era più opportuno calcolare o proporre date precise per la fine del mondo. L’idea che la fine del mondo sia un evento cruciale per l’esperienza quotidiana dei fedeli e in qualche modo vicino resta importante per i Testimoni di Geova. Ma il fatto che non se ne propongano più date fa sì che la vita di molti Testimoni di Geova oggi preveda l’istruzione superiore per i figli, un’attenzione maggiore alla vita professionale e lavorativa e anche alle vicende della cultura e dello sport (meno della politica, i Testimoni di Geova non votano): tutti elementi che vanno nella direzione di una "normalizzazione" e di un’integrazione maggiore dei Testimoni di Geova nella società italiana, anche se rimangono ovviamente diverse loro caratteristiche peculiari e uniche». 


In Italia si sta verificando un pluralismo religioso crescente. Che cosa ci può dire della tenuta della Chiesa cattolica? E quali sono le proporzioni tra battezzati e praticanti?


«Come ho detto, il pluralismo religioso ha una grande portata simbolica e piccoli numeri reali. La grande maggioranza degli italiani continua a dirsi cristiana, e anche tra gli immigrati i cristiani (sommando pentecostali e ortodossi, più un certo numero d’immigrati cattolici) sono ormai più numerosi dei musulmani. Tutt’altro discorso è valutare il tipo di cristianesimo, o anche di cattolicesimo, che prevale in Italia. I dati nazionali sono molto controversi, ma l’anno scorso lo stesso CESNUR ha condotto una ricerca in un’area della Sicilia i cui dati – o così ci dicono ricerche precedenti - tendono a riprodurre abbastanza fedelmente i dati nazionali italiani, e ha concluso che l’80% si dichiara cattolico, ma solo il 30% ha un contatto almeno sporadico con la Chiesa e i suoi riti. Dedotti gli atei e gli agnostici (poco più del 7%) e gli esponenti di minoranze religiose, rimane un buon sessanta per cento che appartiene a quella categoria maggioritaria in Europa che la sociologa inglese Grace Davie chiama "credere senza appartenere" (believing without belonging): persone che si dichiarano genericamente credenti e in Italia anche spesso genericamente cattoliche ma non vanno in chiesa se non per battesimi, matrimoni e funerali e non mantengono nessun contatto con le istituzioni della Chiesa. È questo Far West della religione la "periferia esistenziale" di cui parla Papa Francesco in relazione alla nuova evangelizzazione».

venerdì 10 maggio 2013

Con gli occhi della sposa


I misteri del Rosario sono raccontati attraverso la vita di Maria,

 nella sua quotidianità di madre e sposa

Un libro per scoprire la bellezza della figura di Maria attraverso la forza della preghiera




Libri di EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA



Donne moderne





Senza figli, né pancione. Sorridono. Sono donne di mezza età che si raccontano in cinque brevi didascalie a corredo di un saggio “La maternità può attendere” (Mondadori) della psicoterapeuta Elena Rosci sul settimanale Donna Moderna (n. 18/2013). Eh già, a leggere i motivi che le hanno condotte a “evitare” una maternità sono davvero donne moderne. Sono donne di mezza età, tutte lavoratrici che non si sentono donne a metà.

Paola, 35 anni, di professione è farmacista. È il classico esempio di donna da Grande Fratello: di idee, non d’ambizione. Donna votata al disimpegno verso la maternità: “Un bimbo? Non ho il tempo di farlo. Sono single, cerco di sbarcare il lunario, mi arrangio tra un part-time in farmacia, un blog, un libro nel cassetto. Un figlio costa. E quando cerchi un lavoro, non averne è un vantaggio. Oltretutto manca la materia prima: gli uomini in grado di fare i padri. Più di un flirt non cercano! Quindi preferisco viaggiare, curarmi, andare in palestra”. L’orizzonte di questa donna è ferma a sé stessa, andare oltre significa mettersi in gioco, significa rivoluzionarsi. E perché farlo? Lei non ha tempo di un figlio (ma ha il tempo per il blog, per viaggiare e per la palestra sic!). Ma a sua madre, ha mai pensato, che il tempo per metterla al mondo l’ha avuto? E che se pensava come lei anni fa manco c’era ora lei dietro il bancone? Lei non sarà venuta al mondo per magia. È vero un figlio costa, eccome se costa… ma quanto ti restituisce in sorrisi, vita, amore, dedizione, compartecipazione alla vita? Ci sono valori che un bimbo dà che nessun valore economico potrebbe misurarli. Mi sembra, leggendo Paola, di avere a che fare con la classica donna moderna che a 45 anni vivrà di nostalgia e rimpianti (e destinate a realizzarsi poi, magari, attraverso la fecondazione artificiale). E quante ce ne sono purtroppo…
“Io e il mio ex marito abbiamo rimandato il progetto di un figlio per goderci la vita. Ma la vita ci ha diviso. Lui si è preso una pausa di riflessione infinita, abbiamo divorziato. Nel frattempo il mio orologio biologico si è fermato. Non ho rimpianti, non mi sento incompleta. Ho il lavoro, le amiche, sono la vicepresidente di un’associazione culturale…”, si racconta così Silvia, 41enne. Qui, invece, c’è il rovescio dell’orizzonte: il rinvio della progettualità, così lontano, da non essere infinito. La nostra vita prima di tutto, poi il resto, come se un figlio non fosse “la nostra vita”. L’accusa sottile alla vita (?!?), “che ci ha diviso” (non è che voi vi siete divisi? Suvvia un po’ di sincerità…) e la terribile scoperta, oggigiorno, purtroppo, infelice per le donne: la fertilità è arrivata al capolinea. Di rimando in rimando, Silvia non si è resa conto che la gravidanza non è “come mettere un gettone in un juke-box”, c’è un count-down del tutto naturale della fecondità. Lei non si sente incompleta, ma a costo di rinviare tutto - perché almeno idealmente ad un figlio ci pensava sennò che rinvio era – un figlio non c’è… Manca qualcuno nella sua casa.
C’è chi, invece, fa ammissione di un’assenza, tra lutti e tragedie. Lei è impiegata, 44 anni, di nome Annalisa. Credeva di essere destinata a non avere bimbi (“i medici mi avevano sempre detto che ero sterile”), poi l’inattesa gioia, frammista al dramma: “A 41 anni, a sorpresa, scopro di essere incinta. Al sesto mese, dopo 15 ore di travaglio, ho subìto un aborto terapeutico: il mio bambino aveva una malattia genetica rarissima”. Tristezza, sgomento, nessun giudizio morale, per carità. Ma il sospetto, data l’esperienza, è che ci si trovi dinanzi all’ennesimo caso di “antilingua”: lei parla di aborto terapeutico. E la terapia sarebbe la morte del bimbo?, mah… e subìto l’aborto da chi?  Non finisce qui. Perché, così racconta ancora Annalisa, “l’anno dopo il destino si è accanito ancora. Un altro test positivo. E allora ho deciso io di interrompere la gravidanza, sopraffatta dalla paura”. Che destino crudele, che in amore ti ridà un figlio in grembo!!! E quella maledetta paura (da dove verrà? chi l’ha instillata nel suo cuore?) che consente di eliminare un figlio in grembo cos’è? Purtroppo, e lo scrivo con tremore, è un sentimento omicida, che ha preso forma nella mente di questa donna a danno di un bambino. Di suo figlio. Abortire per paura (ah quante morti ignobili dietro la legge 194!!!). Il pancione? “Sì lo ammetto, ogni tanto mi manca…”. Almeno la verità finale. Misericordia.
Gli altri due casi sono similari, “avversione” alla maternità per scelta e per inadeguatezza. Marta, prossima ai 50 anni, non ha peli sulla lingua, dev’essere una di quelle toste: “Non mi sono sposata per scelta. E non ho mai voluto bambini (ci mancherebbe! mica li dobbiamo mettere al mondo con la pistola alla tempia… nda). È già difficilissimo occuparsi di sé stessi. Figuriamoci dedicarsi ad un’altra persona…”. Ah sì, giustissimo. Marta, artista-pittrice, è troppo piena di sé per pensare ad un matrimonio, figuriamoci ad un bebè. Quante ore di impegno e dedizione, di amore sacrificato lei è costata alla sua famiglia anni fa? Possibile che non c’è l’idea di essere venuti al mondo dietro l’amore dei propri genitori e che oggi si è “l’ombelico del mondo?”. Vero, dalla storia di Marta si evince un ripiegamento di prospettive, anche qui, solo su sé stessa. Tristezza. E non manca di esporre le sue convinzioni sulla vita: “Alcuni (uomini e donne, senza distinzioni) fanno figli perché sono alla ricerca di uno scopo nella vita”. Sì, quello dell’amore, quello di poter amare all’infuori di sé stessi, di poter perdere sonno e tempo, di rinunciare ai propri bisogni per lasciarsi assorbire amorevolmente, passionalmente dalle manine di un bimbo che guardandoti negli occhi ti fa “sciogliere il cuore come neve al sole”.
Caso emblematico e pietoso, per chi scrive, quello di Paola che alla fertilissima età, a 25 anni, era così avversa alla maternità cha decide “di andare in analisi perché mi sentivo sbagliata, inadeguata”. Ecco, al solo leggere queste parole verrebbe voglia di abbracciarla questa donna, oggi 51enne. Come può accadere che ad una giovane, repetita juvant, venga trasmesso un virus psicologico letale alla maternità? Da dove proviene questa espressione di inadeguatezza che si chiude alla via e deve far ricorso alle cure mediche? Un caso isolato? O l’espressione, silenziosa e culturalmente impegnata, di una frattura creata fra femminilità e maternità?
Un senso di sottile amarezza mi pervade mentre guardo i loro sorrisi. Per volontà diretta o indiretta, queste donne, belle e solari, hanno rinunciato ad un figlio in braccio. Scelte personali. Hanno rinunciato (lungi dal sottoscritto l’imputazione di colpe morali o addebiti di responsabilità) ad amare un altro cuore, altri occhi, altre manine. A confrontarsi con un bambino. E a rimettersi in gioco con lui. Un velo di gioiosa tenerezza mi inonda, dopo poco, pensando a tutti coloro, mamme in testa e padri a seguire, che nella tempesta, nella serenità, nella fatica, nel riposo, nel sudore, nel sacrificio hanno scelto, per amore e/o piacere, di dare la vita. Incondizionatamente. Che hanno scelto la vita come dono e non come possesso. Che hanno rischiato tutto ritrovandosi in casa, tra le braccia, “cento volte tanto”… (Di Matteo*)
* Alessandro Di Matteo è coordinatore del Ramo Abruzzo de La Quercia Millenaria Onlus

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giovedì 9 maggio 2013

YOUNG EUROPE


Film scritto e diretto da Matteo Vicino, cofinanziato dalla Commissione europea e studiato dalla polizia di Stato, nell'ambito del progetto Icarus.
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youngeuropemovie.com
"L'incidente stradale è la prima causa di morte per i giovani in Italia e in Europa": lo scrive la polizia stradale in una nota che presenta "Young Europe", film scritto e diretto da Matteo Vicino (regista di "Outing. Fidanzati per sbaglio", commedia ora nelle sale italiane), cofinanziato dalla Commissione europea e studiato dalla polizia di Stato, nell'ambito del progetto Icarus, in collaborazione con la Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale e l'Università La Sapienza di Roma



E' la storia di 5 giovani europei narrata dal loro punto di vista, un quadro della società di oggi che, attraverso lo sguardo delle nuove generazioni, tratta il tema della sicurezza stradale. Josephine, ricca parigina lasciata sola dalla sua famiglia; Julian, giovane irlandese irretito da una lettrice di spagnolo; Federico e Annalisa, due adolescenti italiani vittime di un adulto senza morale.
Il film è stato girato in Italia, Francia, Irlanda e Slovenia e, al momento, sta facendo il giro della penisola con proiezioni dedicate a circa cinquantamila studenti delle scuole superiori.
IL FILM COMPLETO

cultura.blogosfere.it


YOUNG EUROPE FILM COMPLETO ITA Full HD










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martedì 7 maggio 2013

LEGGIAMO: “In molti giorni lo ritroverai” / L'anno della lepre







di Tita FERRO
In molti giorni lo ritroverai” è il verso di Qohèlet che Erri De Luca traduce in modo originale e sceglie come titolo del suo ultimo libro: ultimo per me, nel senso che è quello che ho acquistato per ultimo, ma non so se nel tempo trascorso tra la data di pubblicazione, maggio 2008, e questo mio tentativo di presentazione, lo Scrittore, puntuale come pochi nel mandare in libreria le sue <testimonianze di vita> ad intervalli regolari, ne abbia pubblicati altri.
Il Libro è l’intervista che Massimo Orlandi ha fatto ad Erri De Luca nell’incontro con la Fraternità di Romena: all’inizio egli pone, dopo le brevi notizie su Erri, quelle su Romena, ed ancora prima, ad apertura, la storia di quest’incontro più volte richiesto.
Più volte, nel corso degli anni, abbiamo mandato a Erri segnali della nostra voglia di incontrarlo. Troppo timide le richieste, scarsamente convincenti gli ambasciatori o, forse, poco maturi i tempi”.
Intanto però continuava il rapporto con la Fraternità, “lo stupore dell’incontro a distanza generato dalla scrittura”, che Erri, con la sua capacità di creare immagini piene di significato, definiva un “versare vino in un bicchiere lontano”. Vino evidentemente buono se ha sostenuto per anni un’attesa “viva, senza enfasi”.
La nostra non è mai stata ammirazione, dice Massimo, delineando bene la natura di questo rapporto: “quella presuppone uno scalino sul quale Erri non è mai salito né noi lo abbiamo messo. Neppure amicizia” … “In questo rapporto a distanza noi abbiamo semplicemente sentito che l’autenticità di Erri ci parlava, parlava a ciascuno di noi, parlava alla Fraternità e al suo camino. Ascoltarlo ci apriva spazi fertili ed inattesi”.
E ad un certo punto Erri “ha semplicemente risposto di sì … Per la prima volta il bicchiere era vicino”, dice Massimo, riprendendo l’immagine di Erri. “Ciò che lo ha riempito è tutto in queste pagine”, poco più di 80, divise in 16 capitoletti,  introdotti da una frase tratta dai libri dell’Autore: i primi tre sono dedicati all’introduzione e alla presentazione dei due dialoganti, Erri e i componenti della Fraternità, di cui ho parlato prima, i rimanenti all’intervista in cui l’Autore campeggia perché le domande, lo sottolinea Massimo “sono quasi solo un innesco alle sue risposte”.
Tre capitoli sono dedicati alla storia di Erri, le radici napoletane, l’infanzia di ragazzo silenzioso ma osservatore e soprattutto ascoltatore attento ed insaziabile, il rapporto con i libri e l’orizzonte aperto sul mare.
Ero un bambino blindato e mi aiutava nella blindatura il fatto che mio padre era appassionato di libri. … Nella sua stanza di libri dove ho dormito per tutta l’infanzia e l’adolescenza, … mi sono chiuso dentro, dentro l’italiano. Allora a Napoli il napoletano era obbligatorio, tutti lo dovevano parlare. … Il napoletano stava fuori, l’italiano dentro, in casa: stava nei libri … e se ne stava zitto, … molto attraente per me. Sicché sono diventato pratico di quell’italiano e ho amato quella lingua perché era muta”.
E poi il rapporto con il mare, liberante: “Ho avuto la fortuna di passare le estati sull’isola d’Ischia”, l’isola a cui ha dedicato un libro bellissimo, L’isola è una conchiglia, vedendola come un serbatoio di storie, sempre pronto a riversarle di nuovo nell’orecchio di chi sa ascoltare.
Per me quello era il luogo della libertà pura, la più sconfinata, dove l’orizzonte si apriva e si perdeva, dove tutte le direzioni erano possibili, tutte le vie di fuga”.
Nel capitoletto Rivoluzioni, Erri comunica il suo stato d’animo nel distacco da “quella specie di origine forte per la formazione del carattere” con un’immagine incisiva, un “dente che si cava da una mascella  e non riesci più a piantarlo in nessun’altra gengiva”. Parla poi della su esperienza di “militante rivoluzionario”, consapevole di essere finito quasi per caso nella “fiumana” rivoluzionaria, ma anche di aver dato, insieme ai giovani della sinistra, il proprio contributo a quel mondo che cambiava, nel quale era stato dato loro di vivere.
All’esperienza di militante rivoluzionario conclusa nell’autunno del 1980, segue l’esperienza di operaio, raccontata nel capitolo, Mani di operaio, ad introduzione del quale è posta una bellissima frase tratta da Tre Cavalli sul palmo della mano che torna fresco perché “il sarto della notte cuce pelle, rammenda calli, rabbercia gli stappi e sgonfia la fatica”. “L’esercizio della manualità mi ha insegnato ad avere più rispetto della mano”, dice Erri, non “semplice terminale del flusso di pensieri, ma direttore d’orchestra, che dà il tempo ai pensieri”.
Due capitoli raccolgono i ricordi dolorosi di tragedie del nostro tempo: la guerra in Bosnia, che lo Scrittore ha potuto vedere da vicino andando in quella regione come autista di convogli umanitari, e le storie di migranti che egli definisce “una grande epopea”, sognando “che spunti un Omero a raccontarla, perché nei confronti di quest’avventura così grande non basta il racconto, il romanzo, ci vuole un poeta che la scriva sotto forma epica”.
Nel capitolo dedicato alla guerra c’è il commosso ricordo del poeta di Sarajevo, Izet Sarajlic, che  egli considera quasi modello, “perché è rimasto tra la sua gente”, punto di riferimento degli intellettuali alla ricerca di un ruolo e di un compito: “Quando mi chiedono che cosa devono fare gli intellettuali, dico che secondo me non devono fare proprio niente di speciale, tranne che condividere la penitenza della propria gente”.
Di lui ricorda una struggente poesia per la donna della sua giovinezza, scritta dopo la morte di lei: 
Quei due abbracciati
sulla riva del Reno a Gothlieben
potevamo essere anche tu ed io,
ma noi due non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.
Vieni, passeggiamo
almeno in questa poesia
”.
Una parte rilevante è dedicata ai libri, alle storie, ed a quel libro dei libri che è la Bibbia nella cui lettura Erri è impegnato in prima persona: “Mi sveglio tutte le mattine in ebraico antico … e così mi introduco dentro una giornata nuova. Quello per me è il largo. Uscire dallo stretto, dal chiuso, dal buio della notte in cui dormo come un morto …. e poi la mattina avviene la resurrezione con l’ebraico antico”. … “Quando leggo la Scrittura Sacra, lì sono proprio al largo, sono ospite di quegli spazi e di quella lingua che, pur essendo come un’isola, molto circoscritta -l’antico ebraico ha poco più di 5000 vocaboli – eppure contiene tutte le vie del deserto percorribili, tutti gli isolamenti possibili”.
E alla domanda di Massimo come possa  avvenire l’incontro tra Dio e l’uomo, risponde che non c’è che l’ascolto:  “<Ascolta, Israele. Adonai è il tuo Dio> … <Ascolta> vuol dire prima di tutto fermati … siediti  se stai in piedi. Poi stai zitto sennò non puoi sentire niente. …Ascoltare cosa devi fare: <Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze>. Per amare devi dare tutto (sennò non hai dato niente, tutto di cuore e di fiato e di forze).
Non nella sazietà, avviene l’incontro, ma quando sei vuoto, quando hai consumato tutto … nel deserto, in un posto dove non c’è nessuno, … Dio porta a zonzo il suo popolo, ma nello smarrimento lo guida, gli fa perdere l’orientamento, ma perché l’affidamento sia completo: forze, fiato e cuore”.
In Scoperte Erri racconta la storia della sua traduzione del versetto del Qoelet che dà il titolo al Libro: ci dice delle sue ricerche, della insoddisfazione di fronte alla traduzione consueta, della improvvisa scoperta propiziata da un casuale infortunio: “Quel verso così grandioso <Manda il tuo pane sopra i volti delle acque> era seguito da una seconda parte, <perché dopo molti giorni lo ritroverai> … La seconda metà del verso non mi piaceva affatto in confronto a questo grandioso liberarsi dell’indispensabile per offrirlo alla corrente senza neanche sapere a chi:  metti in giro un’offerta e ritorna illesa fra le mani tale e quale?
Ma Erri scopre che in ebraico c’è scritto non <dopo molti giorni lo ritroverai>, ma “in molti giorni lo ritroverai”, cioè “quella singola offerta spontanea, a fondo perduto, senza nemmeno sapere a chi, ti verrà infinitamente restituita, ma in misura senza proporzione rispetto alla tua piccola quantità, in molti giorni. Così ho risolto quella notizia e ho chiuso quel verso di Qohèlet, la cui seconda metà era ancora più bella della prima, … un gesto a fondo completamente perduto che ti verrà infinitamente restituito da tante altre parti.
E questo mi permette anche di immaginare che il rapporto di generosità tra le persone è un rapporto che non funziona tra due. Se io faccio una cosa per te, tu non me la devi restituire, tu la devi fare ad un altro, e magari, già che ci sei, la fai a due, anche a tre se ti è piaciuto. Non la devi restituire a me. Se rimane restituita a me, rimane una cosa chiusa, tra noi, è povera, non si sparge. È come il “dopo molti giorni lo ritroverai.” … Invece, se io ti offro una cena, tu invece di restituirla a me la offri a qualcun altro che ne ha bisogno, e anche a qualcun altro che non ne ha bisogno, e fai questa mossa esterna a noi due, moltiplichi questa mossa. La fai produrre in giro”.
Alla domanda di Massimo che vuole sapere da dove vengono le sue storie, Erri risponde che esse gli vengono dall’osservazione del mondo intorno a lui, dalle cose che vede: “non invento personaggi, non me la sono sentita di aggiungere della vita posticcia a quella che già c’è: approfitto di quella che c’è e la riduco nella polvere, specie di liofilizzato, delle parole”.
Mi era sembrata inaccettabile questa indicazione delle parole come polvere nel rapporto con la realtà, poi mi sono ricordata che polvere traduce Erri la terra con cui è fatto il primo uomo da Dio, polvere ciò che resta alla fine di tutto, e l’espressione mi è sembrata ricca di significato: le parole sono la polvere con cui lo scrittore impasta e dà vita al suo mondo e lo comunica agli altri.
Due capitoli concludono il Libro, uno sul timore di Dio, “il nervo fondamentale della relazione”con Lui, “un supplemento di affidamento, nessuna pretesa di potersela cavare da soli”, di cui Erri trova l’esempio  nel comportamento dei pescatori di Ischia, ricordo della sua infanzia, che andavano a pescare senza nemmeno saper nuotare, affidandosi completamente, senza la presunzione di poter collaborare alla propria salvezza; l’altro sull’amore: “Noi a Napoli ci mettiamo due emme, <Ammore>. Però noi a Napoli siamo generosi nel raddoppio … Napoli è una città molto fisica e sentimentale … Credo che il Dio di Israele sia riuscito a far piazza pulita di tutti gli altri perché è l’unica divinità che si è rivolta a quel sentimento della creatura umana, alla più forte energia pulita prodotta dal corpo e dalla creatura umana, che è l’amore.” …
Dio non chiede di essere cercato con l’intelligenza, la scienza, la cultura, il sapere la filosofia: “proprio non gliene importa niente, non è da quelle parti lì che vuole essere acciuffato, che vuole essere ricambiato.
Se c’è un motivo per cui quel monoteismo si è piantato dentro la nostra civiltà è per via del verbo <Amare>
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ISBN 978-88-7091-040-7



Anno edizione: 1994

Pagine: 208

L'anno della lepre
L'anno della lepre è un libro dello scrittore finlandese Arto Paasilinna del 1975,
 pubblicato in Italia da Iperborea per la prima volta nel 1994.
 Questo romanzo è stato portato sullo schermo nel 1977 da Risto Jarva e nel 2006 
da Marc Rivière. Wikipedia



Perché leggere questo libro?

Perché è la storia di una fuga.

Dalla gabbia delle convenzioni, che vengono messe alla berlina con un taglio umoristico, molto gradevole e senza eccessi.

Perché sullo sfondo di una straordinaria Finlandia, c

'è la fuga dal passato, verso la libertà e la scoperta che la vita può essere reinventata in ogni momento.