Dopo un ventennio in cui è stata bandita quasi fosse un’istanza utopica se non un intralcio all’opulenza oggi, sopraggiunta la crisi con un significativo aumento delle sue vittime, si invoca l’equità e se ne afferma la necessità, ci si appella alla giustizia e all’uguaglianza, salvo ribellarvisi quando queste chiedono sacrifici a tutti e non solo “agli altri”. Ci rendiamo conto della barbarie che abbiamo voluto accogliere, dello scadimento cui abbiamo abbandonato tanti valori necessari alla semplice convivenza civile?Riporto da "La Stampa" di ieri 29 gennaio 2012a firma di ENZO BIANCHINel leggere che in Italia il 10% delle famiglie più ricche possiede il 45,9% della ricchezza e che i poveri costituiscono ormai il 14,4% della popolazione mi viene spontaneo riandare alla descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. Descrizione ormai vecchia di duemila anni, tesa a tratteggiare a posteriori un ideale non sempre collimante con la realtà: solo pochi versetti dopo, lo stesso libro degli Atti degli apostoli ci narra infatti della prima dichiarazione mendace dei redditi, con tragiche conseguenze per i due coniugi “contribuenti” disonesti.È ovvio che non possiamo pensare di applicare a una collettività di quasi sessanta milioni di individui, membri di una società complessa, multietnica e multireligiosa le scelte individuali di condivisione proprie a una ristretta comunità di credenti (anche per questo è stata inventata la laicità), ma potremmo interrogarci sull’equità nelle misure per governare l’economia, cioè la giustizia intesa non solo come giudizio relativo al rispetto della legge ma come affermazione concreta e quotidiana dell’uguaglianza, almeno di partenza, di tutti i cittadini.In fondo si tratta essenzialmente di dare piena attuazione agli articoli 3 e successivi della parte prima della nostra Costituzione – patto fondativo della convivenza civile in Italia e bussola decisiva per ogni provvedimento legislativo o esecutivo – dove il diritto-dovere al lavoro è garantito e richiesto a tutti e dove si afferma la salvaguardia del diritto a una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Naturalmente non è facile far accettare a quanti hanno sempre prosperato sulla diseguaglianza principi fondamentali quali la “pari dignità sociale”, la tutela della salute di tutti e di ciascuno, l’accesso all’istruzione anche ai non abbienti, così come è arduo perseguire l’equità in un contesto globalizzato in cui la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani universali sono così sovente disattesi. Si tratta di decidere se fare obbedienza supina a un’intoccabile “legge del mercato”, quasi fosse la declinazione commerciale di una legge naturale, oppure esercitare sapienza e intelligenza nel formulare leggi che il mercato lo regolano e lo mettono al servizio non di un singolo, di una classe sociale o di un’area geografica, ma del benessere dell’umanità intera e delle future generazioni.Certo, come già per percepire il senso positivo del sacrificio e la “bontà” delle tasse, anche per comprendere e perseguire l’equità sociale è necessaria la consapevolezza di formare un corpo – sociale, appunto – di appartenere a una comunità umana, di non essere abitanti di un’isola felice da godere senza gli altri o contro gli altri. Consapevolezza oggi assai rara, ma che si potrebbe recuperare anche rileggendo alcuni elementi di quelle “radici cristiane” troppo sovente citate per dividere, separare, contrapporre anziché unire. Così non andrebbe dimenticato che quando il cristianesimo si è inculturato nel mondo greco-romano ha anche ereditato il diritto di uguaglianza forgiato da quella cultura – l’isonómia, principio che informava di sé la vita della polis – e ne ha favorito l’estensione a tutti gli appartenenti allapolis, non solo i cives ma anche i barbari: soprattutto nell’ora della pressione da parte dei barbari ai confini della civitas romana, i cristiani hanno saputo dare un grande contributo, riconoscendo l’uguaglianza dei diritti a quanti entravano a far parte di quello spazio civile.Tuttavia ben presto, già a partire dalla fine del IV secolo, il cristianesimo è stato a sua volta foriero di diseguaglianza: infatti coloro che restavano fedeli alla religio dei padri, al paganesimo, venivano privati dell’uguaglianza con i cives, ormai identificati esclusivamente con i cristiani appartenenti alla grande chiesa… Così, durante il regime di cristianità, di fatto, i cristiani accettarono di convivere con le diseguaglianze che segnavano la società: diseguaglianza uomo-donna, diseguaglianze economiche, diseguaglianze giuridiche; essi accettarono persino la diseguaglianza religiosa, la cui conseguenza più nefasta fu quella di rendere vittime gli ebrei, gli eretici, i pagani, quanti cioè erano extra ecclesiam. L’annuncio del vangelo continuava ad affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si accettava e si instaurava la diseguaglianza in nome di una interpretazione restrittiva del vangelo stesso, che non riconosceva uguali diritti e uguale dignità a chi non apparteneva alla societas christiana…Lungo tutto il medioevo nella vita cristiana secolare il magistero restava chiuso nello schema dell’“uguaglianza proporzionale”, che riconosceva a ciascuno solo ciò che gli era dovuto in base al suo rango, in base all’ordo e alla potestas accordatigli dal consesso civile. Solo il monachesimo, quando vissuto nella sua identità più genuina, mantenne viva l’esigenza dell’uguaglianza tra barbari e latini, tra nobili e appartenenti alle classi sociali più basse, tra ricchi e poveri: proprio in virtù, non a caso, della sua vocazione a costituire un “corpo”, a creare un’unità di intenti e una condivisione di strumenti per raggiungerli, a pensare se stessi e il rapporto con gli altri in una dimensione comunitaria in cui il singolo è accolto nella sua diversità, con i suoi limiti e le sue potenzialità, ed è stimolato a collaborare all’edificazione del bene comune. Come non vedervi un’analogia con la nostra Costituzione quando prescrive che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”?Sì, perché uguaglianza non è dare a tutti le stesse cose – forse è per schivare l’astrattezza di questa promessa che oggi vien spesso preferita la parola “equità” – ma riconoscere a ciascuno la medesima dignità di essere umano e fare in modo che possa accedere alle risorse necessarie per una vita degna di tal nome: solo se saremo capaci di dare a ciascuno secondo il suo bisogno di umanità, la nostra convivenza sarà degna del nome di civile.§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§leggere le relazioni sociali attraverso un paradigma biblico (Bittasi)Questo mese la rubrica «Bibbia aperta» si sposta tra le Mappe, per dare spazio a una riflessione più ampia e articolata su una azione che riguarda ciascun essere vivente ma che si arricchisce di significati simbolici nel caso dell'essere umano: nutrirsi e nutrire. Partendo dalle diverse descrizioni bibliche del mangiare, l'A. spiega come questa dinamica, attraverso le fasi del mangiare per se stessi, del mangiare insieme, del dar da mangiare e infine dell'offrire se stessi come cibo per la vita degli altri possa illuminare anche le relazioni umane nel loro vissuto più esplicitamente socialeBibbia è un termine plurale, derivato dal greco ta biblia, che significa "i libri". Il contenuto di questo imponente volume infatti è il frutto della raccolta di 73 libri (almeno per la Chiesa cattolica) composti in tempi molto diversi, dall'XI secolo a.C. al II d.C., lungo un arco temporale di circa mille anni. Negli ultimi trent'anni si è andata sviluppando una corrente di pensiero che afferma la possibilità di una lettura continua di questi libretti considerandoli quasi come "capitoli" del più grande libro. Secondo questa visione, si può cominciare con il primo versetto del libro di Genesi per terminare con l'ultimo del libro dell'Apocalisse scorgendovi un disegno coerente, uno svolgersi organico e articolato della grande avventura dell'umanità nella sua relazione con Dio o, per meglio dire, della storia del rapporto che Dio ha voluto intrattenere da sempre con la sua creazione e, nello specifico, con il genere umano. Certamente ci sono molti limiti a un tale impianto di lettura del "Grande codice"1, eppure esso consente di scoprire dimensioni affascinanti del testo biblico. Una di queste è che il racconto del percorso plurimillenario che va dalla creazione del mondo al suo compimento escatologico viene incorniciato da un'unica azione: quella del mangiare. Se infatti è il mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male l'azione di Adamo ed Eva che in Genesi 3, 1-6 li allontana da Dio, è altresì legata al mangiare l'ultima azione di Dio nell'incontro con l'umanità: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Apocalisse 3, 20). Del resto il mangiare, come ha scritto il teologo Giancarlo Bruni,diventa momento rivelativo nel suo svelare la verità del cibo. Esso è da un Altro per il sostentamento, la consolazione e l'ammaestramento di altri: l'essere da, l'essere per fino alla consumazione di sé è la recondita verità del cibo manifestata nel gesto stesso del mangiare. Gesto marcato da una morte - sradico dalla terra, colgo dagli alberi, caccio gli animali e mangio - e gesto marcato da una ragione di vita - morire per te facendomi mangiare da te -. Oltre ogni logica di autoreferenzialità, di autoconservazione e di distinzione di cibi (Atti 10, 9-16; Romani 14, 17). La coscienza è risvegliata a una consapevolezza che è all'origine della sobrietà - chiedi, raccogli e mangia il necessario -; dei culti di riparazione nei confronti della natura propri alle religioni primitive perché posti di fronte all'evidenza che per vivere occorre comunque fare violenza; e ancora del riscatto del cibo-vittima nobilitandone il dono attraverso 1'arte del cucinare e un codice del mangiare che esclude l'azzannare, il divorare, l'abbuffata e lo spreco di chi deve rendere conto anche dei frammenti. Coscienza all'origine infine del rendimento di grazie in termini di riconoscenza. Conosco che ciò che mangio è grazia che provoca il grazie: per questo, nell'esperienza della storia delle religioni e cristiana, il mangiare si iscrive sempre nell'orizzonte del dono, della benedizione benedetta propria a chi è stato dato di saperne l'origine, la destinazione e la finalità2.Così, in questa ampia tavolozza di risonanze simboliche, si può anche collocare una riflessione che espliciti la valenza metaforica del mangiare, per uno sguardo sulle relazioni umane nel loro vissuto più esplicitamente sociale, partendo proprio dalle diverse descrizioni bibliche.Mangiare per se stessiLa prima funzione vitale espressa dal mangiare è il proprio sostentamento. Esigenza primaria, basilare, necessaria alla vita. Nella Bibbia è il primo dono di Dio alle sue creature: Ecco io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali [...] io do in cibo ogni erba verde (Genesi 1, 29-30); e, dopo il diluvio, Dio dice a Noè: Ogni essere che si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe (Genesi 9, 3). Il cibo è cioè a disposizione dell'umanità, sia dal mondo vegetale che animale. L'avere bisogno di cibo per vivere pone però l'uomo nella condizione di fare di questa sua basilare necessità il centro focale per la propria esistenza. Senza arrivare a fare del ventre il proprio dio (cfr Filippesi 3, 19 e Romani 16, 18), non è difficile vivere ripiegati su se stessi, nella pretesa che tutto l'esistente sia solo funzionale alla propria sazietà.Questa è la situazione normale, necessaria per la crescita dell'infante, che urla la sua richiesta di essere nutrito. Si conosce bene dallo studio scientifico come la morfologia stessa del cucciolo (compreso quello d'uomo), il suo cromatismo, la tonalità dei suoi urli, le sue posture, hanno come unico scopo di attirare a sé le cure dei genitori (per lo più della madre) per essere nutrito e accudito. È evidente che non c'è alcuna connotazione moralmente negativa nell'affermare l'esistenza di una lunga fase della formazione dell'essere umano che per poter vivere, crescere, svilupparsi sia fisicamente sia intellettualmente e affettivamente, piega necessariamente a sé tutta la realtà e ogni relazione. Tale situazione autocentrata, normale nell'infanzia, rischia di diventare patologica quando si tramuta nell'egoismo dell'atteggiamento adulto - e in questo è come se si creasse una sorta di mancanza di sviluppo dell'umano - di colui che fa delle proprie "fami" l'alibi per continuare a considerare l'altro-da-me solo in funzione del suo essere altro-per-me3.La Bibbia presenta molteplici casi in cui questo avviene. Si pensi alle varie rivendicazioni del popolo nel deserto connesse alla mancanza di cibo: Fossimo morti per mano del Signore nella terra d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine (Esodo 16, 3; si veda anche tutto il capitolo di Numeri 11), cui Dio risponde con manna e quaglie dal cielo. Il commento all'episodio da parte del Salmo 78 (77), 18-32 è realistico e tragico: Nel loro cuore tentarono Dio, chiedendo cibo per la loro gola. Parlarono contro Dio, dicendo: «Sarà capace Dio di preparare una tavola nel deserto?». [...] Mangiarono fino a saziarsi ed egli appagò il loro desiderio. Il loro desiderio non era ancora scomparso, avevano ancora il cibo in bocca, quando l'ira di Dio si levò contro di loro, uccise i più robusti e abbatté i migliori d'Israele. Con tutto questo, peccarono ancora e non ebbero fede nelle sue meraviglie. La componente egoistica e concupiscente dell'atteggiamento del popolo è particolarmente sottolineata, al punto che la richiesta-pretesa di cibo diventa più importante della fedeltà alla relazione con Dio, addirittura manipolata per comportarsi in modo quasi ricattatorio, secondo un tipico schema infantile.C'è un episodio nella narrazione biblica che mette in particolare evidenza come nel bivio della scelta tra assunzione della propria responsabilità e la possibilità di trangugiare cibo, sia questa seconda opzione a prevalere, a scapito della fedeltà al proprio mandato esistenziale. Si tratta della circostanza nella quale Esaù cede a Giacobbe la primogenitura per un piatto di lenticchie (Genesi 25, 29-34).Genesi 25, 29-3429 Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. 30 Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po' di questa minestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. 31 Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». 32 Rispose Esaù: «Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?».33 Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. 34 Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura.Nei vv. 29-30 viene descritto lo stato d'animo di Esaù. Egli torna da una caccia infruttuosa ed è senza cibo e sfinito. Si avvicina a casa e sente il profumo delle lenticchie cotte e ne chiede al fratello. L'espressione ebraica è molto interessante, potrebbe essere tradotta così: «Lasciami trangugiare un po' di questa roba, questa roba rossa», con una ripetizione di ciò che lui vuole inghiottire. Per questo Esaù fu chiamato Edom, che in ebraico vuol dire "rosso", che è il colore rossastro delle lenticchie e anche il colore della terra (alla stessa radice appartiene Adam, colui che è fatto dalla terra, adamah). Giacobbe risponde immediatamente con il calcolo rapace: Vendimi subito la tua primogenitura. Da una parte allora assistiamo al desiderio di sfamarsi nel bisogno impellente, quel tipo di desiderio che dà l'impressione che, se non lo si soddisfa immediatamente, si morirà (Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura? v. 32). Dall'altra, nei vv. 31-33, troviamo Giacobbe (in ebraico significa colui che inganna, che froda): il beduino, seduto, che non ha fatto nessuna fatica, può permettersi di calcolare i suoi interessi del momento e propone il prezzo del cibo. Prezzo sproporzionato, certo, ma che diventa plausibile proprio dinanzi alla morte evocata. Esaù mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò è lo svolgimento sintattico in italiano dell'originalemangiò, bevve, si alzò, se ne andò con i quattro verbi espressi senza congiunzioni, a produrre l'effetto di squallido automatismo insito in quel tipo di mangiare: quando si è così protesi verso una soddisfazione immediata, si può arrivare a perdere il lume della ragione. Giacobbe sa tutto questo e lo sfrutta a suo vantaggio. Riesce cioè a utilizzare questo meccanismo di Esaù, che è un "meccanismo" della nostra umanità, per avere un suo utile personale: ottenere la primogenitura.Essere primogeniti significava fare le veci del padre nel mantenimento di tutto il clan. Se al padre succede qualcosa, o se viene meno, la sua stessa funzione di responsabilità - che implica la difesa della vita, il mantenimento economico, la difesa dei più deboli, il mantenimento del capitale, delle terre, del bestiame - passa al primogenito. Il potere e l'onore che una funzione sociale comporta sono proporzionali al carico di responsabilità, che implica il fatto di dovere farsene carico. Esaù, vendendo la primogenitura, non vende semplicemente l'onore che probabilmente interessava al gemello Giacobbe. Per brama di "cibo", Esaù vende una responsabilità irrinunciabile e "sacra" per il bene della sua famiglia, della sua collettività. E il dramma è evidente se si nota come questa sia la stessa dinamica insita in tanti atti di ricerca di un "mangiare" che dimentica la responsabilità della propria esistenza.Certamente il mangiare, come abbiamo già visto, comporta inevitabilmente una mors tua vita mea e un anteporre la propria esigenza di vita a tutto il resto. Quali possibilità allora di mangiare in modo che venga anche rispettata la consapevolezza adulta e sana dell'azione? Innanzi tutto rispettando il limite fondamentale che il cibo ci propone antropologicamente. Per farlo è necessario ricordarsi sempre che il cibo è un elemento donato, anche quando è frutto del lavoro delle proprie mani, e che occorre quindi sempre mangiare rendendo grazie, vale a dire con un atteggiamento di gratitudine che dice umiltà e rispetto. È la custodia di una memoria del dono, valida in sé, ma ancora più evidente nella Bibbia, che conosce bene anche il nome del donatore primo, cioè Dio. Da qui l'indicazione sempre preziosa del libro delDeuteronomio di non dimenticare mai la qualità di elemento donato che le "cose" assumono quando diventano cibo.Deuteronomio 8, 6-2010 Mangerai, sarai sazio e benedirai il Signore, tuo Dio, a causa della buona terra che ti avrà dato [...] 12 Quando avrai mangiato e ti sarai saziato [...], 14 il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile; 15 che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz'acqua; che ha fatto sgorgare per te l'acqua dalla roccia durissima; 16che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire. 17Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: "La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze".Allora diventa possibile, all'interno dell'assunzione delle responsabilità adulte che obbligano ciascuno a essere in qualche modo "primogenito" per altri fratelli, anche il nostro mangiare. Certamente anche sopportando la necessità del "digiuno" talvolta, ma nella sana consapevolezza della necessità del proprio sostentamento, sempre purificato, tuttavia, da quella dimensione - per l'appunto "famelica" - che porta chi ricopre alte responsabilità a un accaparramento violento. Quel "mangia mangia" - un'espressione certamente non casuale - di cui sono accusati politici e amministratori pubblici, cui legislazioni non sempre illuminate riconoscono aree di impunità, diventa così ancora più odioso se garantito dai vari sistemi economici. Il tema dei compensi per i livelli più elevati del management di banche e imprese, che tanto ha fatto riflettere in questi ultimi anni, potrebbe trovare luce da questa riflessione.Mangiare insieme ad altriUn primo rimedio alla rapacità del mangiare unicamente per se stessi è l'apertura alla socializzazione. Nello sviluppo evolutivo della persona questa passa normalmente attraverso i riti del cibo condiviso. L'età adolescenziale e giovanile è ricca di eventi che fanno del cibo condiviso il momento centrale della scoperta dell'alterità e dell'apertura all'impegno sociale. Ma questo non riguarda solo nella crescita dell'individuo: gli eventi festivi, le riunioni famigliari, le ritualità legate ai passaggi della vita, di tipo religioso o laico, sono quasi sempre accompagnati dalla comunionalità del "mangiare insieme".Il fatto del mangiare diventa momento rivelativo della verità dell'uomo come essere di comunione. L'amicizia è espressa dal mangiare insieme, è ricercata nel mangiare insieme, è fatta risalire a una fonte comune di vita, il cibo. La convivialità fa e manifesta la riconciliazione: il primo segno di rottura è il negarsi al ricevere vita da un cibo comune e al donare vita alla sequela del cibo comune4.Nella Bibbia, gli incontri tra persone - come ad esempio tra Ietro e Mosè (Esodo 18, 1-12) o tra Giacobbe e Labano (Genesi 31, 43-54) - sono spesso accompagnati da banchetti che stipulano alleanze o suggellano riconciliazioni5. Ma il cibo condiviso diventa anche uno dei più alti segni dell'identità condivisa di un popolo formato da tante diverse tribù. Si pensi a tutta la ritualità legata alla cena di Pasqua, memoriale del passaggio di liberazione del popolo di Israele dall'Egitto (a partire da Esodo 12), fino ad arrivare a tutti i sacrifici di offerta comunionale del Tempio di Gerusalemme che rimandano a un cibo donato perché sia distribuito e condiviso (Levitico 7, 11-21; cfr1Re 3, 15).Si comprende allora come questo atto, simbolicamente molto ricco, legato alla fiducia reciproca (mangio con te sicuro che non mi avveleni, bevo con te sicuro che non approfitterai della mia eventuale euforia), sia utilizzato nella Bibbia come segno dell'incontro definitivo dell'umanità con il suo Dio. Il banchetto di grasse vivande e di cibi succulenti preparato da Dio per tutti i popoli sull'alto monte (cfr Isaia25, 6-10; 55, 1-11) come profezia dei tempi ultimi - caratterizzati dalla scomparsa della violenza, dei conflitti etnici, morali e religiosi, addirittura della morte -, trova il suo compimento nella lunga serie di banchetti cui Gesù viene presentato a partecipare, offrendo accoglienza, perdono, pace, possibilità di risoluzione delle differenze religiose (pagani e ebrei) e morali (farisei e pubblicani), fino alla risurrezione dai morti6.Dare da mangiareIl momento dell'effettivo passaggio alla vita adulta si ha quando si supera l'autocentratura sul proprio sostentamento come riferimento unico della vita, nel fare l'esperienza dell'avere responsabilità sulla vita altrui. Quando cioè si passa dalla declinazione del mangiare come un nutrire la propria vita all'investimento di energie materiali e spirituali per nutrire la vita di qualcun altro. La necessità di dover "far vivere" qualcun altro fa oltrepassare la prospettiva della semplice figliolanza (che chiede il sostentamento a qualcun altro) e della fraternità (che vive dell'incontro-scontro con l'alterità) per porsi nell'orizzonte della prospettiva genitoriale del padre e della madre che devono "dar da mangiare" al figlio perché possa vivere e crescere. In questo passaggio la Bibbia fornisce un'ampia gamma di espressioni simboliche che, da una parte, svelano il volto di Dio come quello di un padre e di una madre che nutre, si prende cura della vita del popolo e dell'umanità7, dall'altra ci indicano una precisa direzione di orientamento e di educazione della dinamica del "mangiare".L'esperienza storica del cammino nel deserto da parte del popolo di Israele diventa il paradigma simbolico fondamentale per svelare al cammino dell'umanità come, nell'attraversamento della vicenda faticosa del vivere, Dio sia colui che dona il cibo necessario alla vita. Molti sono i testi nei quali il "dar da mangiare" di Dio è evidenziato8, nel simbolo della manna nel delle quaglie nel deserto, come poeticamente evoca il salmista (Salmo 78, 23-29):Diede ordine alle nubi dall'altoe aprì le porte del cielo;Mangiarono fino a saziarsied egli appagò il loro desiderio.fece piovere su di loro la manna per ciboe diede loro pane del cielo:l'uomo mangiò il pane dei forti;diede loro cibo in abbondanza.Scatenò nel cielo il vento orientale,con la sua forza fece soffiare il vento australe;su di loro fece piovere carne come polveree uccelli come sabbia del mare,li fece cadere in mezzo ai loro accampamenti,tutt'intorno alle loro tende.Il cibo donato nel deserto diventa un vero e proprio riferimento simbolico per lo svelamento del volto di Dio nei profeti: A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare (Osea 11, 3-4). Anche per Gesù si evidenzia nei Vangeli la stessa dinamica. I cosiddetti brani della "moltiplicazione" dei pani e dei pesci - che non hanno in realtà traccia di alcuna moltiplicazione, dato che ciò che viene evidenziato è la dinamica della condivisione che rende il pane "spezzato" sufficiente, anzi, sovrabbondante, per tutta la folla9 -, evidenziano come Gesù mostri lo stesso volto di colui che dona il cibo per la vita dell'altro.In realtà se il paradigma biblico si fermasse qui, saremmo ancora fermi alla declinazione della necessità di un mangiare che trova in un'entità divina la sua realizzazione somma. Ci troveremmo cioè, semplicemente, di fronte a una meditazione su colui che "deve" fornire a noi il cibo. Sul versante sociale, la convivenza sarebbe configurata alla capacità di meglio esprimere i propri bisogni, come infanti, affidando a un organismo super omnibus il compito di nutrirci e di metterci nelle condizioni di poter esprimere la nostra individualità, come perenni adolescenti. Che questa richiesta venga fatta al principe più o meno illuminato o a una qualche forma di Stato sociale che si prenda cura dei cittadini "dalla culla alla tomba", è uno dei rischi più grandi che correrebbe un immaginario del mangiare biblico che non abbia un ulteriore sviluppo10. Ecco perché la Bibbia, quando propone il passaggio dal nostro mangiare alla riflessione su Dio (o Gesù Cristo) che ci dona da mangiare, non lo fa unicamente per suscitare il sentimento della gratitudine, ma a far nascere la resposabilità che ne deriva. La risposta che nasce dalla consapevolezza di essere stati sotto l'ala protettrice di Dio deve essere per il popolo di Dio, per il discepolo una spinta per prendersi cura degli altri11. Molti sono i brani nei quali possiamo leggere il dinamismo messo in moto dalla "memoria" di una storia che ci ha nutrito e ci ha donato le possibilità di vivere nell'oggi con una consapevolezza responsabile12. Oltre al brano nel riquadro, si vedano in questo senso le indicazioni in Deuteronomio 5, 12-15; 10, 18-20; 16, 9-12 e soprattutto il capitolo 26, in cui la compartecipazione e la condivisione dei propri beni agli altri attraverso la legge delle decime13, nella prospettiva del bene comune dell'intero popolo, è giustificata dalla memoria storica di un Dio che aveva liberato, nutrito, curato il popolo e lo aveva fatto entrare nella Terra promessa.Deuteronomio 24, 17-2217 Non lederai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. 18 Ricòrdati che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore, tuo Dio; perciò ti comando di fare questo.19 Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro delle tue mani.20 Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. 21 Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. 22 Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d'Egitto; perciò ti comando di fare questo.Ecco allora che la categoria del "dar da mangiare" diventa un modello paradigmatico di comportamento per il popolo, identificandosi addirittura con il concetto di giustizia: Se uno è giusto divide il pane con l'affamato (Ezechiele 18, 7.16 e molti altri passi tra cui Isaia 58, 7; Deuteronomio 26, 12, ecc.). D'altro canto, lo stesso Gesù dà la stessa precisa indicazione ai suoi discepoli: Voi stessi date loro da mangiare (Marco 6, 37).Da un punto di vista di valutazione sociale vale la pena soffermarci sulla necessità di passare dall'atteggiamento insito nel mangiare a quello caratteristico del dar da mangiare per poter crescere nella dimensione adulta dell'esperienza umana. Non può sfuggire, infatti, la radicale differenza tra una società che semplicemente risponde alle "fami" dei propri cittadini e una società che attiva processi circolari di bene-memoria del bene-responsabilità civile. Purtroppo il triste spettacolo di una politica che non ricerca più il compimento di una tale circolarità, ma agisce in termini di ricerca di consenso, quando non esplicitamente di voti, a prezzo di benefici di parte o lobbistici concessi a questo fine, non ha certamente aiutato alla consapevolezza della necessità di questa responsabilità adulta della convivenza politica e sociale.Dare se stessi per la vita degli altriL'esperienza storica di Gesù di Nazaret è stata proposta dai primi discepoli sotto la cifra della vita donata perché altri vivano. La categoria del cibo è esplicita nel messaggio di Gesù stesso e della prassi della comunità cristiana. Sono note le parole di Gesù durante l'Ultima Cena tramandate nei Vangeli: Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22, 19-20)14. La prospettiva affascinante che il "dare da mangiare" possa tramutarsi in alcune eccezionali circostanze in un "darsi da mangiare" per la vita degli altri apre alla considerazione di quanti hanno compiuto questo passaggio, nel dono della propria vita. San Paolo ha scritto: A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Romani 5, 7-8). Credo che questo atteggiamento di Dio in Gesù sia anche verificabile in quanti ripropongono continuamente la stessa attitudine a mettere a disposizione la propria vita per la giustizia, per il bene comune, per la vita concreta di molti, "dandosi in pasto" a coloro che, di fatto, mettono in pericolo tali valori. Uno di questi è stato senz'altro Dag Hammarskjöld, Segretario Generale dell'ONU dal 1953 al 1961, anno in cui il suo aereo si schiantò nella foresta del Katanga, probabilmente a seguito di un sabotaggio volto a impedire la sua opera di mediazione del conflitto africano di quegli anni. In quell'anno gli fu conferito postumo il premio Nobel per la Pace. Egli ha teorizzato le caratteristiche del civil servant, di colui che per "lavoro" si mette al servizio della collettività, indicandone a più riprese le disposizioni necessarie di cui la fondamentale è quella di non voler ricercare il proprio interesse, fino alle estreme conseguenze di ciò15. Ma è nel suo diario che è stato scoperto e pubblicato dopo la sua morte che si sono potute leggere le radici spirituali di una tale visione, laddove si legge: «La "faccia" dell'altro è più importante della tua; se cerchi qualcosa per te, non potrai far conto di avere successo nel difendere gli altri»16.In questo donarsi quasi come cibo per la vita degli altri possiamo riconoscere lo stesso stile di molti, anche in tempi recenti. Una società che non faccia di questi uomini e donne il vero punto di riferimento per la propria identità rischia di essere sempre vittima di un utilitarismo individualistico che non è più capace di rispondere autenticamente al bene di ciascuno nella comune convivenza.NOTE1 Per citare il celebre titolo del libro di Northrop Frye che, nel 1981, propose questa immagine per definire la continuità narrativa del testo biblico preso nel suo insieme. Cfr FRYE N., Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986 (ed. or. The Great Code. The Bible and Literature, 1982)2 BRUNI G., «Mangiare: evento rivelativo», in Servitium, 148 (lug./ago. 2003) 49-50.3 La psicanalisi freudiana prima e quella lacaniana poi forniscono utili chiavi di lettura per l'identificazione di questo tratto come quello da cui è fondamentale essere aiutati a uscire. Un recente libro di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?, Cortina, Milano 2011, può aiutare (specialmente alle pp. 67-86) a comprendere la necessità del superamento della dimensione di vedere l'altro come un semplice strumento per quel "mangiare che mi fa vivere" (il "bambino vampiro" delle lezioni lacaniane), per poter vivere il maniera sana la composizione dei propri desideri con le leggi della vita.4 BRUNI G., «Mangiare: evento rivelativo», cit., 51.5 Anche se occorre aggiungere che spesso il banchetto cui si invitano i propri nemici diventa uno dei luoghi più ingannevoli. Si invita sotto il pretesto di fare pace e si uccide. Si può vedere nella Bibbia 2 Samuele 11, 5-13 e 13; 1 Maccabei 16, 11-17.6 Gesù, noto come mangione e beone, un amico di pubblicani e di peccatori (Matteo 11, 19), che fa porre ai farisei la domanda: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?» (9, 11), viene diverse volte presentato nei Vangeli come colui che si pone a tavola insieme a peccatori (Matteo 9, 10-13; Marco 2, 15-17; Luca 5, 29-32; 15, 1-2; 19, 1-10), ai poveri (Luca 14, 12-14), ai farisei (Luca 14, 1s.; 11, 37-53; 7, 36-44), oltre che ai suoi discepoli. Importante è anche segnalare il banchetto con Lazzaro risorto (Giovanni 12, 1-11) e tutti i contesti di comunione di cibo che Gesù, dopo la risurrezione, propone ai suoi discepoli (ad esempio, Luca 24, 28-31 eGiovanni 21, 9-14).7 Si legga il grande inno a Dio presentato essenzialmente come colui che dà il cibo a ogni creatura che è il Salmo 104 (103).8 Si vedano i racconti di Esodo 16 e Numeri 11 e gli utilizzi di questo evento in Deuteronomio 8, 1-16, Salmi 105, 40; 106, 13-15;Sapienza 16, 20-29.9 Cfr Marco 6, 30-44 e i paralleli di Matteo 14, 13-21; Luca 9, 10-17; Giovanni 6, 1-13; Marco 8, 1-10.10 Questa deriva è stata descritta in un modo finora insuperato dalla pagina della "Leggenda del Grande Inquisitore" dei Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, in cui, come si sa, un Gesù ritornato sulla terra viene messo in carcere dalla "sua" stessa Chiesa e redarguito dal suo grande inquisitore: «Vedi tu invece queste pietre in questo nudo e infuocato deserto? Mutale in pani e l'umanità sorgerà dietro a te come un riconoscente e docile gregge, con l'eterna paura di vederti ritirare la tua mano, e di rimanere senza i tuoi pani. [...] Sai tu che passeranno i secoli e l'umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? "Nutrili e poi chiedi loro la virtù!", ecco quello che scriveranno sulla bandiera che si leverà contro di te e che abbatterà il tuo tempio. [...] Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: "Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!". Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro!».11 Non bisogna dimenticare che la consapevolezza del messaggio di Gesù della prima comunità cristiana descritta negli Atti degli Apostoli comporta immediatamente una istanza legata al dare da mangiare e al mangiare condiviso. Tale presa di coscienza porta addirittura al primo incarico istituzionale della comunità. Gli apostoli in un primo momento e i sette "diaconi" poi si occupano delle "mense" - ovvero della distribuzione dei beni che tutti nella comunità sono chiamati a condividere (cfr Atti 3, 42-47; 4, 32-35; 6, 1-6).12 Cfr le nostre riflessioni sulla Gratitudine e sulla Memoria collettiva nella rubrica «Bibbia aperta» dei numeri di gennaio 2012 e di settembre-ottobre 2011.13 Cfr Decime, «Bibbia aperta» di maggio 2011.14 È evidente che una riflessione approfondita sulla realtà di un Gesù che si dona come cibo ai suoi discepoli e a "tutti" (per voi e per tutti) richiederebbe uno spazio ben più ampio di questi brevissimi accenni. Per un primo ulteriore studio si può vedere la riflessione di Paolo in 1 Corinzi 11 e quella di Giovanni 6.15 Kofi Annan, nella sua commemorazione del 2005, lo ha definito «insuperato modello di segretario generale dell'ONU che ha fatto del proprio servizio un "lavoro"», proprio per usare l'espressione così cara a Hammarskjöld: «Ho fatto solamente il mio lavoro». Egli ha teorizzato la necessità di questa attitudine in celebri discorsi tra cui: «The International Civil Servant in Law and Fact: Lecture delivered in Congregation at Oxford University, May 30, 1961», in The Public Papers of the Secretaries General of the United Nations, vol. IV (1958-1961), eds. Andrew Cordier and Wilder Foote, Columbia University Press, New York 1962, 329-353, e «The Element of Privacy in Peacemaking: Address at Ohio University, February 5, 1958», ivi, 24-30.16 HAMMARSKJÖLD D., Tracce di Cammino, Qiqajon, Magnano 2005, 132.
Solo chi ha molto navigato e ha attraversato i mari in pace e in tempesta conosce la gioia che il mare infonde nell'animo dei naviganti. Itaca per sempre - Luigi Malerba ♡ ♡ ♡ ♡ ♡ La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. Leonardo da Vinci
lunedì 30 gennaio 2012
Equità e Convivenza & Mangiare e dar da mangiare
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