Totò: tra la Persona e l’Anima.
Omaggio al Principe nel cinquantenario
della sua morte (1967-2017).
Ho questo ricordo infantile, vago come l’immagine di un sogno non ben definito: io, all’età di 6 o 7 anni, che, mentre sono intento nei miei giochi, sbircio la televisione davanti alla quale sono radunati i miei famigliari e rimango affascinato da uno strano personaggio vestito da Pinocchio, che si muove come una marionetta su un palcoscenico, seguendo il ritmo di una musica vivace. Non sapevo ancora che, dopo qualche anno, quel bizzarro personaggio sarebbe diventato un punto di riferimento essenziale nella mia vita e che quel film in cui mi ero casualmente imbattutto sarebbe divenuto il mio film comico preferito (“Totò a colori”, del 1952, diretto da Steno).
Totò ha rappresentato per me, per buona parte della mia vita, una fonte di gioia e di ilarità, un attore di cui non potevo fare a meno per le risate che mi regalava, una sorta di antidepressivo nei momenti più difficili. Credo che di lui mi abbia sempre colpito la sua comicità surreale, i suoi giochi di parole, il suo atteggiamento irriverente e strafottente nei confronti dei potenti: basti pensare al famoso sketch del vagone letto, in cui si prende beffa dell’onorevole Cosimo Trombetta (interpretato dalla sua fida spalla, Mario Castellani), o a quando, nelle vesti di un direttore di banda, gli viene affidato l’incarico di accogliere con melodie trionfali l’arrivo in paese di un boss mafioso e lui invece interrompe continuamente il discorso di quest’ultimo con musichette infantili.
Ma di Totò, oltre alle innegabili doti attoriali, mi ha sempre colpito anche un’umanità profonda che traspare chiaramente al di sotto della sua maschera comica: una sensibilità e umiltà, di cui mi sono testimoniato leggendo le sue biografie, che mi ha sempre fatto provare nei suoi confronti un amore viscerale. Un’umanità che ha assunto nella sua vita venature malinconiche, depressive, di profonda sofferenza, delineando una sorta di contrasto con ciò che lui manifestava sul palcoscenico teatrale prima e nel mondo cinematografico poi. Un conflitto tra due parti della personalità: da un lato l’aspetto divertente, beffardo, goliardico della sua maschera; dall’altro gli aspetti di tristezza, solitudine, bassa autostima, che provenivano dalla sua interiorità più profonda. Da un lato Totò, dall’altro il principe Antonio De Curtis.
Conflitto che lui stesso viveva e percepiva in maniera piuttosto angosciante: non amava essere chiamato Totò, perché quello era soltanto un ruolo, una maschera, una parte che lui stesso tendeva a giudicare in maniera abbastanza impietosa. Forse potremmo dire in termini junghiani che quella era la Persona, ovvero quella parte della personalità che ha la funzione di maschera sociale: è il modo con cui ci presentiamo agli altri, spesso identificato con il ruolo professionale che rivestiamo, è l’interfaccia tra noi e il mondo esterno, una parte senza dubbio fondamentale perché senza di essa non potremmo muoverci in maniera adeguata all’interno delle relazioni sociali. Il pericolo sta nell’identificarsi con la Persona, confondendo il ruolo sociale con la propria interiorità: la Persona consiste non in ciò che uno realmente è, ma in ciò che lui stesso e gli altri credono che sia.
Sembra che Antonio De Curtis non sopportasse il fatto di essere identificato dagli altri con la maschera di Totò, con la Persona, e che preferisse piuttosto essere chiamato con l’appellativo di Principe, titolo nobiliare che ottenne dopo anni di ricerche in innumerevoli biblioteche e di incontri con avvocati ed a cui lui teneva particolarmente, forse anche per riscattarsi dalle difficoltà economiche e dalla miseria della sua infanzia e giovinezza e dal fatto di essere risultato per diverso tempo NN, cioè figlio di nessuno (il padre, il Marchese Giuseppe De Curtis, lo riconobbe come figlio soltanto molti anni dopo la sua nascita). Tuttavia, probabilmente, questo titolo nobiliare altro non è che un’altra maschera, con il quale si rischia un ulteriore tipo di identificazione. Ho come l’impressione che la vera interiorità di questo attore, la sua vera Anima, non fosse né il comico Totò, né il Principe De Curtis, o forse è tutte e due queste cose messe insieme ma anche qualcosa di molto di più: è quell’Anima che tracimava dalle sue canzoni, dalle sue poesie sulla morte e sull’amore, dai suoi gesti di solidarietà verso i poveri, dal suo amore verso gli animali.
Credo che molti di noi si possano riconoscere nella storia di Totò, vista in termini junghiani come conflitto tra la Persona e l’Anima, tra la maschera esteriore e l’interiorità più profonda, tra il ruolo o i ruoli sociali che si ricoprono e la parte più segreta, intima, della propria personalità. Di fronte alle richieste dell’ambiente circostante, alle pressioni sociali, ai molteplici ruoli che incarniamo nelle relazioni sociali, una domanda abbastanza frequente è: “Ma io chi sono? Chi sono realmente?” Questa domanda può porre davanti a riflessioni profondamente angoscianti, sensazioni di vuoto, soprattutto in un’epoca in cui sembra che si ponga molto l’accento sull’immagine esteriore, sociale. Un’eccessiva attenzione alla maschera, alla Persona, come d’altronde un’eccessiva attenzione a qualsiasi altra componente del sistema psichico presa singolarmente, può rischiare di portare ad identificare la parte con il tutto, dimenticando la complessità e l’interezza che compongono la personalità di un individuo. Credo che Totò abbia sofferto non poco per il fatto di essere riconosciuto, per quasi tutta la sua vita, soltanto come il comico, il “buffone”, spesso giudicato negativamente dalla maggior parte della critica cinematografica del suo tempo: da qui, forse, la necessità, negli ultimissimi anni della sua carriera e della sua vita, di realizzare un cambio di rotta nel suo percorso attoriale, attraverso la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, che agli occhi del Principe sembrava essere l’unico in grado di cogliere e di far emergere i suoi aspetti più profondi, fatti di un’umanità estremamente commovente e di una visione al tempo stesso poetica e sofferente della vita. Film come “Uccellacci e uccellini, “Che cosa sono le nuvole?” e soprattutto quel gioiello meno conosciuto che si intitola “La terra vista dalla luna” sono rappresentativi di questa dimensione più profonda, dell’Anima di Totò (ma non di tutta la sua Anima, a mio avviso).
Eppure l’universo Totò è tutto quanto: è la maschera comica che tanto ha fatto ridere milioni di spettatori nelle cosiddette “totoate” (come venivano giudicati in maniera frettolosa e superficiale molti dei suoi film, per essere rivalutati soltanto diversi anni dopo la sua morte), l’attore dalle espressioni poetiche e lunari nei film di Pasolini, il volto malinconico ritratto in alcune fotografie della sua vita, la complessità e la sofferenza delle sue storie d’amore, l’umanità profonda che traspare dalle sue canzoni e poesie. E Totò, in questo, è tutti noi: ognuno di noi è un universo, una complessità, un insieme di sfaccettature anche contraddittorie tra di loro; siamo chiamati, nel corso della nostra vita, a ricoprire diversi ruoli, interni ed esterni, a cambiare diversi “abiti” psichici: come diceva Jung a proposito dei sogni (ma potremmo estendere la sua affermazione ad ogni altro fenomeno della nostra vita psichica), noi siamo al tempo stesso “scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico”. Quando ci si identifica, o si viene identificati, esclusivamente con una o con poche parti, si ha l’impressione di non riuscire ad esprimere veramente se stessi, di non essere autentici o di non essere capiti: per esempio, quando si presta attenzione esclusivamente alla Persona, si ha l’impressione che la dimensione più profonda della propria interiorità, l’Anima, venga tradita. La sfida consiste nel trovare una sorta di equilibrio, nello sperimentare una modalità di esistenza che tenga insieme le parti piuttosto che escluderle. Come dice Jodorowski: “Non si possono analizzare le parti senza conoscere il tutto”.
Andrea Graglia, psicologo ad orientamento junghiano di Torino
Riferimenti bibliografici
- Liliana De Curtis, Totò mio padre, Rizzoli
- Carl Gustav Jung, Considerazioni generali sulla psicologia del sogno, Opere VIII, Bollati Boringhieri
- Alejandro Jodorowski, Marianne Costa, La Via dei Tarocchi, Feltrinelli
Liriche e frasi di Alda Merini ispirate a Dio
Il 21 marzo, inizio della primavera, Alda Merini avrebbe compiuto 85 anni. Nata a Milano nel marzo del 1931 da una famiglia modesta, nel suo travagliato percorso esistenziale e poetico ha cantato gli esclusi e vissuto la malattia mentale. La sua scomparsa il 9 novembre del 2009. Di lei restano liriche e frasi in cui Dio, la fede, l’amore sono i suoi interlocutori privilegiati.
Corpo d’amore
Dicono che le sorgenti d’amore siano le lacrime ma il pianto non è che un umile lavacro dei tuoi pensieri. (…) Tu sei un Dio materno e plurimo, un Dio che si disconosce e che si converte, un Dio buono come l’odio e la gelosia, un Dio umano che si è fatto croce, che si è fatto silenzio, un Dio che si converte in estasi ma che conosce il mistero della collera (…)
A volte Dio
A volte Dio
uccide gli amanti
perchè non vuole
essere superato
in amore.
Amore
Ti ho perso lungo i solchi della via,
o mio unico amore,
Dio di giacenza e di dubbio
Dio delle mitiche forze
Dio, Dio sempre Dio
che sei più forte degli amplessi
e dei teneri amori.
Che fai crescere le fontane,
che appari e dispari
come un luogotenente del destino.
Perderti è come perdere la speranza
ed io ti ho perduto
non una ma un milione di volte
e ritrovarti è come sorgere dall’eterno peccato
per vedere le falle della vita
ma anche le tue mobili stelle:
TU SEI UN DIO DI AMORE.
Angeli, il vostro occhio è cieco e vede tutto
Angeli,
il vostro occhio è cieco e vede tutto,
angeli,
il vostro occhio vede ed è cieco.
Angeli,
c’è una moltitudine di demoni
che vi perseguita
e c’è una moltitudine di angeli
che vi perseguita.
Tra queste lotte,
tra queste stagioni orrende
di sangue e di morte
di morte e di pace voi vivete,
UNICI GRANDI
STRATAGEMMI DI DIO.
La Terra Santa
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.
Santi e poeti
Bisogna essere santi
per essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,
d’ogni nostra parola che sia sobria,
procederà la lirica perfetta
in modo necessaria ed istintivo (…)
Le frasi
«Tutti gli innamorati sono in Cristo»
«Domandano tutti come si fa a scrivere un libro: si va vicino a Dio e gli si dice: feconda la mia mente,
mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi».
«Se Dio mi assolve, lo fa sempre per insufficienza di prove».
«Non posso farmi santa perché ho sempre in mano l’arma del desiderio».
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