Il cardinale e il filosofoDialogo su fede e ragionedi Gianfranco Ravasi, Luc Ferry |
Così la bellezza sposa fede e ragione
Dialogo tra Luc Ferry (*) e il cardinal Gianfranco Ravasi
LUC FERRY: Lei dice che la vera teologia cammina su uno spartiacque, fra due abissi, due vallate, in cui non bisogna cadere: da un lato, l’approccio unicamente storico, fattuale, razionale, filosofico; dall’altro un misticismo irrazionalista, un «entusiasmo mistico», una Schwärmerei per usare un termine del romanticismo tedesco. Occorre dunque mantenersi sul crinale, e questo implica insieme sia la ragione e la storia fattuale, sia un approccio trascendente. Solo in questo modo si può essere in armonia con l’oggetto principale della teologia, Gesù, che è a un tempo un essere storico, ma anche qualcuno di cui non si può comprendere il messaggio se non si possiede già la fede. Unicamente a tale condizione ci sarà armonia fra il metodo teologico e l’oggetto della teologia. In primo luogo occorre la fede, e poi in seguito si cercherà di comprendere attraverso la ragione e la storia, si potranno reperire e analizzare i fatti storici, interpretare le parabole, riflettere e così via.
La domanda che volevo porle per cominciare il nostro dialogo è: perché ha scelto questo approccio, visto che si tratta di indirizzarsi a dei non credenti, nel quadro del Cortile dei gentili? Che cosa si aspetta che comprendano di preciso, dato che ci vuole in primo luogo la fede per comprendere, e che, per definizione, noi non credenti non l’abbiamo?
GIANFRANCO RAVASI:L’amare precede il comprendere. Questo assunto può essere l’avvio per esplicitare il mio pensiero sulla riflessione teologica, che si rifà a uno schema che parte da Pascal, il quale diceva che si comprendono le cose che si amano. Tale concezione può essere ampliata fino a lambire i confini dell’antropologia, cioè dell’esperienza comune a ogni persona umana. La coscienza primaria della persona è simbolica, è segnata da un moto di adesione affettiva a un universo che si spalanca davanti allo sguardo. Il bambino, per esempio, ha come prima conoscenza la visione d’insieme, in seguito imparerà a distinguere secondo i canoni dell’analisi. Allo stesso modo procede il poeta, il quale non analizza i sentimenti, i volti, gli sguardi, le passioni, le vicende, ma li rappresenta in termini sintetici, a volte fulminanti, con il bagliore accecante di un lampo.
L’itinerario di fede autentico è, per certi aspetti, parallelo al percorso estetico; perciò il punto di partenza è credere/amare, con un esordio di tipo simbolico rappresentativo. In tale orizzonte, per usare il binomio a cui lei faceva cenno, possiamo affermare: credere, e poi cominciare a comprendere. A questo punto si passa al secondo momento, cioè all’analisi in senso stretto. Questa ricerca, però, non può essere condotta attraverso un unico canale, un’unica via di conoscenza. Infatti, lo statuto epistemologico proprio della teologia necessita di almeno due percorsi paralleli. Il primo comprende la documentazione storica e l’analisi razionale. La figura di Gesù, per esempio, deve essere studiata prendendo in considerazione la verifica storico-critica ma anche la dimensione psicologica, con il contributo della psicoanalisi, con i suoi criteri di indagine, oppure dell’antropologia culturale, e non soltanto con la pur necessaria analisi razionale intesa secondo rigidi canoni filosofici o storici.
Il secondo livello lo definirei, pur con qualche precisazione, “mistico”, “teologico” in senso stretto. Si tratta di un canone più specifico, che tiene conto della dimensione “metarazionale”, che non significa semplicemente affermare dei principi o delle idee vaghe, inconsistenti, ma riconoscere che esiste un altro ordine conoscitivo con un suo statuto metodologico e una sua coerenza intrinseca. Questo modello di conoscenza, per esempio, considera la Bibbia anche come parola trascendente, che supera i rigorosi principi di un linguaggio letterario, storico-critico. Può aiutarci a entrare in questa seconda dimensione il libro di Giobbe, che vede da una parte i tre amici Zofar, Bildad ed Elifaz, ai quali si aggiunge Elihu, che intessono i loro dialoghi su una trama di razionalità pura, senza aprirsi alla trascendenza. In un primo momento Giobbe polemizza con gli amici affrontandoli sullo stesso terreno del raziocinio, ma alla fine apre un altro orizzonte conoscitivo, che gli consente di affermare, riguardo a Dio: «Io ti conoscevo per sentito dire [è la via razionale] ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5).
LUC FERRY: Lei è partito dai bambini e dai poeti, perché in fondo ci sono due esperienze che i non credenti già conoscono e che possono far loro comprendere che cosa sia l’esperienza della fede, esperienza che, secondo lei, non è irrazionale ma metarazionale. Si tratta dell’esperienza dell’amore, il primo sentimento che i bambini scoprono, e di quella del bello. In entrambe si ritrovano, se ho afferrato bene, le due componenti della fede, il che consente anche ai non credenti di capire. In primo luogo c’è il rapporto con la trascendenza, con ciò che è globale, che ci oltrepassa: l’amore ci fa uscire da noi stessi, e l’uscita da sé è già una problematica teologica; e anche nel bello si fa l’esperienza della trascendenza, poiché la bellezza ci viene dall’esterno, ci “cade” addosso, ci avviluppa, ed è quindi “globale”. Una seconda analogia con la fede sta nel fatto che l’esperienza dell’amore e quella della bellezza non sono poi così irrazionali; c’è una razionalità del rapporto, della costruzione amorosa, benché essa non rientri, a voler essere precisi, nella scienza, cioè nella pura razionalità storico-scientifico-filosofica.
E posso aggiungere che i primi teorici dell’estetica – come Alexander Baumgarten parlavano appunto di analogon rationis per descrivere l’esperienza del bello. Baumgarten intendeva dire che, pur coinvolgendo i sensi, tale esperienza non è pero irrazionale, ma piuttosto analoga alla razionalità. In effetti, un grande direttore d’orchestra, Sergiu Celibidache, ha appunto elaborato una “fenomenologia” della musica, una teoria dell’interpretazione musicale basata sull’idea che ci sia una “logica del sensibile”, una logica della frase musicale; per esempio, dei momenti più forti e altri più deboli, degli impatti e delle risoluzioni e così via, che fanno sì che non si possa interpretare un’opera a casaccio. C’è qualcosa come una logica del succedersi dei suoni, un po’ come quando si racconta una storia ai bambini; come se si trattasse, per dirla con Mendelssohn, di una “romanza senza parole”. Un corale di Bach è, con ogni evidenza, una preghiera; un preludio di Chopin ha un inizio, uno sviluppo e una fine, ci sono note disarmoniche risolte nell’armonia, passioni tristi, nostalgiche, slanci del cuore; in breve, tutta una logica del sensibile, un analogon rationis; in fondo, sia nella logica dell’amore sia in quella del bello si può riscontrare un’analogia con il modo in cui lei descrive la “logica” della fede. Perciò il non credente potrebbe comprendere la fede, almeno per analogia, il che è esattamente quello che pensava san Tommaso. E questo che intendeva dire?
GIANFRANCO RAVASI: Vorrei aggiungere due esempi concreti. Il regista polacco Kieslowski ha realizzato dieci film sul Decalogo. Il primo episodio ha per protagonista un bambino, Pawel, figlio di una coppia separata. Quando la zia, molto credente, a differenza del padre che è ateo, vuole spiegare al nipote chi è Dio, chiama a sé il bambino e gli chiede: «Che cosa provi quando io ti abbraccio?». Pawel non sa rispondere. Allora la donna continua: «Ecco, questo è Dio».
L’altro esempio fa riferimento a Bach. Una volta il direttore d’orchestra Riccardo Muti mi ha fatto esaminare, con il suo aiuto, una partitura di Bach, della durata di circa quindici minuti. Scoprii un vertice musicale, un tema progressivo, poi l’ingresso di un tema minore, così da dare uno svolgimento diagrammatico, una scala sequenziale dell’armonia. Dopo circa sette minuti, ritornava ancora il diagramma precedente, ma con andamento contrario. Ascoltando quella che sembrava una melodia che fluiva spontanea come frutto solo di intuizione estetica, si scopriva invece, dal punto di vista tecnico, che essa si rivelava come espressione di altissima geometria e di finissima razionalità. Cioran sintetizzava la questione in modo folgorante: «Perché voi teologi perdete così tanto tempo per dimostrare l’esistenza di Dio? C’è già Bach che lo fa anche per noi non credenti». E aggiungeva: «Dopo che io ho ascoltato la Messa in si minore, Dio deve esistere». La prova dell’esistenza di Dio era affidata sia al rigore tecnico di quell’armonia sia alla sua logica “trascendente”.
LUC FERRY: Tutti i musicisti che conosco sono, se non credenti, perlomeno preda di una specie di dimensione mistica, di rapporto con la trascendenza. Non possono lottare contro questa tentazione perché c’è una tale logica della sensibilità musicale che ci si trova in un’altra sfera: non è né sensibilità pura né razionalità pura, ma appunto quello spartiacque che lei evocava, un crinale che mette forzatamente in contatto con la trascendenza, non fosse altro che con quella della bellezza di un’opera di Bach che ci “sorpassa” e ci “ingloba”. Tuttavia, per me che non sono credente, Bach esiste nel reale, nel mondo empirico, tanto quanto mia moglie: c’è un’incarnazione della trascendenza della bellezza e dell’amore, un supporto empirico. Quando una partitura di Bach viene suonata, le vibrazioni sonore raggiungono il corpo e lo stesso accade nell’amore umano, il che dà alla trascendenza una dimensione empirica.
Per un non credente risulta assai problematica l’idea che Benedetto XVI espone nella sua prima enciclica, Deus caritas est. Quella, cioè, di un amore quasi erotico di Dio. Dio è anche eros, dice Benedetto, come nell’immagine che lei ha usato poco fa, di qualcuno che prende fra le braccia un bambino.
Avvenire
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(*): Luc Ferry (Colombes, 1951), discendente di Jules Ferry, il fondatore della scuola pubblica francese. Filosofo, già ministro della Gioventù, dell'Educazione nazionale e della Ricerca nel governo Raffarin, dal 2002 al 2004, è docente di Filosofi a presso l'Università Parigi VI-Jussieu. Sposato e padre di tre fi glie, ha scritto numerosi saggi, tradotti in venticinque lingue, tra cui Homo Aestheticus. L'invenzione del gusto nell'età della democrazia (1991), Il nuovo ordine ecologico. L'albero, l'animale e l'uomo (1994, Prix Médicis), Al posto di Dio (1997) e, tradotto da Garzanti, Che cos'è l'uomo? Sui fondamenti della biologia e della fi losofia (2002, con Jean-Didier Vincent), La saggezza dei miti (2010).
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