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Quattro amici davanti a un boccale di birra. Non è così, forse, che ci si immagina uno dei circoli letterari più famosi dell’Inghilterra del Novecento. Eppure è proprio davanti a una birra, e per la precisione nel pub “Eagle and Child” di Oxford, che nacquero alcuni dei libri più belli del secolo scorso, scritti da quel gruppo di amici che si facevano scherzosamente chiamare Inklings, un nome completamente inventato che rimanda all’inchiostro e a chi ne fa uso. Se c’era una virtù che C.S. Lewis (ma chi lo conosceva bene lo chiamava Jack) possedeva in abbondanza era la capacità di circondarsi di amici, come J.R.R. Tolkien e Charles Williams, con cui discutere, spesso molto animatamente, di letteratura, di filosofia, di morale e religione, ma anche leggere i primi capitoli delle opere che ciascuno stava scrivendo. Anche di amicizia tratta Quattro amori di Lewis, di cui la Jaca Book ha annunciato per questo mese l’uscita della ristampa. Pubblicato in Italia per la prima volta nel maggio 1982, dopo una seconda edizione nel 1990, il libro era ormai difficilmente reperibile.
L’amore si fa in quattro
Scritto nel 1960 e giunto in inglese alla ventesima ristampa, in questo libretto Lewis prende in esame l’amicizia, vivisezionando con la solita freddezza scientifica quello che chiama il “sentimento più innaturale dell’uomo”, non fa altro che ripercorrere il rapporto d’amicizia con i suoi più famosi compagni di bevute. Suo grande merito è l’avere messo in luce che il generico termine love (come l’italiano “amore”, derivato ovviamente dal latino amor, -oris) corrisponde a quattro ben distinte parole greche, che indicano altrettanti tipi di amore. Èros, “passionalità”: l’amore che causa un profondo sconvolgimento emotivo, connesso con il páthos, il desiderio sensuale e il bisogno, generalmente (ma non necessariamente) originato dall’attrazione fisica; Philìa, “amicizia”: amore disinteressato, che esclude il bisogno e (in genere) la componente sessuale, si basa sulla stima reciproca e consiste nel volere il bene dell’altro, senza secondi fini; Storghè, “affetto”: amore “naturale”, che si applica quasi esclusivamente all’affetto che si ha per i propri familiari, tipicamente genitori verso i figli e viceversa; differisce dalla philìa soprattutto perché più istintivo e non basato sulla stima (si può amare una madre o un figlio anche senza stimarli); Agàpe, “fratellanza”: l’amore verso il prossimo che unisce (o dovrebbe unire) ed affratella tutti gli esseri umani, creando fra di loro un legame profondo e indissolubile, contrapposto all’attrazione passeggera legata all’èros. Egli vede ciascuno dei “quattro amori” emergere nell’altro, ci mostra come uno possa anche trasformarsi l’uno dall’altro, ma non perde mai di vista la reale e necessaria differenziazione tra loro. Considerata una delle sue opere più belle, in essa Lewis scrive pagine di straordinaria profondità sull’amicizia. Non c’è dubbio che questa profondità Lewis l’avesse sperimentata personalmente.
Storia di un’amicizia
Proprio un passo dei Quattro Amori sull’amicizia è molto significativo perché Lewis cita esplicitamente Williams e Tolkien (pag. 62): «Chi non riesce a concepire l’amicizia come un affetto reale, ma la considera soltanto un travestimento o una rielaborazione dell’eros, fa nascere in noi il sospetto che non abbia mai avuto un amico. Noi, invece, sappiamo bene che si può provare sia attrazione e amicizia per una stessa persona, ma sappiamo anche che, in un certo senso, niente è più lontano dall’amicizia di una passione amorosa. Gli innamorati si interrogano continuamente sul loro amore, gli amici non parlano quasi mai della loro amicizia. Gli innamorati stanno quasi tutto il tempo faccia a faccia, assorti nella contemplazione l’uno dell’altro; gli amici fianco a fianco, assorti in qualche interesse comune. (…) Lamb [Charles, autore vittoriano] dice, non ricordo con precisione a che proposito, che se di tre amici, A, B e C, A dovesse morire, allora B perderebbe non soltanto A, ma anche la parte di A in C, mentre C perderebbe non soltanto A, ma anche la la parte di A in B. In ciascuno dei miei amici c’è qualcosa che solo un altro amico sa mettere pienamente in luce. Da solo non ho la grandezza sufficiente per stimolarlo ad agire al meglio delle sue possibilità. Ho bisogno di altre luci, a sostegno della mia, per illuminare tutte le sue sfaccettature. Ora che Charles [Williams] è morto, non vedrò più le reazioni di Ronald [Tolkien] a una tipica battuta di Charles. Non è affatto vero che ora che Charles se ne è andato, Ronald è più mio, in quanto è tutto per me. La verità semmai è che ora ho anche meno di Ronald». Questa è la concezione dell’amicizia alla base degli Inklings. L’idea della partecipazione o compartecipazione (simile al concetto di “co-inerenza” di cui parla Williams in molte sue opere). Gli Inklings erano un circolo di amici, in cui la letteratura era il collante di una relazione, che andava aldilà della letteratura, ma, allo stesso tempo, la rinforzava. Facevano della loro scrittura una parte della loro amicizia e dell’amicizia il collante della loro operazione letteraria. Questa è la novità e la grandezza degli Inklings: l’uno era compartecipe della grandezza dell’altro.
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