La memoria del cuore elimina i ricordi brutti ed esalta quelli belli, e grazie a questo artificio riusciamo a sopportare il passato.
dal
La morte di Gabriel García Márquez.
Cent’anni e poco più
(Claudio Toscani) Se molti uomini hanno una doppia vita, alcuni scrittori hanno una doppia morte: una anagrafica e una letteraria. Gabriel García Márquez, nato ad Aracataca in Colombia nel 1928, beneficerà senza dubbio di un perdurante ricordo dopo la sua morte (a Città del Messico il 17 aprile) perché nonostante abbia perso nerbo e riserbo negli ultimi anni della sua vita, egli resterà pur sempre il fulgido autore di quel mitico Cien años de soledad (1967), saga e simbolo familiari e plurigenerazionali, autoctoni e universali. Saga e simbolo che segnarono, tra tempo, memoria e magia, il successo di un autore nuovo e, tra storia, leggenda e metafora, quello d’una narrativa secolarmente in ombra.
Nasce nella provincia colombiana di Santa María che si affaccia all’Atlantico, García Márquez, e passa la sua infanzia in una vecchia casa ascoltando le fiabe della nonna (una delle tante, antiche e maieutiche “madri” d’autore). Nel 1940 studia in un collegio di gesuiti a Bogotá, dove trascorre anni senza brillare (né ricordare). Neanche l’università risulta decisiva, benché lo spinga alla scrittura dei suoi primi racconti. Il lavoro gli verrà dai giornali, e soprattutto da «El Espectador», dove pubblica centinaia di recensioni. Gira il mondo come reporter ed è anche a Roma, per seguire la morte di Pio XII, che lo “deluderà” restando in vita.
Se con i primi racconti procede bene, lo fa con i propri maestri nelle ossa, e niente di colombiano alle spalle. Infatti, è un “inventario di morti” quello che García Márquez definisce relativamente alla tradizione del proprio Paese, salvo per le categorie del barocco e del meraviglioso. Qui sta la fonte di ciò che di contradditorio c’è in lui, perché in lui si è formato un invaso culturale tra più mondi, dentro il quale si muovono l’universo Petrarca e il siglo de oro, Kafka e Graham Greene, Camus e Neruda. E se di quando in quando, nella sua pagina, si scontrano Norman Mailer e Truman Capote — come in Crónica de una muerte anunciada, ad esempio — a monte, e nella mente, già si erano fusi in lui, anche se non del tutto pacificamente, materiali di provenienza faulkneriana ed hemingwayana.
Mentre è a Roma, García Márquez si iscrive ai corsi di regia cinematografica al Centro sperimentale capitolino. E quando il dittatore colombiano Rojas Pinilla fa chiudere «El Espectador», García Márquez ripara a Parigi, vivendo di espedienti. Ma intanto scrive, ponendo se stesso di fronte alla sua vocazione di narratore.
Scrive ma non impegna più di tanto il panorama letterario, tant’è che solo all’irrompervi, nel 1967 di Cent’anni di solitudine si determina l’operazione di recupero dei suoi precedenti e tutt’altro che trascurabili libri: da La hojarasca (1955) a El coronel no tiene quien le escriba(1961); da Los funerales de la Mamá Grande (1962) a La mala hora (dello stesso anno). Non solo, ma si mette anche in moto per lui una imponente industria culturale alla ricerca di tutta una letteratura perduta o quasi: la sudamericana, appunto, che ha in quegli anni insperati boom editoriali, diramata influenza e, diciamo pure, effetto-moda su autori di tutto il mondo.
García Márquez stesso ha palesato qualche sforzo per uscire dallo stato di simbiosi con questa sua opera, quando al conferimento del Nobel (1982) — secondo più giovane destinatario dell’iperboreo alloro svedese dopo Camus — disse: «La cosa peggiore che può capitare a un uomo che non ha la vocazione per il successo letterario, in un continente che non era preparato ad avere scrittori di successo, è che i suoi libri si vendano come hot-dog. Detesto trasformarmi in uno spettacolo pubblico».
Dichiarazione buona per quegli anni più che per i suoi ultimi, giacché dopo i meritati successi di El otoño del patriarca (1975), e di Crónica de una muerte anunciada (1981), García Márquez pare inseguire quel successo che lo sorprese e lo inquietò, ma che non seppe tenere in pugno con altrettanta saldezza inventiva e tematica allorché la sua bibliografia creativa venne annoverando, nel tempo, El amor en los tiempos del cólera (1985), El general en su laberinto (1989), Doce cuentos peregrinos(1992), Del amor y otros demonios (1994), per finire ai volumi di raccolte cronistiche, o giornalistiche (in prevalenza recensioni), francamente sovraesposte dai suoi editori rispetto alla loro intrinseca validità.
E c’è anche il García Márquez inatteso, quando proclama che in America latina e nei Caraibi gli artisti faticano a rendersi credibili, tra fantasia e immaginazione, perché l’una è una frottola e l’altra solo è creazione artistica. Sicché la lente di un “realismo magico” di bontempelliana memoria — usata da noi a suo riguardo — non è corretta, essendo lui inventivo, sì, ma magico e mitico: creatore della realtà storica dei miti, della loro intersezione con la contemporaneità, della loro archetipa presenza nelle infinite allegorie della letteratura, della loro rediviva remotezza in forma di istanze formative e perpetue dell’universale conoscenza. Proprio perché eterna e moderna insieme è l’etica dei grandi nodi esistenziali dell’umanità: l’amore, l’onore, la morte. È ciò che García Márquez, fino a un certo punto almeno, esteticamente inscena ma anche moralmente rappresenta. Ed è ciò che lo scrittore, fino a un certo punto almeno, oltre l’umida asma dei suoi tropici ridondanti di gesta e foreste, e lungo illimitati chilometri d’oceano profilato di rena, fa balzare alto su un orizzonte umano di stoiche fatalità e di sopraffatti eroismi. Non illuminati da redenzione alcuna. Ma che sopra il gioco del caso, della ventura e sopra le inesauste litanie del sangue e del sesso e di tant’altre dionisiache irruzioni dei sensi, usa la parola per rendere reale la vita e usa la metafora come radice della parola, non come tormento denotativo ma per impiantarvi i fili del simbolo: quello, per intenderci, che volta a volta è lingua, arte, religione.
La biblica fluvialità dei Cent’anni, l’iperbolica tela dai mille personaggi che accampano miti preistorici, storie leggendarie e leggende storiche, apocalissi finali e ancestrali ipocondrie, fatali attitudini (l’incesto, per esempio) e labirinti della razza, dell’etnia, del rito e del tabù: il grande romanzo, insomma, il moderno ed eterno romanzo dell’America Latina si impone, a quelle meridionali latitudini, come l’epico e ariostesco e rabelaisiano frutto del senso della vita. Per l’uomo del Sud in ogni Sud del mondo, ma anche per ogni altro uomo che sia visto e narrato sullo sfondo tragico di un divenire di decadenza e di morte, nel cerchio di un incessante calendario di giorni che dà al presente, e persino al futuro, la sua prospettiva di passato. Una solitudine totale, dove nessuna delle millenarie e pagane divinità dei luoghi lascia intravvedere una diversa latitudine religiosa e dove, ciò nonostante, religiosa è la geologia temporale stessa che accatasta epoca su epoca e sbocca in frangenti che non sono più storici, né folclorici, né di numi né di costumi, ma di primordiale sacralità della creazione.
Dopo i Cent’anni, però, il grande García Márquez diventò per troppi versi un ricordo. Ricordo di incommensurabili e telluriche pagine, emblematiche per la letteratura di uno e di tutti i popoli, di uno e di tutti i tempi e Paesi, oggetti e soggetti di arte e di poesia.
«Mi viene il dubbio — disse un po’ imbarazzato nel 1976 — che agli editori non interessi tanto il merito del testo quanto il nome con il quale è firmato e che, molto mio malgrado, è spesso quello di uno scrittore di moda».
Ebbene, uno scrittore di moda aveva voluto diventarlo lui stesso. Con Cronaca, per esempio, cascame ritagliato dai Cent’anni, dove null’altro merita l’onore delle armi se non la scorrevolezza del testo, la tramatura del destino del protagonista di cui nulla e nessuno riescono a impedire l’assassinio. Con lo stesso Autunno del patriarca, venduto a valanghe, dove si narra il potere come sostituto dell’amore, poema in prosa di musicali risonanze, tra pastose e metalliche, tradizionali ed espressioniste. Perché García Márquez non era scrittore di colore indio o cangaçeiro, né di selve tropicali. Piuttosto, di selve umane sotto tiranni (e più volte gli fu rimproverato di essere stato muto davanti alle colpe di alcuni intollerabili regimi della politica “real-socialista” latinoamericana, e fermo a una concezione vetero-classista della società).
E non parliamo troppo della ripresa dopo la malattia, a partire dal 2000 a oggi, anni nei quali, dopo una afasia scrittoria, García Márquez inaspettatamente torna a inondare il mercato librario. Con i ricordi tra 1955 e 1960 (De Europa y América , 2001) e con Vivir para contarla (2002), primo volume della sua autobiografia. O ancora con la raccolta di reportages. Libri più o meno di risulta, ma anche libri nuovi. Fino al 2010 con il saggio Yo no vengo a decir un discurso.
E recentemente aveva dichiarato: «Con una pratica come la mia potrei scrivere un altro romanzo senza problemi, però la gente se ne accorgerebbe subito che non ci ho messo l’anima».
L'Osservatore Romano*Gabriel Garcìa Marquez: "Cien Anos de Soledad"
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