Il deserto e il giardino. Le due solitudini dell'uomo
di Enzo Bianchi
in “Avvenire” del 29 luglio 2012
Solitudine: una parola che abitualmente suona come negativa, che fa paura, perché rimanda
all’immagine di una landa desolata, a una situazione chiusa, di isolamento, addirittura di reclusione
in prigione. Quando si afferma che qualcuno è solo, lo si dice con un sentimento di pena, di
compassione. Gabriel Marcel è arrivato a confessare: «Non c’è che una sofferenza: l’essere solo»,
ben sapendo che molti uomini e molte donne sono condannati a subire questa situazione. E Victor
Hugo ha scritto lapidariamente: «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine».
Più che di solitudine, dovremmo però parlare di solitudini, al plurale, perché tante sono le forme in
cui la solitudine può apparire, e di fatto appare, nelle nostre vite. Innanzitutto c’è una solitudine da
leggere come una sorta di destino, cioè quella solitudine in cui si precipita a un certo punto della
vita, quando la morte ci strappa chi ci permetteva di non essere soli.
Questa è, per esempio, la solitudine dell’orfano che, perdendo la madre o il padre, non ha più
accanto a sé quella presenza che era la carne, la vita da cui era venuto, non ha più quel riferimento
al 'tu' che l’aveva accompagnato nella sua venuta al mondo. Un tempo la solitudine dell’orfano era
un tema della letteratura, soprattutto quella per i ragazzi, un tema attestato in modo quasi ossessivo;
oggi invece è rimosso, come se non si registrasse più la morte di qualche genitore, che determina
per il figlio, bambino o adolescente, una situazione di triste solitudine.
Solitudine legata a una perdita è anche quella di chi è privato del suo amante/amato, Eugenio
Montale scriveva alla morte della moglie: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di
scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino». Sì, in questa solitudine-destino si può solo
gemere, piangere, fare lamento: il pianto è l’unica cosa necessaria e sembra anche l’unica medicina
possibile.
Un’altra solitudine negativa è quella dell’isolamento. Accade talvolta, spesso a partire da inizi
silenziosi e nascosti, di trovarsi soli, isolati, perché tutti stanno lontano, perché non si è più vicini a
nessuno. La manifestazione estrema di questa solitudine è la prigione, dove si è gettati lontano dalla
vita, dagli affetti, dallo scorrere quotidiano dell’esistenza. Oggi però di fatto molti approdano a tale
isolamento anche senza giungere a questa situazione limite: vi giungono soprattutto a causa di «un
mondo in fuga» (Anthony Giddens), di una società segnata dalla velocizzazione, in cui il singolo
non ha più tempo per dare agli altri la propria presenza.
Sembra impossibile, ma questa lontananza nasce dai figli stessi, dai propri cari, e l’estraneità si
afferma perché i legami si mostrano fragili e sono facilmente allentati o persino troncati. È lo stato
in cui vengono a trovarsi molti anziani, pensionati, invalidi e malati, abbandonati in parte o
totalmente da quanti, impegnati a vivere, non hanno più cura di quelli che non ce la fanno a 'restare
nella vita', a 'correre' come loro. Questi anziani sono - si potrebbe dire - agli arresti domiciliari,
perché impediti dalla loro condizione fisica di muoversi come un tempo.
C’è poi la solitudine di chi vive il sentimento dell’estraneità: questo è soprattutto un malessere
psicologico e intellettuale. Tale solitudine è più rara ed è un morbo che affligge persone in possesso
di una certa educazione, di una certa cultura; non si tratta di abulia o di mancanza di interessi, ma di
rifiuto di ciò che sta intorno, dell’aria che si respira. È un sentire estranei gli altri. Questa, in una
parola, è la solitudine di chi pensa che gli altri siano l’inferno… E poi ci sono le solitudini feconde.
Essere soli, saper stare soli è una conquista che esige fatica, esercizio, audacia. Senza la solitudine e
senza il silenzio come si potrebbe conoscere se stessi, scavare in sé, innestare in sé con
consapevolezza germi di comunione? Ma occorre il coraggio di ritirarsi, di fare anacoresi, di
allontanarsi dal quotidiano, dal proprio impegno, dai propri legami: e questo non per rinnegarli ma
per prendere una distanza da ciò che è uscito da noi, è stato generato da noi, ma non è dentro di noi.
È un uscire dal turbinio quotidiano per fermarsi: 'Siediti e va’', diceva un padre del deserto. È in
questa fase della solitudine assunta che la musica, la lettura, la vista di un’immagine, la
contemplazione di una pianta o di un sasso sono eloquenti, ci pongono domande, accennano a risposte, ci fanno fremere di gioia, ci fanno piangere…
«Beata solitudo, sola beatitudo!», gridava
Bernardo di Clairvaux.
fonte AlzogliOcchiversoilCielo qui in PDF