L’ultimo Dan Brown? |
I fiorentini descritti nel predestinato bestseller fanno colazione con olive al forno e lampredotto
E’ ben noto come Gesù Cristo, minacciando il castigo per gli empi, fa riferimento a una certa “Geenna”, della quale si sente raramente trattare. E invece, come ogni parola del divino Maestro, essa merita una grande attenzione, perché il tema tocca la questione della salvezza o della dannazione eterna.
Sappiamo che si riferisce all’inferno. Ma perché usa proprio quell’espressione? Che vuol dire? Che significato ha? Non si tratta, come vedremo, di semplice significato di parole, ma di una profonda ed interessante questione teologica.
Questa “Geenna” o “Gehenna”, infatti, termine presente nelle traduzioni italiane del Vangelo, è “trascrizione latina della parola greca che, a sua volta, non è se non la ellenizzazione dell’aramaico ge hinnòm, valle di Hinnom”. Si tratta di una valle a sud-est di Gerusalemme, dove ai tempi di Cristo si bruciavano i rifiuti, oggi diremmo un inceneritoio, come ne vediamo ormai tanti soprattutto nei pressi della grandi città.
Era stato adottato questo luogo perché in tempi precedenti si erano praticati dei sacrifici umani offerti al dio pagano Molok. Contro queste pratiche abbominevoli era insorto il profeta Geremia ed anche Isaia vi fa allusione. Già nella letteratura apocalittica del sec.II a.C. questa valle è presentata come luogo della finale resa dei conti degli idolatri e degli apostati.
La questione precisa che ci poniamo in questo articolo non è quella di trattare in generale dell’inferno, che ci porterebbe troppo lontano, ma vorrei puntare l’attenzione su di un aspetto particolare della dannazione infernale così come vien presentato da Cristo sotto l’immagine dell’immondezzaio o del luogo dei rifiuti.
La domanda che può sorgere è la seguente: Cristo evidentemente in quanto dice rappresenta la volontà di Dio. Allora ci chiediamo: Dio, come causa prima di tutte le cose, è vicinissimo ad ogni sua creatura; Egli infatti è bontà infinita, ama e governa con infinita sapienza tutte le sue creature, naturalmente buone e belle, il che Lo porta a custodirle e a mantenerle in essere, giacchè se esse non ricevessero questo influsso divino e non fossero oggetto delle sue cure, si trattasse anche di spiriti immortali, cadrebbero nel nulla dal quale sono state tratte.
Dunque, come è possibile che esista un “immondezzaio”, un inceneritore – Cristo parla esplicitamente di bruciare col fuoco come si fa con le erbacce – agli occhi di Dio? Noi sì, produciamo escrementi e rifiuti che ci fanno schifo, e cerchiamo di sbarazzarcene e di distruggerli con disprezzo, per non pensarci più, come non fossero mai esistiti.
Chi conserva cose vecchie, guaste e inutilizzabili, lo giudichiamo di poco buon senso. Infatti normalmente quando qualcosa non ci serve più, lo gettiamo via senza rimpianti, non ne teniamo nessun conto e non c’interessa più vederlo od occuparci di esso. Al limite può essere qualcosa che odiamo, perché ci ha fatto soffrire o ci ha recato del danno.
A volte ci comportiamo così non solo con le cose, ma anche con certe persone: interrompiamo i rapporti e non pensiamo più a tali persone, anzi le disprezziamo. Ma questa certo non è carità fraterna. Ma questo succede a Dio? Anche Dio si comporta così? Anche per lui ci sono cose o persone che gli fanno schifo?
Ci chiediamo più precisamente: può Dio avere simili sentimenti e condotta nei confronti di qualche creatura, per quanto odiosa, malvagia e ribelle? Ci può essere qualcosa che Egli odia e non intende più vedere e di cui non intende più occuparsi? Qualcosa di talmente spregevole da rifiutarne l’esistenza? Qualcosa o qualcuno circa i quali ritiene che è meglio che non esista piuttosto che esistere? Dio sopprime o annulla qualcosa o qualcuno?
No assolutamente, come risulta con certezza dal già detto; diversamente concepiremmo Dio non come Dio ma come una creatura come noi, che non ha il compito di mantenere in essere l’universo. Noi creature fragili ed esposte ai pericoli dobbiamo evitare o respingere ciò che ci può recar danno; ma Dio da chi può ricever danno, Egli che è onnipotente, immortale, inviolabile ed impassibile? Anche quando si parla del peccato come “offesa” a Dio, questo è solo un modo di dire per significare che l’offesa in realtà la arrechiamo a noi stessi. Dio non ha bisogno di ripararsi o di difendersi da nessuno, Egli che è il difensore di tutti i deboli e il vindice di tutti gli oppressi. Dio annulla il peccato ma non il peccatore.
C’è un’altra considerazione da fare. E’ profondo nel nostro animo, soprattutto se vogliamo essere buoni, il bisogno e il desiderio di un universo e di un’umanità uniti, armoniosi e concordi, totalmente governati da un Dio bontà infinita, il bisogno che, a cominciare dalla stessa realtà, non ci siano contraddizioni insanabili, dualismi o separazioni non unificabili, contrasti irresolubili, peccati inespiabili, ingiustizie irreparabili, conflitti inconciliabili.
Ci accorgiamo, certo, dell’opposizione tra bene e male, e non vogliamo confonderli tra loro, ma il nostro desiderio sarebbe di poter esser parte di una grande famiglia cosmica, dove ogni cosa, sotto il governo divino, avesse il suo posto in un ordine complessivo del tutto e delle parti, dove tutti, per quanto diversi tra di loro, andassero d’accordo, si volessero bene e vivessero nella pace, in collaborazione reciproca e in una profonda comunione con la natura e con ogni essere, e vorremmo sperare che almeno un giorno si dia una vittoria totale del bene e dappertutto il male scompaia completamente dovunque senza lasciar traccia.
D’altra parte agli occhi di uno spirito onesto, è impossibile un compromesso tra il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, la bontà e la malvagità. “Che c’è di comune, si domanda S.Paolo, tra Cristo e Beliar”? Per questo bene e male sono destinati a restare eternamente separati, l’uno contro l’altro, almeno come possibilità, salvo che non scompaia di fatto ogni male, ogni ingiustizia, ogni peccato.
Ora, nella visione cristiana non ogni malvagio, tra gli uomini, si converte; quanto ai demòni, essi restano irremovibili nella loro malvagità e ribellione a Dio per tutta l’eternità. Con la Parusia finale di Cristo alla fine del mondo, cessa l’aumento dei peccati commessi tra gli uomini, ma resta in eterno opposizione dei demòni e dei dannati contro Dio.
Certo. Col Ritorno di Cristo, sarà inaugurato in pienezza il Regno di Dio che inizia quaggiù con la Chiesa, un’umanità felice, concorde e libera da ogni male, Ma nel contempo sussisterà per sempre in altro “luogo”quella città di Satana che inizia quaggiù con l’attività degli empi e dei ribelli alla legge divina.
Accanto a Gerusalemme resterà la geenna. Ma che senso ha tutto ciò? “Accanto” come? E dove? Così come alla periferia di Bologna si trova una collinetta che nasconde i rifiuti e che sempre ognuno può vedere dal treno quando giunge alla città da sud?
E che dire dei demòni? Quanto a loro, dopo la Parusia essi continueranno nell’inferno ad odiare Dio e gli uomini, anche se non potranno più far danno ai giusti che sono ormai tutti al sicuro in paradiso, nella Gerusalemme celeste, dove i demòni non possono giungere.
Tuttavia, essendo i demòni già puniti sin dalle origini del mondo, non pare che durante il corso della storia presente e nella storia conseguente alla Parusia potranno aumentare le colpe, così come non possono farlo gli uomini dannati dell’inferno, in quanto sia gli uni che gli altri hanno ormai ricevuto il castigo definitivo per le loro colpe.
Infatti, come gli uomini non possono più meritare in bene o in male nell’al di là, pare che lo stesso valga per gli angeli e per i demòni, benchè i primi continuino a fare il bene, mentre i secondi continuino a fare il male.
Quindi nella visione cristiana, benchè Cristo abbia offerto a tutti gli uomini la riconciliazione tra di loro e con Dio, non vi sarà alla Parusia, come pensava Origene, una pacificazione di tutti gli uomini e di tutti gli angeli tra di loro e con Dio, né pertanto i demòni saranno perdonati. Infatti questa teoria è stata condannata dalla Chiesa.
Tale teoria riflette quel bisogno di unità o unione di tutto con tutto, che è sempre esistito nei filosofi occidentali e soprattutto orientali sin dall’antichità fino ai nostri giorni, e che si è espressa nelle varie forme del monismo panteista, i cui albori si trovano in occidente in Parmenide ed in India con la vasta letteratura del Vedanta ed ha significativi esponenti in occidente negli stoici, in Scoto Eriugena, Bruno, Spinoza, Hegel e ai nostri giorni in Severino, mentre in India abbiamo tra i principali Shamkara e Madhva, sino ai moderni come Aurobindo e Ramakrishna.
Significativo è il fatto che in India esistano istituzionalmente le due grandi correnti tradizionali antichissime della sapienza dvaìta, che sostiene la dualità di Dio buono e mondo cattivo, mentre la advaìta opta per il monismo ciclico panteista, nel quale bene e male si succedono eternamente secondo la ruota della “svastica”, simbolo che poi fu ripreso dai nazisti. Questo alternarsi e conciliarsi eterni – perché divini – di vita e morte si trova anche nella massoneria esoterica.
Un traccia di questo orribile e blasfemo accoppiamento si trova in una certa cristologia contemporanea del Cristo cosiddetto “Crocifisso Risorto”, dove la risurrezione non è successiva ma simultanea alla morte e inseparabile dalla morte. Quindi in questa cristologia non valgono le parole di S.Paolo secondo le quali “Cristo non muore più”: no, Cristo è sempre morto come è sempre risorto. Tale cristologia ciclica, di impostazione prettamente pagana (vedi il mito di Dioniso), ha come sottofondo la sofferenza non come mezzo di salvezza (il che è giusto), ma come attributo divino.
Tra occidente ed oriente abbiamo poi la famosa sapienza persiana, quasi compromesso tra le altre due, con la sua massima espressione del manicheismo, il quale prende dall’occidente la distinzione tra bene e male e dall’oriente il monismo panteista Bene-Male, però, pur sostenendo l’esistenza delle divinità opposte del Bene e del Male, prevede che alla fine della storia il Bene vincerà il Male, per cui si avvicina più all’occidente che all’oriente.
Riprendendo il nostro tema, dobbiamo dire dunque che l’inferno è un deposito dei rifiuti? Così sembra, come abbiamo visto, almeno dalla metafora usata da Cristo: la geenna. Come dobbiamo considerare questo immondezzaio? E’ un ammasso confuso, caotico e disordinato di repellenti e puzzolenti rifiuti gettati a casaccio?
Rispondo con franchezza pur sapendo di sorprendere qualche anima pia: no, non è tutto questo, perché abbiamo visto che anche l’inferno fa parte dell’universo creato da Dio e Dio nella sua provvidenza si prende cura di tutte le sue creature, disponendo tutto “in numero, pondere et mensura”, come dice la Bibbia, seppure o con la misericordia o con la giustizia.
Certo la pena è severa ed eterna, ma giusta e la giustizia è sempre bellezza, cura, ordine, bontà. Così similmente nella tecnica moderna i rifiuti vengono riciclati, per cui possiamo immaginare un utile impiego degli abitanti dell’inferno. Anch’essi danno il loro contributo all’armonia e alla bellezza del mondo, per quanto ciò a tutta prima possa apparire paradossale e forse ingiusto. Ma non bisogna confondere la giustizia con la crudele vendetta. Questa lasciamola agli odiatori e ai mafiosi. Ma Dio è Amore, sempre e comunque.
Inoltre, se l’uomo sa ricavare concime dagli escrementi o nuove sostanze plastiche dal petrolio o da quelle gettate tra i rifiuti, forse che Dioi nella sua sapienza non è più bravo dell’uomo e non sa ricavare dal male un maggior bene o l’utile dall’inutile, non sa ottenere dall’attività di un dannato un vantaggio per l’umanità, magari contro la voglia dello stesso dannato?
Così similmente in un carcere moderno i detenuti, benchè costretti ma poi non del tutto, sono occupati in servizi utili alla comunità. Per concepire dei lavori forzati non c’è bisogno di arrivare agli orrori di Auschwitz o di Büchenwald, ma possono esistere anche forme dignitose di questo tipo di lavori, benchè in un regime di punizione. Dio non è un aguzzino ma resta Padre anche per i dannati.
Lo so che questa è una visione nuova dell’inferno: ma perché non la si potrebbe ricavare dalla moderna concezione della divina misericordia, la quale non esclude certo la giustizia – l’inferno resta l’inferno – ma la mitiga con l’amore e la bontà?
Bonum diffusivum sui: il bene diffonde se stesso anche nel mondo del male, recita con sano ottimismo un detto neoplatonico citato da S.Tommaso. Il bene supera e vince il male non solo annientandolo ma anche trasfigurandolo per fini buoni superiori. Il male non è necessario all’esistenza del bene – qui sta il difetto della dialettica hegeliana. Ma una volta posto il male, il bene sa vincerlo e metterlo al suo servizio anche senza annullarlo, dandogli un senso e facendolo servire a un bene maggiore. Così il male diventa accettabile e riceve una spiegazione.
Non si tratta quindi di minimizzare la portata del male con vani artifici dialettici, come quello di Spinoza, per il quale il male è ciò che appare tale al singolo, ma ponendosi dal punto di vista universale, sub specie aeternitatis, si scopre che il male non esiste; oppure quello di Hegel, per il quale il male è il necessario polo logico-dialettico del bene o come crede Teilhard de Chardin, che ritiene che il male sia un inevitabile incidente di percorso nella catena di montaggio o nella produzione evolutiva del bene verso le “felici sorti e progressive”.
Al contrario, la questione del male è molto seria. Esso, a seconda delle possibilità, va riconosciuto ben distino dal bene, va combattuto, attenuato, sopportato, tolto, perdonato, castigato, espiato. Ma anche ciò che è rifiutato, ciò che è respinto e gettato nell’immondizia ha un senso, ha un valore. Nel piano della Provvidenza nulla va sprecato, nulla viene sciupato: “raccogliete i pezzi avanzati”, dice il Cristo dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani.
C’è sempre qualcuno o qualcosa a beneficio dei quali va ciò che ci pare inutile, repellente, sporco o immondo, da buttare, ma tutto viene recuperato e riscattato, come diceva il grande Lavoisier nell’ordine fisico: “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Lo scarabeo stercorario è ghiotto di piccole palline di sterco. Anche i ragni, i topi, gli scarafaggi, i virus e i serpenti velenosi, anche le ossa dei morti e gli escrementi hanno il loro scopo e la loro bellezza.
Il bene, dal canto suo, produce il bene in abbondanza, tanto che pare che sia sprecato. Pensiamo al seme di evangelica memoria che cade sulla strada o il seme umano che, prodotto in sovrabbondanza, defluisce nel piacere anche nel sonno. Si parla erroneamente di “polluzione”: in realtà è la generosità della natura e della vita.
Pensiamo all’enorme quantità di spermatozoi che affluiscono all’ovulo in una gara eccitatissima per chi arriva primo, perché uno solo penetrerà nell’ovulo. Questo non è sciupìo, questa è una grande avventura. Anche gli spermatozoi cha hanno fallito restano sotto la sguardo di Dio.
Nulla va perduto, ma tutto viene rivalorizzato e rimpiegato per altri scopi. Nulla agisce senza un fine: questo è un principio metafisico che Dio stesso ha posto nel cuore di ogni ente, si tratti del beato o si tratti del dannato. La perdizione eterna certo esiste: è l’inferno, ma ricordiamoci che l’ha creato Dio, sia pure per punire i malvagi e coloro che lo odiano, ma Dio non odia nessuno.
L’uomo spreca, sciupa, distrugge, disprezza, rovina. Dio non manda nulla in rovina, ma tutto conserva, ordina e custodisce, anche io suoi nemici, anche coloro che Lo odiano: “fa piovere sui buoni e sui cattivi”. L’inferno stesso entra nell’ordine e nel piano della divina provvidenza. Bisogna saper capire il senso di questo piano, come ben lo comprese Dante, quando all’ingresso del l’inferno il divino Poeta trova questa scritta “Etterno Amor mi fece”.
Cavalcoli
Un manifesto per la cultura della morte
Massimo Introvigne "Inferno" di Dan Brown, "un manifesto anti-cattolico per la 'cultura della morte'" |
Per il sociologo, direttore del CESNUR, il libro sembra strizzare l'occhio ad aborto, sterilizzazione forzata ed eutanasia
«Il Vaticano mi odia», afferma a un certo punto di «Inferno», il nuovo romanzo di Dan Brown, la dottoressa Elizabeth Sinskey, direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e santa laica del racconto. «Anche lei? Pensavo di essere l’unico», risponde Robert Langdon, il professore di simbologia di Harvard già protagonista dei precedenti romanzi «Angeli e demoni», «Il Codice da Vinci» e «Il simbolo perduto», che svolge sempre la funzione di portavoce delle idee di Dan Brown.
L’avversione per «il Vaticano», cioè per la Chiesa Cattolica, è il filo rosso che tiene uniti i romanzi di Dan Brown. In «Angeli e demoni» – scritto prima de «Il Codice da Vinci», anche se tradotto dopo in italiano – scopriamo che la Chiesa è da secoli nemica della scienza. Ne «Il Codice da Vinci» Brown cerca di distruggere le fondamenta stessa del cristianesimo, rivelandoci che Gesù era sposato con Maria Maddalena, non pensava di essere Dio e non intendeva fondare la Chiesa. Ne «Il simbolo perduto» il romanziere americano aggiunge che la tradizionale rivale della Chiesa, la massoneria, è un’organizzazione molto più simpatica, illuminata e amica del progresso. Stavolta… e qui devo chiedere al lettore interessato a farsi sorprendere dai colpi di scena di Brown di smettere la lettura di questo articolo, perché – pur senza scendere in troppi particolari – per illustrare l’ideologia che presiede a «Inferno» è necessario dire qualcosa della trama.
Stavolta Langdon – che all’inizio del romanzo ha perso la memoria e si trova in un letto d’ospedale a Firenze – è impegnato in una corsa contro il tempo per evitare una pandemia, un’epidemia planetaria scatenata – prima di suicidarsi – dallo scienziato svizzero Bertrand Zobrist. Lo scienziato, un famoso biochimico, fa parte di un’ala estrema del Transumanesimo, un movimento realmente esistente, alle cui origini c’è il biologo Julian Huxley (1887-1975), che propugna la trasformazione della natura umana in una realtà di livello fisicamente e intellettualmente superiore attraverso l’uso senza limitazioni dell’ingegneria genetica. Nel romanzo, Zobrist si convince che gli scopi del Transumanesimo non potranno essere raggiunti, perché richiedono tempi lunghi e nel frattempo l’umanità sarà annientata dalla crescita demografica. Come spiega un’altra scienziata a Langdon, «la fine della nostra specie è alle porte, Non sarà causata dal fuoco né dallo zolfo, dall’apocalisse o da una guerra nucleare… Il collasso globale sarà provocato dal numero di abitanti del pianeta. La matematica non è un’opinione».
Zobrist ha dunque pensato a una soluzione drastica. Ha nascosto nell’acqua in un luogo molto frequentato una sacca idrosolubile, che entro pochi giorni da quando Langdon entra in scena si aprirà e libererà un virus in grado di diffondersi rapidamente nel mondo intero, risolvendo drasticamente il problema della sovrappopolazione. Aiutato dall’inevitabile bella signora, – ce n’è una diversa in ogni romanzo – di cui finirà per innamorarsi, Langdon si mette dunque alla ricerca della sacca letale. Decifra indizi lasciati dallo stesso Zobrist, fanatico cultore dell’«Inferno» di Dante Alighieri (1265-1321), che alludono alla «Divina Commedia», al pittore e storico dell’arte rinascimentale Giorgio Vasari (1511-1574) e all’astuto e controverso doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205), che lo portano da Firenze a Venezia e da Venezia a Istanbul. Perché Zobrist – se veramente voleva che la sacca non fosse scoperta – abbia lasciato degli indizi che un esperto di simboli può decifrare abbastanza facilmente non è veramente spiegato.
Ma l’appassionato di Dan Brown trova comunque quello che cerca: inseguimenti mozzafiato quasi in ogni capitolo, perché con Langdon corrono per trovare la sacca – senza che si capisca subito chi lavora per chi, chi finge, chi fa il doppio gioco – gli agenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità guidati dalla dottoressa Sinskey, quelli del «Consortium», una società privata di «contractor» – Brown afferma che esiste davvero, gli ha solo cambiato nome – disposta a fare qualunque cosa per il migliore offerente, e i Transumanisti discepoli di Zobrist i quali intendono assicurarsi, dopo il suicidio del loro maestro, che il suo piano giunga comunque a compimento.
Non senza un ulteriore ammonimento a saltare almeno questo paragrafo rivolto a chi vuole leggere il romanzo e lasciarsi sorprendere dal finale – che però è essenziale per capire gli aspetti ideologici – menzionerò soltanto che Langdon, per una volta, fallisce. Quando arriva al luogo dov’è nascosta la sacca, questa si è già aperta, e il virus ha ormai rapidamente contagiato quasi tutti gli abitanti della Terra. Ma non si tratta di un virus che uccide. Rende sterili, ma in alcuni casi l’organismo riesce a difendersi così che questa sterilizzazione forzata, inconsapevole e trasmissibile alle generazioni future colpisce solo un terzo degli abitanti della Terra. E alla fine Langdon, la sua bella e la stessa dottoressa Sinskey si rendono conto che Zobrist usava sì metodi discutibili e perfino criminali ma i suoi scopi erano giusti: conviene non cercare nessun antidoto e lasciare le cose come stanno. Forse lo avrebbe voluto lo stesso Dante, il cui messaggio «non riguardava tanto i tormenti dell’inferno quanto la forza dello spirito umano nell’affrontare qualsiasi sfida, anche la più terribile». Questa «laicizzazione» di Dante, che ignora il profondo cattolicesimo del poeta, ha una lunga tradizione nel mondo esoterico, ma è del tutto infondata.
Nell’epilogo del romanzo Langdon medita sul fatto che il «peccato» esiste, ma non è quello di cui parla la Chiesa Cattolica. È la «negazione» (denial), una «pandemia globale» che fa sì che cerchiamo di non pensare alla bomba a orologeria della sovrappopolazione mondiale che ticchetta e che distruggerà certamente l’umanità, distraendoci e rivolgendo la nostra attenzione ad altri problemi, tutti in realtà meno urgenti.
La Chiesa Cattolica è la principale responsabile di questo «peccato» universale. Si oppone alla sterilizzazione di massa – di cui il virus del romanzo è un’ovvia metafora – e alla «diffusione capillare degli anticoncezionali», specie in Africa. La dottoressa Sinskey spiega che il Papa e i vescovi «hanno speso un’enorme quantità di soldi e di energie per indottrinare i paesi del Terzo mondo e indurli a credere che la contraccezione sia un male». «Chi meglio di un gruppetto di ottuagenari celibi può spiegare al mondo come si fa sesso?» risponde con il consueto livore anti-cattolico Langdon. E, in uno scambio con Zobrist, la Sinskey si vanta del fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha «speso milioni di dollari per inviare medici in Africa a distribuire profilattici gratis». Non serve, risponde Zobrist: «dopo di voi un esercito ancora più numeroso di cattolici si è precipitato ad ammonire gli africani che se avessero usato i profilattici sarebbero finiti all’inferno». Per fortuna, ci hanno pensato Bill Gates, il padrone della Microsoft, e sua moglie Melinda – che per avere «coraggiosamente sfidato l’ira della Chiesa» meriterebbero di «essere santificati» – a donare «cinquecentosessanta milioni di dollari per favorire l’accesso al controllo delle nascite in tutto il mondo». Ma anche questo sforzo è arrivato troppo tardi.
Chiudendo il romanzo, si rimane perplessi. Brown non può non sapere che quello dell’esplosione demografica è un mito, un «cavallo morto» – per usare un’espressione americana – distrutto da innumerevoli studi statistici che mostrano come gran parte del mondo soffra precisamente del contrario della sovrappopolazione. L’Europa e la Russia hanno troppe poche nascite, non troppe, e i giovani sono già diventati troppo pochi per mantenere livelli adeguati di produzione, di consumo e di contribuzione pensionistica a favore di chi ha cessato di lavorare.
La Banca Mondiale prevede che la Cina avrà a breve lo stesso problema. L’Africa stessa potrebbe mantenere una popolazione ben superiore a quella attuale, con una migliore e più razionale distribuzione delle risorse. In un momento in cui da tanti grandi economisti a Putin tutti paventano semmai il «suicidio demografico» evocato dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005) sembra paradossale che Brown si presenti a frustare il cavallo morto della sovrappopolazione, riprendendo un vecchio mito che sembrava perfino sprofondato nel ridicolo. Chi prende sul serio oggi il Club di Roma che nel 1970 prevedeva intorno al 2000 guerre mondiali per il controllo di risorse agricole che sarebbero dovute venire a mancare a causa dell’aumento della popolazione?
Ma Brown non è solo. Per rimanere a casa nostra Marco Pannella, Dario Fo, Eugenio Scalfari – per non parlare di Gianroberto Casaleggio, il vero capo del movimento di Beppe Grillo, che considera anche lui necessario ridurre da sette miliardi a un miliardo gli attuali abitanti della Terra per assicurare loro un luminoso futuro a cinque stelle – hanno cercato di rilanciare negli ultimi anni, in un coro unanime e sospetto, i vecchi miti della sovrappopolazione. Nostalgie della loro giovinezza? No, c’è una ragione precisa per questo ritorno a miti screditati. Si tratta di fare propaganda per la sterilizzazione forzata, l’aborto, l’eutanasia e anche per l’ultimo abominio, l’infanticidio dei bambini già nati – e sfuggiti all’aborto – di cui si paventano malattie gravi, mascherato sotto il nome ipocrita di «aborto post-natale» e per cui si è già cominciato a battere la grancassa.
Il virus del dottor Zobrist – purtroppo, direbbe Brown – non esiste, è solo un’invenzione da romanzo e non è possibile immetterlo nell’aria per sottoporre a sterilizzazione forzata, senza che possa in alcun modo opporsi, un terzo della popolazione mondiale e i suoi discendenti. Ma siccome la «negazione» e il non voler pensare all’inevitabile e relativamente imminente – cento anni al massimo – fine dell’umanità dovuta alla sovrappopolazione è l’unico vero «peccato», è chiaro che si deve fare qualcosa. Subito: e non manca, come in tutti i romanzi di Dan Brown, la solita avvertenza in prima pagina secondo cui tutti i riferimenti scientifici «si basano su dati reali». Così, il libro si risolve in un manifesto per quella che il beato Giovanni Paolo, Benedetto XVI hanno chiamato la cultura della morte: la cultura dei «disegni di morte» evocata da Papa Francesco nella Messa d’inaugurazione del suo pontificato. Se un virus che rende molti sterili non è disponibile, non resta che lottare contro le nascite con altri mezzi. E favorire le morti: Langdon ricorda che «negli Stati Uniti circa il sessanta per cento delle spese sanitarie serve a curare i pazienti durante gli ultimi sei mesi di vita». «Il nostro cervello capisce che è una pazzia», gli risponde la sua compagna.
Ciao Giuliano, ecco l'ennesimo libro "cattivo". Dici bene.
RispondiEliminaNon ci resta che pregare che libri come questo facciano il meno male possibile, e avvisare i lettori ignari del pericolo con articoli come il tuo.
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