"Don DeLillo" mangialibri
UNDERWORLD DI DON DELILLO –
UNA LETTURA ‘SOSPETTOSA’
“Il 3 ottobre 1951, al Polo Grounds di New York, si gioca una leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers. Della palla con cui viene battuto l’altrettanto leggendario fuoricampo che assicura la vittoria del campionato ai Giants si impadronisce un ragazzino nero di Harlem, Martin Cotter. La palla viene via via rubata, venduta, regalata: la ritroveremo molti anni dopo in possesso di Nick Shay, un waste manager, dirigente dell’industria dello smaltimento dei rifiuti, che nel 1951 era a sua volta ragazzino un passo più in là, nel Bronx. Nel romanzo di DeLillo i passaggi di mano della mitica palla servono da pretesto per la costruzione di un gigantesco quadro dell’America… “.
Sono sempre diffidente verso un libro di ottocento pagine, e il libro stesso, intuendo il mio sospetto, si affida con riluttanza alle mie mani. Mi domando cosa mai avrà avuto da scrivere l’autore, per riempire tutte quelle pagine. Che razza di storia può svolgersi e mantenere l’attenzione del lettore per così tante parole?
Non sarebbe più saggio, e anche più produttivo, per un romanziere dividere il suo prodotto e farne tre libri da trecento pagine ciascuno?
Soppesando Underworld di DeLillo (Einaudi) la domanda è immediata, suscitata dall’enorme mole di pagine, parole, fatti e personaggi.
La storia – una palla da baseball che passa di mano in mano – è il pretesto che lo scrittore ha scelto per mostrarci l’America e i suoi cambiamenti, dagli anni 50 fino all’inizio degli anni ’90, dalla guerra fredda fino al crollo dell’Unione Sovietica.
Fin dal prologo Il trionfo della morte, nato come racconto autonomo e uscito su Harper’s nel 1992, DeLillo mostra già le prime connessioni e disegna i molti rimandi alla narrazione successiva, facendo uso di grande abilità nella cura dei dettagli.
Il romanzo è montato come un film, con tagli accurati e sequenze ‘rovesciate’. La scrittura è un quadro anch’essa, una grande varietà di linguaggi diversi, multirazziali, e di personaggi che viaggiano tra realtà e fantasia, tra Bronx e quartieri alti, tra New York e il Deserto dell’Arizona, tra feste al Plaza e montagne di rifiuti.
E proprio di rifiuti e del loro smaltimento – tema quanto mai attuale – si occupa Nick Shay, l’ultimo possessore della palla da baseball. Nick ha fatto dello smaltimento e del recupero dei rifiuti una fede: “Io e Marian dividiamo la nostra spazzatura secondo le istruzioni. Sciacquiamo le lattine e le bottiglie vuote e le mettiamo nei rispettivi raccoglitori. Dividiamo la latta dall’alluminio. Usiamo sacchetti di carta, schiacciando quelli più piccoli e sistemandoli dentro quello grande che abbiamo tenuto da parte a questo scopo. Impacchettiamo i giornali ma non li leghiamo con lo spago”.
Ma Nick è anche l’uomo che afferma: “La maggior parte dei nostri desideri non si avvera.” e ancora: ” Vi dirò cosa desidero di più, tornare ai giorni del disordine, quando non me ne fregava un accidente o un cazzo o non davo un centesimo”.
DeLillo interpreta, con una scrittura magistralmente e dannatamente naturale, angosce e contraddizioni della nostra epoca. In ogni pagina del libro si percepisce l’immersione totale e profonda con i protagonisti e la storia: dal capo della CIA a Frank Sinatra, dalla povertà di un ragazzino di colore alla borghesia annoiata alla famiglia di Nick, ai bambini del Bronx e alle miserie dell’animo umano, DeLillo ci mette davanti un’umanità in cui è inevitabile specchiarsi e riconoscersi.
Ma DeLillo è anche un anticipatore, e non solo nella scrittura: la copertina di Underworld è inquietante, anche se quando il libro uscì nel 1997 non lo fu di certo.
L’immagine raffigura le Torri Gemelle del World Trade Center di New York avvolte in una nube di fumo, una croce davanti e un’aquila, simbolo dell’America, che vola di lato. Lo scrittore scelse la foto come copertina e la impose agli editori di tutto il mondo. Ed eravamo ben lontani dall’11 settembre 2001.
I più grandi segreti sono quelli spalancati davanti a noi”: questa frase è all’interno del libro ma sembra che sia lo stesso Don DeLillo a dirla con le sue visioni surreali, mentre ci racconta di Brian che davanti alle montagne di rifiuti incombenti sulla città – le Torri Gemelle visibili sullo sfondo, in uno dei ‘richiami’ tipici di DeLillo – e sui suoi abitanti (“chissà se la gente, sentendo un rumore di notte, si chiedeva se la montagna stesse franando, scivolando verso le case, come una creatura onnivora da film dell’orrore che avrebbe tappato porte e finestre?”) immagina di vedere un brandello di colore cangiante, forse appartenuto al bikini di una segretaria di Queens, e addirittura la sogna dipingersi le unghie e accettate i regali che lui le porge, in una sorta di recita immaginata, tra il lezzo della montagna di spazzatura.
“Penetrare il segreto”. Ma non c’è segreto: la società va sempre più alla deriva mentre perde tutto ciò che aveva, annegando nel mare di cose senza valore di cui si ricopre, e diventa un’America sempre più grande, multietnica e globale, ma anche sempre più corrotta e deviata.
Noi non siamo più ciò che produciamo ma neppure ciò che consumiamo: noi siamo i rifiuti che creiamo. Il legame tra il consumare e il produrre spazzatura è stretto tanto quanto quello tra consumare e esistere.
“Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E finisce tutto nella pattumiera.”
Nella stratificazione delle trame che corrono parallele e finiscono con il sovrapporsi, formando un mosaico di vicende, modus operandi che DeLillo applica spesso ai suoi romanzi anche a quelli meno corposi, rincorriamo avvenimenti raccontati e poi ripresi, con frasi ripetute ed elencate come un mantra propiziatorio. Anche la punteggiatura segue regole inusuali: DeLillo abolisce completamente i puntini di sospensione anche nei dialoghi. Si ha così un effetto di respiro mai troppo sollevato, un avanzare secco e energico.
In Underworld niente è lasciato al caso, è tutto perfettamente calibrato al millimetro, dalle sequenze temporali e narrative ai personaggi, ma ciò che veramente affascina e avvince, è la scrittura e l’accuratezza con cui DeLillo fa sembrare tutto casuale. Quelle sequenze tagliate e ‘incastrate’ a regola d’arte, i dialoghi perfetti, le ripetizioni a volte ossessive di frasi, come un ritornare sui pensieri e un ripartire, i tempi e i luoghi così mirabilmente intrecciati, fanno diventare questo romanzo, quel tomo di quasi 900 pagine che si è affidato alle mie mani sospettose, un oggetto di leggerezza e a tratti di poesia. DeLillo ha momenti di scrittura onirica, in cui le frasi diventano versi e immagini ardite: “Era l’estate delle prugne succose e bluastre…” “… li farò tremare dentro le scarpe nuove…” e coniuga queste visioni con altre, tanto surreali da parere fantascientifiche, di un mondo futuro in cui basta spingere un tasto del pc e si vedono miracoli, come visioni di un mondo alieno quasi a se stesso: “Con il velo e la tonaca, suor Edgar era praticamente un volto, oppure un volto e un paio di mani ruvide. Qui nel ciberspazio si è spogliata di tutta quella stoffa stirata col ferro a vapore. Non è precisamente nuda ma è aperta – esposta a ogni possibile collegamento sulla rete mondiale. […] Il ciberspazio è una cosa dentro il mondo, o il contrario? Quale contiene quale, e come si può esserne sicuri?”
I personaggi di Don DeLillo sono ben definiti: da Nick Shay a suor Edgar, la suora con le ossessioni maniacali per la pulizia, che lava le mani con il sapone dopo averlo lavato – se lavi le mani con il sapone sporco, come potrebbero venire pulite? E chi lava la spugna che serve per lavare? Dovremmo candeggiare spazzole e pettini e spugne –, fino agli abitanti del Muro, ragazzi senza nulla da dichiarare, se non sogni impossibili e senza speranza, che dipingono epitaffi dei bambini morti con bombolette spray – angeli rosa o azzurri a seconda del sesso – e corrono nascondendosi da ogni essere umano, nell’assurda speranza di salvare se stessi e forse noi da un orribile incubo chiamato miseria, umana e spirituale.
Il romanzo stesso è una corsa nel tempo e nei luoghi ‘interni’, per indicarci che tutti noi scappiamo, rincorriamo, fuggiamo: da un ricordo, da vecchie foto, libri, palle da baseball. E tutto per permetterci di sentirci ancora vivi, come nei “giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, imprudente e reale”.
In questo libro il passato segue il presente e lo spiega e il presente anticipa il passato citando luoghi, eventi e persone che ritroveremo in seguito. DeLillo costruisce una rete di rimandi e riferimenti, con connessioni complesse e sotterranee, in questo percorso umano lungo mezzo secolo, in un crescendo di consapevolezza: Epilogo, Das Kapital, annuncia l’ultimo capitolo che dipinge un’immagine spietata del nostro tempo, tanto attuale come neanche DeLillo, nel 1997, avrebbe potuto desiderare.
La diffidenza iniziale si è stemperata nella rete che l’autore mi ha teso: Underworld è un romanzo da leggere e da rileggere. Sono sicura che una seconda lettura svelerebbe altri dettagli e connessioni.
“Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato”.
“Una parola appare nel luccichio lattiginoso e argenteo del flusso di dati. Lo vedi sul tuo monitor. […] un’unica serafica parola. Puoi esaminare la parola con un clic, rintracciare le sue origini, il suo sviluppo, il primo uso conosciuto, il suo passaggio da una lingua a un’altra, e puoi chiamare la parola in sanscrito, greco, latino e arabo…[…] … e puoi guardare fuori dalla finestra… […] una parola che diffonde un desiderio attraverso la distesa viva della città e oltre i ruscelli sognanti e i frutteti, fino alle colline solitarie.
Pace”.
Morena Fanti
(luglio 2008)già pubblicata qui