Come ai tempi di Elia
Per trasmettere la fede nell’età dell’effimero.
(Walter Kasper) La trasmissione della fede, specialmente alle nuove generazioni, appare oggi una sfida tutt’altro che facile, così inizia il nuovo libro di Bruno Forte La trasmissione della fede (Brescia, Queriniana, 2014, pagine 256, euro 18). Ci sono già tantissime pubblicazioni su questo tema, fondamentale per Chiesa e divenuto particolarmente urgente nel contesto della nuova evangelizzazione, a cui anche il prossimo Sinodo sulla famiglia è dedicato. Però il libro di Bruno Forte offre un contributo particolare. Da teologo egli va alle radici del problema e presenta un approfondimento teologico e filosofico arricchito da bellissimi testi letterari molto stimolanti. Perché per lui c’è anche la via della bellezza per la trasmissione della fede. Già nell’introduzione l’arcivescovo spiega la situazione attuale, dove nel contesto culturale il fruibile e l’immediato appaiono importanti e l’indifferenza alle grandi domande è diffusa. L’effimero sembra prevalere sull’intero orizzonte e l’eterno impallidire davanti all’attimo che fugge. Come ai tempi del profeta Elia la vera tentazione dell’uomo non è l’ateismo ma l’idolatria. Così l’esperienza di questo profeta di stampo arcaico e il suo cammino di fede diventano per così dire il filo conduttore di tutto il libro.
All’inizio Forte spiega la fede come l’esperienza di un incontro, la cui trasmissione è inseparabile dalla kènosi e dallo splendore dello Spirito. Poi il libro parla dell’educazione alla fede, la professione, la celebrazione e la vita della fede, dove parla inoltre delle donne come protagoniste della fede e dei giovani come testimoni della speranza, della famiglia come ambito vitale della trasmissione della fede. Particolarmente interessanti sono i capitoli sulla fede in dialogo, sulla fede in cammino e il sorprendente capitolo conclusivo sul sorriso di Dio. Segue ancora un’appendice su fede e annuncio, dall’enciclica Lumen fidei all’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
La ricchezza di questi capitoli è difficile da riassumere. Pertanto riferiamo solo alcuni aspetti particolarmente interessanti dal capitolo dedicato al dialogo con chi non crede, un titolo che ricorda immediatamente il famoso titolo di un libro del compianto cardinale Carlo Maria Martini, a cui Bruno Forte si è sempre sentito molto vicino.
Secondo Forte la fede non è mai scontata; il credente non ha una comprensione totalizzante, luminosa su tutto, ma vive in una sorta di pensiero aurorale, carico di attesa. Però alla creatura, che nel più profondo del suo essere è desiderio d’infinito, Dio viene incontro come Dio che ha tempo per l’uomo. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento, è la fede. E la fede è lotta, agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla.
Diversamente da ogni posizione ideologica, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, la lotta per credere, sperare e amare. Se però il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo — certo non l’ateo volgare stolto o indifferente — il non credente pensoso, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, la lotta di cominciare a non credere? Il credente responsabile si sentirà stimolato dal non credente, purché non sia chi a buon mercato voglia vivere etsi Deus non daretur, ma chi sia pronto a rischiare veluti Deus daretur. «Su questi presupposti — così finisce il capitolo — il dialogo fra i due sarà un comune servizio alla Verità, che entrambi chiama, e proprio per questo una testimonianza condivisa della salutare Trascendenza da cui tutto è illuminato, agli occhi di chi vuole cercare con umile amore, pur nella notte del mondo».
In questo contesto Forte cita san Bernardo di Chiaravalle: «L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata, è più amara quando la Chiesa è divisa, ma è amarissima quando la Chiesa se ne sta tranquilla e in pace». Forse quest’affermazione sarà un conforto per chi cammina tribolato e inquinato da una situazione poco pacifica, dove la trasmissione della fede specialmente alle nuove generazioni attraversa difficoltà. Forse proprio questa situazione è un kairòs, cioè un’ora di grazia in cui Dio ci viene incontro per purificare e approfondire la nostra fede spesso troppo paurosa perché paradossalmente spesso troppo sicura di se stessa.
L'Osservatore Romano
Per trasmettere la fede nell’età dell’effimero.L'Osservatore Romano
(Walter Kasper) La trasmissione della fede, specialmente alle nuove generazioni, appare oggi una sfida tutt’altro che facile, così inizia il nuovo libro di Bruno Forte La trasmissione della fede (Brescia, Queriniana, 2014, pagine 256, euro 18). Ci sono già tantissime pubblicazioni su questo tema, fondamentale per Chiesa e divenuto particolarmente urgente nel contesto della nuova evangelizzazione, a cui anche il prossimo Sinodo sulla famiglia è dedicato. Però il libro di Bruno Forte offre un contributo particolare. Da teologo egli va alle radici del problema e presenta un approfondimento teologico e filosofico arricchito da bellissimi testi letterari molto stimolanti. Perché per lui c’è anche la via della bellezza per la trasmissione della fede. Già nell’introduzione l’arcivescovo spiega la situazione attuale, dove nel contesto culturale il fruibile e l’immediato appaiono importanti e l’indifferenza alle grandi domande è diffusa. L’effimero sembra prevalere sull’intero orizzonte e l’eterno impallidire davanti all’attimo che fugge. Come ai tempi del profeta Elia la vera tentazione dell’uomo non è l’ateismo ma l’idolatria. Così l’esperienza di questo profeta di stampo arcaico e il suo cammino di fede diventano per così dire il filo conduttore di tutto il libro.
All’inizio Forte spiega la fede come l’esperienza di un incontro, la cui trasmissione è inseparabile dalla kènosi e dallo splendore dello Spirito. Poi il libro parla dell’educazione alla fede, la professione, la celebrazione e la vita della fede, dove parla inoltre delle donne come protagoniste della fede e dei giovani come testimoni della speranza, della famiglia come ambito vitale della trasmissione della fede. Particolarmente interessanti sono i capitoli sulla fede in dialogo, sulla fede in cammino e il sorprendente capitolo conclusivo sul sorriso di Dio. Segue ancora un’appendice su fede e annuncio, dall’enciclica Lumen fidei all’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
La ricchezza di questi capitoli è difficile da riassumere. Pertanto riferiamo solo alcuni aspetti particolarmente interessanti dal capitolo dedicato al dialogo con chi non crede, un titolo che ricorda immediatamente il famoso titolo di un libro del compianto cardinale Carlo Maria Martini, a cui Bruno Forte si è sempre sentito molto vicino.
Secondo Forte la fede non è mai scontata; il credente non ha una comprensione totalizzante, luminosa su tutto, ma vive in una sorta di pensiero aurorale, carico di attesa. Però alla creatura, che nel più profondo del suo essere è desiderio d’infinito, Dio viene incontro come Dio che ha tempo per l’uomo. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento, è la fede. E la fede è lotta, agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla.
Diversamente da ogni posizione ideologica, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, la lotta per credere, sperare e amare. Se però il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo — certo non l’ateo volgare stolto o indifferente — il non credente pensoso, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, la lotta di cominciare a non credere? Il credente responsabile si sentirà stimolato dal non credente, purché non sia chi a buon mercato voglia vivere etsi Deus non daretur, ma chi sia pronto a rischiare veluti Deus daretur. «Su questi presupposti — così finisce il capitolo — il dialogo fra i due sarà un comune servizio alla Verità, che entrambi chiama, e proprio per questo una testimonianza condivisa della salutare Trascendenza da cui tutto è illuminato, agli occhi di chi vuole cercare con umile amore, pur nella notte del mondo».
In questo contesto Forte cita san Bernardo di Chiaravalle: «L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata, è più amara quando la Chiesa è divisa, ma è amarissima quando la Chiesa se ne sta tranquilla e in pace». Forse quest’affermazione sarà un conforto per chi cammina tribolato e inquinato da una situazione poco pacifica, dove la trasmissione della fede specialmente alle nuove generazioni attraversa difficoltà. Forse proprio questa situazione è un kairòs, cioè un’ora di grazia in cui Dio ci viene incontro per purificare e approfondire la nostra fede spesso troppo paurosa perché paradossalmente spesso troppo sicura di se stessa.
Nacque nel 1915 in Francia dal neozelandese Owen e dalla statunitense Ruth Jenkins, entrambi pittori; a causa dello scoppio della prima guerra mondiale, nel 1916 si trasferì con la famiglia nella casa dei nonni materni a Douglaston, vicino a New York: dopo la perdita della madre, morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre prima alle isole Bermuda, e nel 1925 di nuovo in Francia, a Saint-Antonin. Nel 1926 inizia a Montauban gli studi liceali, che completa nel 1932 ad Oakham, in Inghilterra: nel frattempo perde anche il padre, morto di tumore al cervello nel 1931, ma grazie ad una borsa di studio riesce comunque ad iscriversi al Clare College di Cambridge, dove studia lingue e letterature straniere. Nel 1933 intraprende un viaggio a Roma, dove viene colpito particolarmente dalle basiliche paleocristiane, e, nel Santuario delle Tre Fontane, inizia a maturare l'idea di convertirsi al cattolicesimo. Nel 1934 abbandona Cambridge, dove la sua condotta disordinata e dissoluta gli aveva irrimediabilmente compromesso la prosecuzione degli studi: completa la sua carriera universitaria alla Columbia University di New York, dove consegue il titolo di Bachelor of Arts nel 1938 e, nel 1939, il Master of Arts discutendo una tesi sulla poesia di William Blake. Intanto, grazie soprattutto a docenti come il cattolico Dan Walsh, che gli fa scoprire l'aspetto sociale del Vangelo, completa il suo percorso di conversione e, il 16 novembre 1938, viene accolto nella Chiesa Cattolica nella parrocchia newyorchese del Corpus Christi.Dopo la laurea, per qualche anno si dedica all'insegnamento della letteratura inglese presso la Columbia University e poi presso la St. Bonaventure University di Allegany, gestita dai frati francescani. In seguito a un ritiro sprituale presso l'Abbazia Trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nei pressi di Bardstown, nel Kentucky, rimane profondamente colpito dalla vita di solitudine e preghiera dei monaci e matura la decisione di entrarvi: il 10 dicembre del 1941 vi viene ammesso come postulante e il 19 marzo 1944 emise la sua prima professione religiosa, assumendo il nome di Louis; il 19 marzo 1947 pronunciò i voti solenni, diventando monaco; nel frattempo si dedicò agli studi teologici e il 26 maggio 1949 venne ordinato sacerdote.
In quegli anni perde anche suo fratello John Paul, caduto in combattimento e disperso nel Mare del Nord durante la II Guerra Mondiale: un evento che contribuì molto a far maturare in lui una profonda avversione nei confronti delle guerre che lo porterà a diventare uno dei principali punti di riferimento del movimento pacifista degli anni '60. Si schierò apertamente anche a sostegno del movimento non-violento per i diritti civili, che egli definì come “il più grande esempio di fede cristiana attiva nella storia sociale degli Stati Uniti”.Durante la guerra del Vietnam, Merton maturò un profondo interesse per il monachesimo buddista e intraprese numerosi viaggi in oriente, incontrando anche il Dalai Lama che per lui ebbe modo di manifestare profonda stima: durante uno di questi viaggi trovò la morte, folgorato a causa di un ventilatore difettoso.
Thomas Merton - La saggezza del deserto
La saggezza del deserto. Detti dei primi eremiti cristiani
Gratis scarica ] La saggezza |
Fra i libri che scrisse, La saggezza del deserto è uno di quelli che Thomas Merton amò di più, probabilmente perché sperava di passare gli ultimi anni della sua vita da eremita (morì invece improvvisamente nel corso di un incontro tra monaci cristiani e orientali a Bangkok, nel 1968). Il tono personale della scrittura, così come la sua tipica combinazione di devozione e ironia, rivelano quanto profondamente si identificasse con i leggendari autori di questi detti e parabole, quei Padri cristiani del IV secolo che vissero in solitudine e contemplazione nei deserti dell’Egitto, della Palestina, della Persia e dell’Arabia.
Quei monaci abbandonarono le città perché erano convinti del carattere strettamente individuale della salvezza, in un mondo che ai loro occhi era come una nave sul punto di affondare. Andarono nel deserto per essere sé stessi e per dimenticare le seduzioni e gli inganni che li allontanavano da questo obiettivo. Condussero una vita di fatiche e di digiuno, di carità e di preghiera. Non cercavano il consenso dei loro contemporanei e neppure volevano sfidarne il dissenso, perché le opinioni degli altri avevano smesso di avere importanza per loro. Distillavano per sé una saggezza pratica e senza pretese, al tempo stesso primitiva e senza età, una saggezza di cui la nostra epoca ha un disperato bisogno.
chi è T. Merton ((1915-1968): una biografia)
In Onore di Thomas Merton (Padre Maria Louis) |
"..I dialoghi teologici intrapresi da molte Comunioni Cristiane Mondiali sono caratterizzati dall'impegno ad andare oltre le cose che dividono, verso l'unità in Cristo che noi cerchiamo. Per quanto il cammino possa apparire scoraggiante, non dobbiamo perdere di vista l'obiettivo finale: la piena e visibile comunione in Cristo e nella Chiesa.." |
Thomas Merton
NOTA DELL’AUTORE
Coloro che sono stati abbastanza indulgenti da trovare in Semi di contemplazione e
in Nessun uomo é un’isola qualche cosa che li abbia interessati, riusciranno forse a
trarre un po’ di gioia da queste riflessioni, il merito delle quali, se si può parlare di
qualche valore, sta nell’enunciare qua e là alcune delle cose che l’autore
desiderava dire a se stesso e a coloro che si sentissero inclini a condividere le sue
idee. Ciò vale specialmente per la seconda parte, quella sull’»Amore della
solitudine». Chi conosce le pagine entusiasmanti di Max Picard nel Mondo del
silenzio riconoscerà in parecchie di queste meditazioni l’ispirazione del filosofo
svizzero