Stupore e dialettica
«Lo stupore è il nocciolo della filosofia»; questo è il punto di partenza, e allo stesso tempo di arrivo, del saggio Stupore e dialettica di Pavel Florenskij, del quale di recente è uscita nelle librerie la terza ristampa (ed. Quodlibet). Florenskij, figura intellettuale a dir poco eclettica (matematico, filosofo e teologo, ma allo stesso tempo sacerdote e padre di famiglia), scrisse queste pagine tra il 1918 e il 1922, ovvero gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione che portò il Partito Comunista al potere. Nello stesso periodo, lasciò per i suoi eredi alcune memorie, poi raccolte nel libroAi miei figli. Memorie di giorni passati, in cui raccontava della sua infanzia e di come, a partire dai primi anni di vita, si fossero formati i concetti generali della sua visione del mondo, che egli sviluppò in età adulta.
Tra le esperienze fondamentali che segnarono il piccolo Pavel vi fu, per l’appunto, lo stupore, inteso come la sensazione del mistero che, generando la realtà, vi si manifesta integralmente e compiutamente. Come scrisse lui stesso alla moglie, «tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero«. Si tratta della meraviglia del bambino di fronte alla bellezza e al profumo dei fiori, o davanti alla vastità incommensurabile del mare: «Ricordo le mie impressioni di bambino e non mi sbaglio: sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna. L’Eternità mi chiamava, e io ero con lei».
È lo stupore puro ed innocente del bambino, dunque, simile in tutto e per tutto alla meraviglia di cui parla Aristotele (non a caso infatti citato da Florenskij), il punto iniziale, la sorgente della conoscenza più vera e più «integrale», poiché considera i dati della realtà non solo nella loro contingenza sensibile, ma nel loro essere, appunto, luoghi di manifestazione del mistero ignoto che li genera. In questo testo, Florenskij indirettamente ci invita dunque anche ad «allargare la ragione», che non è da intendersi esclusivamente come capacità (matematico-euclidea) di «misurare» la realtà, e dunque definirla una volta per tutte; la ragione è invece il luogo dell’apertura all’ignoto che, come dice Florenskij, è “la vita del mondo”, al significato ultimo, intuito ma mai afferrato, della realtà che viviamo e sperimentiamo ogni momento.
Proprio a causa dell’inafferrabilità dell’oggetto ultimo della conoscenza, il metodo di quest’ultima non può che essere la dialettica, secondo grande pilastro al centro del libro. Dialettica in senso originariamente platonico: ritmo di domande e risposte, che non ha mai fine, poiché il termine della ricerca si sposta ogni volta un passo avanti a noi e si rende, al fondo, imprecisabile, ancorché intuibile. Socraticamente, la ricerca procede attraverso la domanda «che cos’è?», e chiede il nome delle cose; nel momento in cui l’oggetto di tale domanda diventa il mistero, il nome si rende indefinibile, inesprimibile una volta per tutte. Per questo, il Nome del mistero, dice Florenskij nelle conclusioni, è il “compito eterno della filosofia”.
Queste, per Florenskij, non furono esclusivamente riflessioni astratte o di puro carattere speculativo; non furono soltanto il caposaldo di una concezione filosofica del mondo, ma anche la trama indissolubile che definì il suo rapporto con la realtà e con gli altri (e con l’Altro), oltre che della sua incrollabile fede, tanto che per la sua mai rinnegata appartenenza alla Chiesa venne dapprima imprigionato nel GuLag delle isole Solovki, e poi martirizzato l’8 dicembre 1937, in un bosco fuori Leningrado. Fu proprio la sua «ragione allargata» a permettergli di riconoscere la verità della Chiesa, e infine a dare la vita per essa, lasciando una testimonianza che ancora oggi non lascia indifferente chi vi si imbatte.
Andrea Frigerio
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