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mercoledì 28 gennaio 2015

Thomas Merton:Gandhi e i ciclopi & un viaggio alla ricerca dell'uomo

Thomas Merton, Gandhi e i ciclopi

thomas-merton
Ci ha insegnato e riconoscere i ciclopi, i barbari, e oggi abbiamo ancora bisogno della sua parola che scava in profondità, del suo sguardo visionario.
Il 31 gennaio 1915, a Prades (Francia), nacque Thomas Merton, approdato alla fede cattolica e alla vocazione monastica dopo una giovinezza cosmopolita, ricca di esperienze, ma anche travagliata.

Un esploratore del cuore dell’uomo

È stato una delle maggiori personalità spirituali del XX secolo e ha vissuto il passaggio da una fede estranea al mondo moderno a un cristianesimo che abita dentro la storia in comunione con l’umanità e i suoi fermenti, a partire dalla contemplazione e dall’esperienza eremitica. Merton era il solitario e marginale che guardava dentro il cuore dell’uomo e della società planetaria. Scrittore e poeta, con la sua vasta opera – la quale, di fatto, è una monumentale autobiografia spirituale – ha ispirato milioni di persone facendosi pioniere e viandante lungo le strade di regni sconosciuti: la pace, l’ecumenismo, l’incontro tra le religioni, ma soprattutto la ricerca di una spiritualità pienamente umana, al di là dell’irrigidimento di forme e devozioni religiose in cui la consuetudine rischia di prevalere sull’autenticità della relazione con Dio e con gli altri.
Nell’occasione di questo centenario, vale la pena di soffermarsi su uno degli aspetti più rilevanti, e a suo tempo controversi, della ricca elaborazione mertoniana, quella riguardante la pace e la nonviolenza. I recenti fatti di Parigi e l’emergenza del fondamentalismo la rendono particolarmente attuale. Non tanto in vista dello sterile esercizio consistente nel chiedersi: «Che cosa direbbe Thomas Merton, oggi?», quanto nella prospettiva di mettere in risalto i punti focali delle convinzioni da lui maturate che sta a noi mettere in correlazione con le vicende del nostro tempo.

Oggetto di ostracismo

Occupandosi di queste tematiche, Merton ha conosciuto ostracismi da parte di quei confratelli secondo i quali un monaco non avrebbe dovuto occuparsi di politica e da parte di quei cattolici che identificano la propria fede con l’appartenenza con il sistema politico-economico occidentale. «Una cosa è confidare in Dio perché si dipende da lui, un’altra è presumere che egli benedica le nostre bombe perché i russi sono atei e perché non è possibile che egli approvi il comunismo» (Diario di un testimone colpevole, p. 275).
Merton contestava l’alienazione in una sfera religiosa e sacra, distinta da quella profana, e i condizionamenti ideologici della cultura occidentale di cui la religione diventa proiezione e giustificazione. La preghiera, il silenzio, i sacramenti educano lo sguardo dei cristiani – rispetto ai quali il monaco si pone come “sentinella” e avanguardia – nel discernimento sulla storia e le sue urgenze. È un “esercizio di cristianesimo” che richiede tempi lunghi e non la fretta delle risposte di chi abbraccia un punto di vista e un interesse particolari, invece di essere aperto all’umano.
Un riferimento importante è il saggio «Gandhi e il ciclope», pubblicato nel 1964 come introduzione a una raccolta di aforismi del Mahatma, uno dei maestri di Merton. Le caratteristiche distintive della nonviolenza gandhiana sintetizzate in questo scritto rispecchiano la disposizione interiore del monaco-scrittore. Parlando di Gandhi, Merton raccontava le proprie convinzioni profonde.

Nella carità l’incontro Oriente e Occidente

I ciclopi sono gli uomini dell’Occidente che hanno la scienza senza saggezza, senz’anima, dominando la materia e gli altri esseri umani senza comprenderli. E, quindi, senza amarli. Da questo squilibrio nascono oppressione, ingiustizia, morte. Nell’incontro con il cristianesimo, Gandhi apprese la priorità della saggezza e dell’amore, dai quali ricavò la nonviolenza come realizzazione pratica del satyagraha, il restare aggrappati alla verità. «Gandhi così non abbracciò la religione cristiana, ma non la rifiutò; prese dal pensiero cristiano tutto quello che sembrava lo riguardasse in quanto indù».
Ci sono dei valori essenziali – etici, religiosi, ascetici, spirituali e filosofici – che sono universali e condivisi tra Oriente e Occidente e che, dal punto di vista cristiano, trovano il loro compimento nella carità. «Una carità che escluda quei valori non può aspirare al titolo di amore cristiano».
È in nome di quella carità, di cui si trovano le tracce in tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, che Merton ha cercato l’incontro con i loro esponenti. È in nome di quella stessa carità che impegnava la sua parola per diritti civili, per la pace in Vietnam, per il disarmo atomico anche contro la cultura e agli umori predominanti. Mettere in discussione l’arsenale nucleare voleva dire allora contestare la politica di supremazia mondiale degli USA e la logica della guerra fredda e dell’economia capitalista.

La spiritualità è politica

Per lui, però, la priorità spettava a un principio spirituale come già Gandhi aveva intuito, l’unità interiore che ricompone le divisioni da cui deriva la vera libertà e l’impegno politico. «A differenza di quanto si è creduto in Occidente nei secoli recenti, la vita spirituale e interiore non è una faccenda esclusivamente privata. (…) La vita spirituale di un individuo è semplicemente il manifestarsi nel singolo della vita di tutti».
La spiritualità è politica, perché tende alla verità e al bene dell’umano, trascendendo il particolarismo dell’utile e delle ideologie. Ecco, allora, che per Gandhi (e Merton con lui) la sfera pubblica non è secolare, ma sacra e il primo modo di realizzare la verità dell’uomo e l’unità umana nella sua radice spirituale è eliminare la violenza che le contraddice. La nonviolenza, in questo senso, appartiene alla natura stessa della vita politica, mentre la violenza è il segno di una politica disumanizzata.
Da questi presupposti nasce una sottile critica della società moderna, retta sull’uso della forza, in maniera palese nelle tirannie e meno evidente nelle democrazie, a partire dalla convinzione della necessità della violenza e dell’irreversibilità del male.

L’intreccio dinamico delle relazioni umane

«Il “tessuto” della società non è mai finito. È sempre “in fieri”, sul telaio, ed è un intreccio di rapporti in costante mutazione. La nonviolenza tiene conto precisamente di questa natura dinamica e non definitiva dei rapporti umani, perché cerca di trasformare i cattivi rapporti in buoni rapporti, o almeno in rapporti meno cattivi. Perciò la nonviolenza implica un tipo di coraggio diversissimo dal coraggio della violenza. Nell’usare la forza, tendiamo a semplificare la situazione immaginando che il male da vincere sia ben delineato, definito e irreversibile. Quindi non resta da fare altro che eliminarlo».
Anche la democrazia può seguire una logica violenza, identificando i propri mali con una porzione di umanità e combattendola, innescando così una spirale in cui l’aggressione genera altra aggressione, invece di trovare una soluzione comune. Ma quest’ultimo passo richiede consapevolezza, conversione, ritorno alla nostra verità umana e spirituale. Occorre ritrovare se stessi ed essere capaci di comprensione e perdono verso l’altro.

Una lettura profetica

I ciclopi hanno perso questa capacità, vedono solo con l’occhio che concepisce tutto nei termini di un controllo da esercitare e hanno portato nel mondo questo sguardo: «tutto ciò è diventato assai evidente nella triste situazione delle nuove nazioni dell’Asia e dell’Africa, improvvisamente libere dalla tutela coloniale! Avendo accettato la “cultura” dell’uomo bianco nella loro condizione di vassalli, e avendo conservato questo vassallaggio intellettuale e spirituale anche dopo la liberazione, le nuove nazioni sono entrate in una spirale di frustrazione, incoerenza, risentimento e violenza, perché hanno ereditato la colpa delle potenze coloniali sotto forma di odio di sé, di incapacità a capire se stessi e di paura e diffidenza illimitate verso tutti gli altri. Questa non è la libertà e nemmeno la civiltà. È la barbarie dell’uomo post-storico! Una barbarie che può essere evitata solo ricorrendo ai principi e alle politiche di uomini come Gandhi o Giovanni XXIII».
Qui, Merton ha in mente la Pacem in terris, alla quale ha dato un contributo, per come mette in chiaro che la pace non può essere costruita sull’esclusivismo, l’assolutismo e l’intolleranza. La lettura di Merton è addirittura profetica, per come ha saputo cogliere già mezzo secolo fa il germe dell’odierna minaccia del terrorismo fondamentalista, ma anche la debolezza della visione dello scontro di civiltà. Seguire questa strada porterebbe solo a perpetuare e diffondere ciò che si crede di combattere, come ha fatto l’interventismo bellico del primo decennio di questo secolo e di cui ora scontiamo le conseguenze.
Uomini come Thomas Merton sono fuori dagli schemi in cui ci incagliamo, sono i rari uomini che hanno trovato e riaperto l’occhio che i ciclopi hanno perso
Articolo pubblicato come Editoriale
 sul sito dei Viandanti  Christian Albini 


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 MARCO RONCALLI, Avvenire, 28 gennaio 2015

Thomas Merton: 
viaggio alla ricerca dell'uomo

​«L’ultimo giorno di gennaio del 1915, sotto il segno dell’Acquario, in un anno di una grande guerra, al confine con la Spagna, all’ombra di monti francesi, io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi libero per natura, fui tuttavia schiavo della violenza e dell’egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il quadro dell’inferno, pieno di uomini come me, i quali amavano Dio eppure lo odiavano, e, nati per amarlo, vivevano nel timore e nella disperazione di contrastanti appetiti». Così Thomas Merton all’inizio del suo lavoro forse più noto La montagna dalle sette balze, del ’48 (portata in Italia da Garzanti, editore di molte sue opere), ricordando il giorno della sua nascita, a Prades, da Owen, neozelandese, e da Ruth Jenkins, statunitense, pittori globe-trotter.
Un anniversario da rimarcare per più di una ragione che ha riempito una vita di soli cinquantatré anni, ma intensa e originale come la sua spiritualità. Scrittore che richiama un po’ il visionario William Blake, Merton è stato protagonista di un coraggioso impegno per la pace (fonte di diatribe con i superiori, poi valorizzato da Giovanni XXIII e da Paolo VI con i quali ebbe scambi epistolari), nonché un punto di riferimento per il movimento non-violento per i diritti civili, analista di una «pace sulla terra» fondata su ragioni evangeliche e affidata alla testimonianza («una parte essenziale della buona novella è che le misure nonviolente sono più forti delle armi: con armi spirituali, la Chiesa primitiva ha conquistato l’intero mondo romano») che resta in tutta la sua attualità come mostra il suo saggio La pace nell’era postcristiana (Qiqajon).
Ancor prima però, Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione.
Merton, inoltre, va ricordato come uomo dell’ecumenismo e del dialogo, rispettoso delle differenze e concentrato sull’essenziale. Nel dialogo interreligioso, più esplorativo che funzionale, fu pronto ad aprirsi a induisti, buddisti, ebrei, islamici, a cercare le fonti vitali delle altre religioni («Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo»), e con una spiccata attenzione alle espressioni orientali: si vedano le sue riflessioni raccolte da William H. Shannon (L’esperienza interiore, San Paolo) o la sua raccolta che reinterpreta uno dei Padri del Taoismo (La via semplice di Chuang Tzu, che le edizioni Paoline ripresentano ora in una nuova edizione).
Ancora, il dialogo con i non credenti, declinato nella capacità di vedere segni di «fede inconscia» negli atei o di «ateismo inconscio» nei credenti («Il grande problema è la salvezza di coloro i quali, essendo buoni, pensano di non aver più bisogno di essere salvati e immaginano che loro compito sia rendere gli altri buoni come loro»). Una vita contemplativa, la sua, mai isolata dalla realtà. E una vita consacrata concepita come porta aperta all’amore. Un itinerario, quello di Merton, che dopo molti profili tradotti ha trovato ora un suo "racconto italiano", grazie ad Antonio Montanari, Maurizio Renzini e Mario Zaninelli (dell’Associazione Thomas Merton Italia) autori del volume Il sapore della libertà (Paoline).
Rimasto orfano giovanissimo insieme al fratello John Paul (perse la madre nel ’21, poi nel ’31 il padre), Thomas, trascorsa parte dell’infanzia negli Usa e della sua formazione in Francia e in Inghilterra (ma, diciottenne, visitò anche Roma, «la città trasformata dalla Croce»), raggiunse New York nel ’34 completando gli studi alla Columbia University. Approdato al cattolicesimo nel ’38, lasciandosi indietro anche periodi vissuti da libertino gaudente («la mia conversione fu aiuto di Dio, come ogni conversione e da parte mia fu studio e ricerca»), tre anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, entrò nell’abbazia di Nostra Signora del Gethsemani nel Kentucky tra i cistercensi di stretta osservanza e nel ’49 fu ordinato sacerdote.
Un "traguardo" dopo un percorso segnato da studi, viaggi, sbandate, incontri, dal continuo interrogarsi sul senso della vita, sino all’attrazione per il chiostro. Un percorso le cui tappe si riflettono in tante pagine mertoniane talora tormentate ma orientate nella direzione della Grazia, sparse fraNessun uomo è un’isola (del ’53); Il segno di Giona (’52), Semi di distruzione (’66), Diario di un testimone colpevole (’67), tradotti da Garzanti, senza dimenticare Semi di contemplazione (del ’49, ora nel catalogo Lindau) e altri scritti, dove la vita contemplativa non è mai fuga dal mondo, bensì modo per entrare in un dialogo profondo con l’uomo.
Aspettando un editore pronto a presentare la versione integrale dei suoi diari si può magari riaprire Scrivere è pensare, vivere, pregare (Garzanti) curato da fratel Patrick Hart e Jonathan Montaldo, una sintesi il cui risultato è dato da una silloge di "sette stanze", da attraversare seguendo il filo di quel diario che Merton iniziò a scrivere sedicenne e dal quale si staccò solo alla morte. Dalla stanza al n. 35 di Perry Street a Manhattan e dalle camere d’albergo occupate a Miami e Cuba dove visse dopo la conversione nel ’38, sino al bungalow di Bangkok dove un ventilatore lo fulminò il 10 dicembre ’68 (si trovava là per un convegno sul monachesimo e come documenta ilDiario Asiatico ora riproposto da Gabrielli Editori vi si era ben preparato), passando per i luoghi a lui familiari nell’abbazia di Gethsemani (l’infermeria, la cripta dei libri rari dove scriveva, il deposito scelto come romitorio), la sequenza di interni irradia i pensieri del monaco «viandante di Regni» nato cent’anni fa. Così lontano e così vicino.

L'ALBERO DI ANNE...


SPIEGARE L'OLOCAUSTO AI RAGAZZI - L'ALBERO DI ANNA FRANK

Ogni volta che la libertà viene minata, lentamente moriamo...
Il 27 gennaio del 1945 vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz.Sono passati soltanto settant'anni e il peso di tanta ferocia è tangibile nel nostro presente.I nostri bambini hanno diritto di sapere, di informarsi di fare domande. Ogni anno metto più luce in questo periodo buio della storia e aumento il carico delle informazioni che passo a mio figlio (9anni).Quest'anno voglio parlargli dei FOLLI DIVIETI imposti agli ebrei, elenco interminabile ed esasperante.


Immagine tratta da "L'albero di Anne"
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L'ALBERO DI ANNE
Irène Cohen-Janca
Maurizio Quarello
Orecchio Acerbo editore




La simbologia degli alberi si sta perdendo nel nostro mondo moderno, troppo dominato dalla tecnologia.
Un tempo la vita dell'uomo girava completamente attorno alla natura.
Anna Frank nel diario che raccoglie le sue memorie descrive spesso un albero che vede in cortile.
Ed è proprio questo albero dalle solide radici che prende coraggio e da voce alla storia di una bambina che lo osserva timidamente dalla finestra della sua casa.
“Nelle città di rumore e polvere io sono quello che per primo annuncia la primavera. Io sono un ippocastano. Un vecchio ippocastano, nel cortile di una casa alle spalle di uno dei tanti canali di Amsterdam. Ho più di cento anni, e sotto la corteccia migliaia di ricordi. Ma è di una ragazzina - Anne il suo nome- il ricordo più vivo. Aveva tredici anni, ma non scendeva mai in cortile a giocare. La intravedevo appena, dietro il lucernario della soffitta del palazzo di fronte. Curva a scrivere fitto fitto, quando alzava gli occhi il suo sguardo spaziava l’orizzonte. A volte però si fermava sui miei rami, scintillanti di pioggia in autunno, rigogliosi di foglie e fiori in primavera. E vedevo il suo sorriso. Luminoso come uno squarcio di luce e speranza in quegli anni tetri e bui della guerra. Fino a quando, un giorno d’estate, un gruppo di soldati -grandi elmetti e mitra in pugno- la portò via. Per sempre.
Dicono che sotto la mia corteccia, insieme con i ricordi, si siano intrufolati funghi e parassiti. E che forse non ce la farò. Sì, sono preoccupato per le mie foglie, per il mio tronco, per le mie radici. Ma i parassiti più pericolosi sono i tarli, i tarli della memoria. Quelli che vorrebbero intaccare, fino a negarlo, il ricordo di Anne Frank. "
dai 9 anni
Scarica l'estratto del libro PDF


martedì 27 gennaio 2015

Giorno della memoria.

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L'Osservatore Romano

 

(Andrea Possieri) Settant’anni fa, la mattina del 27 gennaio 1945, la 60ª Armata del primo fronte ucraino dell’esercito sovietico giunse nella cittadina polacca di Óşwieçim. Nel primo pomeriggio le truppe sovietiche, comandate dal maresciallo Ivan Konev, abbatterono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz e liberarono i circa settemila prigionieri rimasti ancora in vita.
Nelle settimane precedenti, infatti, a partire dal 17 gennaio, decine di migliaia di reclusi erano stati evacuati attraverso le cosiddette marce della morte, le Todesmärsche, e solo il giorno che precedette la liberazione del campo, il 26 gennaio, era stato fatto esplodere l’ultimo forno crematorio.
Il campo di sterminio di Auschwitz è ormai diventato un sinonimo del genocidio degli ebrei, oltre che un luogo della memoria di incomparabile significato simbolico. Con il passare del tempo, però, stanno scomparendo i testimoni diretti della Shoah.


Per non dimenticare

                           Il miracolo della musica composta nei lager


                    www.rainews.it  2014

Tutto ciò che mi resta. Rai5       

Il miracolo della musica composta nei lager


                               Per non dimenticare!


                    LA CANZONE DEL BAMBINO NEL VENTO


(Auschwitz). - I NOMADI

  LeggoeRifletto
                                        


Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! - Voltaire

Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo, ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa' sì che questi errori non generino la nostra sventura.
Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, ne delle mani per sgozzarci a vicenda; fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera.
Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.
Fa' in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo.
Fa' che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio del fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano "grandezza" e "ricchezza", e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.


Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763


Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

Elie Wiesel, La notte 



“Non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì, l’avevo visto, l’avevo visto con i miei occhi…dei bambini nelle fiamme. C’è dunque da stupirsi se da quel giorno il sonno fuggì i miei occhi?”

Elie Wiesel, La notte 



“Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più”. 

- Elie Wiesel -




“Perché comprendere è impossibile ma conoscere è necessario”.

- Helga Schneider -




“Ho fatto un sogno,
Un sogno così terribile;
Il mio popolo non c’era più!
Mi sveglio con un grido,
Ciò che avevo sognato è vero:
Era successo davvero
Era successo a me.” 


- Yitzhak Katzenelson -



 "La realtà è un olocausto"
dipinto di Lucia Ghirardi




Per non dimenticare.... 



venerdì 23 gennaio 2015

Humanae Vitae - Ancora troppo fraintesa. Quell’enciclica sempre pi...



Ancora troppo fraintesa. Quell’enciclica sempre più attuale




(Giulia Galeotti) È veramente prezioso il richiamo recentemente fatto da Papa Francesco a quella che resta, di fatto, l’enciclica meno compresa e meno apprezzata nella storia dei pontificati dell’età contemporanea. Ancora oggi, nell’opinione di tanti, evocare l’Humanae vitae di Paolo VI significa richiamare uno tra i testi emblematici della chiusura del mondo cattolico alla modernità, prototipo della sua incapacità a capirla. Anche l’anniversario dei quarant’anni dalla sua pubblicazione, caduto nel 2008, è quasi completamente caduto sotto silenzio. La sola eccezione di rilievo fu, di fatto, il convegno che si tenne nel maggio di quell’anno a Roma presso la Pontificia università lateranense, i cui atti sono stati poi pubblicati nel volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell’enciclica «Humanae vitae» (Roma, Lateran University Press, 2010), curato da Lucetta Scaraffia.Nell’introduzione, Scaraffia nota come l’enciclica «vada alla radice dei problemi tra uomo e tecnica caratteristici della cultura contemporanea», rappresentando «il punto di partenza della riflessione bioetica in ambito cattolico».Il libro presenta anche un testo poco noto scritto nel 1995 dal cardinale Joseph Ratzinger, che — in poche battute — coglieva, a venticinque anni dalla vituperata enciclica, lo spirito e il significato autentico di quel testo. Dopo aver ricordato che «raramente un testo della storia recente del Magistero è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta», il cardinale Ratzinger, tra gli altri aspetti, si soffermava sulla obiezione contenutistica mossa al testo. «Chi legge serenamente l’enciclica — scriveva il porporato — troverà che essa non è affatto impregnata di naturalismo o biologismo, ma è preoccupata di un autentico amore umano, di un amore, che è spirituale e fisico in quella inseparabilità di spirito e corpo, che caratterizza l’essere umano. Poiché l’amore è umano, per questo motivo ha a che fare con la libertà dell’uomo, e pertanto deve essere amore, che ama l’altro non per me, ma per se stesso. Per questo fedeltà, unicità e fecondità sono ancorate nella essenza interiore di questo amore. A Paolo VI sta a cuore difendere la dignità umana dell’amore umano e coniugale. Perciò la libertà — che nella sua essenza è libertà moralmente ordinata — è al centro delle sue riflessioni. Il Papa ritiene la persona umana capace di una grande cosa: capace di fedeltà e capace di rinuncia. Per questo motivo egli non vuole che il problema della fecondità responsabile — il controllo delle nascite — sia regolato in modo meccanico, ma che venga risolto in modo umano, cioè morale, a partire dallo spirito dell’amore e della sua libertà stessa». Del resto — proseguiva Ratzinger — «se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un’idea troppo grande dell’essere umano, della capacità della sua libertà nell’ambito del rapporto spirito-corpo. Chi ha conosciuto anche solo globalmente la figura di Paolo VI, sa che non gli mancavano la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone. Intenzione dell’enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell’uomo contro una visione deterministica e materialistica. Egli parla nella prospettiva dell’eternità, nella sua responsabilità davanti alla totalità della storia». «Sotto questo punto di vista» — concludeva Ratzinger — Papa Montini «non poteva parlare altrimenti, e a partire da questa prospettiva si deve leggere l’enciclica: come arringa in favore dell’umanità dell’amore e in favore della dignità della sua libertà morale. Qui si manifesta come Paolo VI, anche in questo punto, proprio in questo punto, parli come avvocato della persona umana; come la fede, che lo ispirava, difende la persona umana, anche là ove essa la sprona».L'Osservatore Romano

giovedì 22 gennaio 2015

Introduzione scritta da Joseph Ratzinger al libro di Michel Schooyans – NUOVO DISORDINE MONDIALE

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NUOVO DISORDINE MONDIALE

Originally posted on il blog di Costanza Miriano:

Nuovo Disordine Mondiale

DI AUTORI VARI
Introduzione scritta da Joseph Ratzinger al libro di Michel Schooyans – Nuovo disordine mondiale  – San Paolo Edizioni (2000). Attualmente introvabile.
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di Joseph Ratzinger
Sin dagli inizi dell’Illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte l’escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente.
La promessa di felicità non è più legata all’aldilà, bensì a questo mondo.
Emblematico della tendenza dell’uomo moderno è l’atteggiamento di Albert Camus, il quale alle parole di Cristo “il mio regno non è di questo mondo” oppone con risolutezza l’affermazione “il mio regno è di questo mondo”.
Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e l’approssimarsi, sempre più incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo, questa stessa fede ha assunto una connotazione politica.
Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all’uomo di raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo che è fallito in maniera clamorosa.
Dall’altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera più o meno profonda, alle fonti delle tradizioni liberali.
Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre più definita, che va sotto il nome di Nuovo Ordine Mondiale; trovano espressione sempre più evidente nell’ONU e nelle sue Conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che nelle loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e propria filosofia dell’uomo nuovo e del mondo nuovo.
Una filosofia di questo tipo non ha più la carica utopica che caratterizzava il sogno marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere, ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro che non sono più produttivi o che non possono più sperare in una determinata qualità della vita.
Questa filosofia, inoltre, non si aspetta più che gli uomini, abituatisi oramai alla ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un benessere generale, bensì propone delle strategie per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, affinchè non venga intaccata la pretesa felicità che taluni hanno raggiunto.
La peculiarità di questa nuova antropologia, che dovrebbe costituire la base del Nuovo Ordine Mondiale, diventa palese soprattutto nell’immagine della donna, nell’ideologia dell’ “Women’s empowerment”, nata dalla conferenza di Pechino.
Scopo di questa ideologia è l’autorealizzazione della donna: principali ostacoli che si frappongono tra lei e la sua autorealizzazione sono però la famiglia e la maternità. Per questo, la donna deve essere liberata, in modo particolare, da ciò che la caratterizza, vale a dire dalla sua specificità femminile. Quest’ultima viene chiamata ad annullarsi di fronte ad una “Gender equity and equality”, di fronte ad un essere umano indistinto ed uniforme, nella vita del quale la sessualità non ha altro senso se non quello di una droga voluttuosa, di cui sì può far uso senza alcun criterio.
Nella paura della maternità che si è impadronita di una gran parte dei nostri contemporanei entra sicuramente in gioco anche qualcosa di ancora più profondo: l’altro è sempre, in fin dei conti, un antagonista che ci priva di una parte di vita, una minaccia per il nostro io e per il nostro libero sviluppo.
Al giorno d’oggi, non esiste più una “filosofia dell’amore”, bensì solamente una “filosofia dell’egoismo”.
Il fatto che ognuno di noi possa arricchirsi semplicemente nel dono di se stesso, che possa ritrovarsi proprio a partire dall’altro e attraverso l’essere per l’altro, tutto ciò viene rifiutato come un’illusione idealista. E proprio in questo che l’uomo viene ingannato. In effetti, nel momento in cui gli viene sconsigliato di amare, gli viene sconsigliato, in ultima analisi, di essere uomo.
Per questo motivo, a questo punto dello sviluppo della nuova immagine di un mondo nuovo, il cristiano – non solo lui, ma comunque lui prima di altri – ha il dovere di protestare.
Bisogna ringraziare Michel Schooyans per aver energicamente dato voce, in questo libro, alla necessaria protesta.
Schooyans ci mostra come la concezione dei diritti dell’uomo che caratterizza l’epoca moderna, e che è così importante e così positiva sotto numerosi aspetti, risenta sin dalla sua nascita del fatto di essere fondata unicamente sull’uomo e di conseguenza sulla sua capacità e volontà di far si che questi diritti vengano universalmente riconosciuti.
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All’inizio, il riflesso della luminosa immagine cristiana dell’uomo ha protetto l’universalità dei diritti; ora, man mano che questa immagine viene meno, nascono nuovi interrogativi.
Come possono essere rispettati e promossi i diritti dei più poveri quando il nostro concetto di uomo si fonda così spesso, come dice l’autore, “sulla gelosia, l’angoscia, la paura e persino l’odio”? “Come può un’ideologia lugubre, che raccomanda la sterilizzazione , l’aborto, la contraccezione sistematica e persino l’eutanasia come prezzo di un pansessualismo sfrenato, restituire agli uomini la gioia di vivere e la gioia di amare?” (capitolo VI).
È a questo punto che deve emergere chiaramente ciò che di positivo il cristiano può offrire nella lotta per la storia futura.
Non è infatti sufficiente che egli opponga l’escatologia all’ideologia che è alla base delle costruzioni “postmoderne” dell’avvenire.
È ovvio che deve fare anche questo, e deve farlo in maniera risoluta: a questo riguardo, infatti, la voce dei cristiani si è fatta negli ultimi decenni sicuramente troppo debole e troppo timida.
L’uomo, nella sua vita terrena, è “una canna al vento” che rimane priva di significato se distoglie lo sguardo dalla vita eterna.
Lo stesso vale per la storia nel complesso.
In questo senso, il richiamo alla vita eterna, se fatto in maniera corretta, non si presenta mai come una fuga. Esso dà semplicemente all’esistenza terrena la sua responsabilità, la sua grandezza e la sua dignità. Tuttavia, queste ripercussioni sul “significato della vita terrena” devono essere articolate.
È chiaro che la storia non deve mai essere semplicemente ridotta al silenzio: non è possibile, non è permesso ridurre al silenzio la libertà. È l’illusione delle utopie.
Non si può imporre al domani modelli di oggi, che domani saranno i modelli di ieri.
È tuttavia necessario gettare le basi di un cammino verso il futuro, di un superamento comune delle nuove sfide lanciate dalla storia.
Nella seconda e terza parte del suo libro, Michel Schooyans fa proprio questo: in contrasto con la nuova antropologia, propone innanzitutto i tratti fondamentali dell’immagine cristiana dell’uomo, per applicarli poi in maniera concreta ai grandi problemi del futuro ordine mondiale (in modo particolare nei capitoli X-XII).
Fornisce in questo modo un contenuto concreto, politicamente realistico e realizzabile, all’idea, così spesso espressa dal Papa (Giovanni Paolo II), di una “civiltà dell’amore”.
Per questo, il libro di Michel Schooyans entra nel vivo delle grandi sfide del presente momento storico con vivacità e grande competenza.
C’è da sperare che molte persone di diversi orientamenti lo leggano, che esso susciti una vivace discussione, contribuendo in questo modo a preparare il futuro sulla base di modelli degni della dignità dell’uomo e capaci di assicurare anche la dignità di coloro che non sono in grado di difendersi da soli.

Roma, 25 aprile 1997
Joseph Card. Ratzinger