Martin Büber: “Il cammino dell’uomo”.
Hermann Hesse, parlando di questo piccolo libretto, lo definisce “il libro più bello che io abbia mai letto”. Uno scritto che può diventare, per ciascuno di noi, l’occasione per fare il punto sul proprio “cammino”. L’opera si basa su una conferenza tenuta dall’autore al congresso di Woodbrook, a Bentvelt, nel 1947. Un testo illuminato di spiritualità ebraica, che contiene quelle folgoranti intuizioni che ci possono condurre verso la comprensione di noi stessi, verso la nostra autenticità e “unità” interiore.
Dio dice ad Adamo: “Dove sei?”
Rabbi Shneur Zalaman, il Rav della Russia, era stato incarcerato a Pietroburgo perché calunniato. Il capo delle guardie intuì subito la qualità umana del prigioniero e un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, entrò nella sua cella ed iniziò a conversare con lui su varie questioni che si era posto leggendo la Scrittura e gli chiese: “Come bisogna interpretare che Dio onnisciente dica ad Adamo ‘Dove sei?’”.
“Credete voi – rispose il Rav – che la scrittura è eterna e abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?”. “Si, lo credo”, disse “Ebbene – riprese lo Zaddik (che significa “giusto”, il nome dato alle guide delle comunità chassidiche) – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice, per esempio, ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’”. Nell’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del rav ed esclamò: “Bravo!”; ma il cuore gli tremava.
Qual è il significato di questo racconto talmudico? Mentre il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nella credenza ebraica che vede in Dio in Essere onnisciente, cercando di presupporre che se è possibile nascondersi allora Dio non è onnisciente, il saggio Rabbi non fornisce un chiarimento alla sua domanda, ma risponde su un altro livello di senso illuminando la situazione perché mira a fargli comprendere: “Adamo sei tu”, perché Dio interpella l’Uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Quando il comandante capisce la portata dell’interrogativo posto da Dio, allora vacilla perché comprende di essere interrogato personalmente.
“Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo perché ogni uomo è Adamo della situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento […] l’uomo scivola sempre più profondamente, nella falsità […] e cercando di nascondersi a Lui, si nasconde a se stesso” (Pag. 21-22)
Il cammino dell’uomo inizia quando Adamo riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”.
Ognuno di noi ha un cammino particolare
Sorge spontanea la domanda: “E qual è il mio cammino?”. È l’interrogativo che il discepolo rivolge al maestro, al santo e al veggente. Ebbene non può esistere una risposta univoca perché è proprio rispondendo correttamente alla domanda “Dove sei?” che ognuno di noi può trovare il suo proprio cammino, che non può mai essere quello di qualcun altro. La santità non è un valore da ricalcare alla lettera, ma da interpretare in modo unico e personale.
“Per quanto infimo possa essere – se paragonato alle opere dei patriarchi – ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze[…] Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico […] Ciascuno è tenuto a sviluppare e a dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse pure la persona più grande – ha già realizzato” (Pag. 26-27).
Questo insegnamento che si basa sul fatto che “tutti gli uomini sono ineguali per natura e pertanto non bisogna tentare di renderli uguali” è al centro di tutte le tradizioni spirituali. “Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la più grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità dei cammini che conducono a Lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo” (Pag. 28).
Dio non dice: “Questo cammino conduce fino a me, mentre quell’altro no”; dice invece: “Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me”. In questo senso, guardare un altro per cercare di imitarlo, può condurre fuori strada, in errore. Il Baal-Shem (fondatore del cassidismo) dice: “Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così, e uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non realizzerà ne l’uno ne l’altro […] In ognuno di noi c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro” (Pag. 29).
Il compito più importante è allora cogliere la nostra esigenza o inclinazione più profonda, quel desiderio fondamentale che muove l’aspetto più intimo del nostro essere. “Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può compiere: santificarla” (Pag. 32).
Questo è il cammino dell’uomo, un percorso di “santificazione”.
Dal conflitto all’unità
“Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto disse a se stesso: ‘È meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio’. Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. ‘Un rammendo!, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia”.
Il discepolo zelante si impegna al massimo, combatte con tutte le sue forze per realizzare una difficile ascesi. “Come è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? Non significa esigere troppo dall’uomo?” Il Veggente è così duro perché lo vuole mettere in guardia su una cosa che gli impedirà di raggiungere il grado più elevato a cui lui aspira, di conseguire il suo progetto: “oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile.
L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima “unificata”. Nella interpretazione proposta da Büber di questa storiella tradizionale chassidica, il maestro colpisce nel discepolo la mancanza di unità che aveva dimostrato, la sua tendenza ad oscillare tra decisioni diverse e opposte che rendevano la sua azione un “rammendo”, un rattoppo che toglie unità e bellezza al vestito, sintomo di una divisione interiore.
Il comportamento del discepolo rappresenta la condizione di divisione e dispersione interiore in cui spesso ci si trova a vivere, la condizione molteplice, complicata e spesso contraddittoria della nostra interiorità. L’azione che ne deriva non può che essere caratterizzata da una serie di inciampi, impedimenti e tentazioni. Il discepolo “cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso dell’azione, ‘riprendersi’ – come si usa dire -, cioè raccogliere la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta […]” (Pag. 36).
L’insegnamento contenuto nella saggezza della tradizione ebraica ci fa capire che certamente l’uomo di ogni tempo ha una natura molteplice, complicata, conflittuale e contraddittoria ma “è in grado di agire su di essa per trasformarla, può legare le une e le altre forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di unificarla. Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto” (Pag. 37).
Il Veggente, con la sua durezza, rimprovera il discepolo di “aver corso l’azzardo con un’anima non unificata”. E Büber sottolinea il fatto che non è l’ascesi a provocare l’unificazione. La rinuncia, il digiuno, l’ascesi sono pratiche che possono solamente concentrare le forze verso il conseguimento della meta, del risultato.
Cosa provoca allora l’unificazione interiore? Il nostro io a patto che si possa postulare in noi un centro direttivo e di governo della persona? Come fa l’io a governare se è esso stesso spesso coinvolto nel conflitto? L’unificazione avviene ad opera del nucleo più intimo della nostra anima. È “la forza divina che giace nelle sue profondità” a fondere le forze, i vettori e la natura delle nostre parti in conflitto.
“C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai raggiungerla pienamente” (Pag. 39).
“Però ogni opera che compio con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, a un’entità più costante di quella più precedente.Alla fine si giunge così a un punto a cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai così elevato che essa supera la contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena” (Pag. 38).
Un aneddoto racconta che un giorno Rabbi Nahum colse gli studenti che giocavano a dama che quando lo video smisero di giocare: “Vi dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso andare solo avanti. Terzo: quando si è arrivati in alto si può andare dove si vuole”.
Il termine “Anima” per Büber significa “uomo intero” nel quale corpo e spirito sono unificati. “L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse […] Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito, allora la sua opera è opera d’un sol getto” (Pap. 40).
Cominciare da se stessi
Anche l’insegnamento chassidico, come in fondo tutti gli insegnamenti delle tradizioni spirituali, mette in luce come il confitto tra gli uomini vada ricondotto al di la dei motivi esteriori e coscienti delle loro dispute, dei processi oggettivi che stanno alla base di questi conflitti.
Tale insegnamento “ha di mira l’uomo intero” e si fonda sulla consapevolezza che “solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una vera guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili. Nessun fenomeno dell’anima va preso isolatamente, messo al centro dell’esame. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato, ma proprio nella loro connessione vitale […] Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate” (Pag. 44).
“Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta […] Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio, uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente” (Pag. 45).
“Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico”. Si tratta del conflitto di tre aspetti nell’uomo: “il pensiero, la parole e l’azione”. Siamo per natura esseri contradditori cercano continuamente di nascondersi a se stessi proiettando le proprie incongruenze interiori sugli altri. Per uscirne e diventare uomini autentici, unificati, è importante volere la svolta e capirne la portata. “Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di la della farragine di cose senza valore ce ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo […] (Pag. 47).
Non preoccuparsi di sé
A che scopo tornare a sé stessi? Qual è il fine dell’unificazione interiore? Perché portare ad unità il mio essere? Ebbene la risposta è: “Non per me!”. Lo scopo dell’abbracciare un cammino di evoluzione e integrazione personale se è vero che deve cominicare da se stessi, non deve finire con se stessi; “prendersi non come meta, ma solamente come punto di partenza; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé” (Pag. 50).
Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”.
Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver compiuto l’autentico ritorno il quale si sente dire dal suocero “Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato a esercitare sul mondo. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!” (Pag. 51).
Nella concezione ebraica del cammino dell’uomo il ritorno ha un significato che va ben al di la della penitenza. Il ritorno è il cammino che va dal caos in cui l’uomo si è smarrito verso il bene, “attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare” (Pag. 52).
Il pentimento è solo l’impulso “che fa scattare questa virata attiva”, ma non un esercizio di auto fustigazione che rende lo spirito rozzo e il cuore duro. “Hai agito male? Contrapponi al male un’azione buona” e quindi “occupati del mondo”afferma il rabbino.
“Bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo. Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo” (Pag. 54).
“Bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo. Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo” (Pag. 54).
Nell’ebraismo ogni anima umana è al servizio della creazione per cui non è fissato un fine all’interno di sé stessa, nella propria salvezza individuale. Se è vero che ognuno di noi deve giungere alla sua pienezza, salvezza e purificazione questo cammino non è mai a vantaggio di sé stessi, della propria felicità terrena, ma ha senso lo all’interno della creazione, cioè del progetto di Dio.
Una volta Rabbi Mendel di Kozk, disse alla comunità riunita: “Cosa chiedo a ciascuno di voi? Tre cose soltanto: non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro agli altri, non pensare a sé stessi”.
Una volta Rabbi Mendel di Kozk, disse alla comunità riunita: “Cosa chiedo a ciascuno di voi? Tre cose soltanto: non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro agli altri, non pensare a sé stessi”.
“Il che significa: primo, che ciascuno deve custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri; secondo, che ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi dal penetrarvi con un’indiscrezione impudente e dall’utilizzarlo per i propri fini; terzo, che ciascuno deve, nella vita con se stesso e nella vita con il mondo, guardarsi dal prendere se stesso come fine (Pag. 56).
Il tesoro è dove ci si trova
Rabbi Eisik, dopo anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripete per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin li dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik figlio di Jekel, ma scherzi? Eisik torno a casa sua e dissotterrò il tesoro.
Questa storia è antica ed è presente in tutte le tradizioni popolari e il suo significato è che c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure la puoi trovare esattamente dove ti trovi.
“C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui si trova” (Pag. 50).
Siamo sempre mossi a cercare altrove, ovunque tranne che la dove siamo, la dove siamo stati posti, “ma è proprio la e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede. “È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro”.
Un giorno Rabbi Mendel di Kozk chiese ai suoi ospiti a bruciapelo “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui ma il Rabbi diede lui stesso la risposta: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.
Ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovraumana del genere umano: “Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo”.
Recensione
Martin Büber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Comunità di Bose, 1990
Testi degli interventi - Il cammino dell'uomo
La camminata meditativa del 22 MAGGIO 2017, che questo mese rientra fra gli appuntamenti del Festival Biblico, si è svolta dal Chiostro del Convento di Santa Maria del Cengio all’Eremo di Santa Maria e ha avuto come tema conduttore:
"Il cammino dell'uomo" di Martin Buber.
E' un testo che pone molte domande partendo da quella iniziale "Uomo dove sei?" la domanda rivolta da Dio ad Adamo, ma che è rivolta a ogni uomo in ogni tempo e luogo e quindi anche a noi oggi.
Dove sono? Dove mi nascondo? Come procedo nella mia vita? Quale cammino attrae il mio cuore?
I nostri passi sono stati guidati dalle parole e dalle note donate, dal silenzio della sera che ci ha permesso di far vibrare in ciascuno di noi il significato di cammino.
RITROVO AL CHIOSTRO:
fra Renzo accoglie e dà il benvenuto a tutti e visto una presenza numerosa (88 partecipanti) ha chiesto a ciascuno di presentarsi con il proprio nome e il luogo di provenienza.
INTERVENTO DI ANNA RITA
IL NASCONDIMENTO
Lo spunto per questa riflessione mi è venuto osservando i miei nipoti che giocavano a nascondino: era sempre la più piccola, Arianna, a dover fare la conta e cercare tutti gli altri che, più grandicelli, ne approfittavano. Ad un certo punto, lei… abbastanza scocciata, dopo aver contato fino a 30, si gira e dice: “adesso basta! sono stufa! adesso tutti quelli che sono nascosti cercano gli altri che sono nascosti…vi trovate fra di voi!”
Silenzio assoluto…nessun movimento…gioco fermo!
Allora ho pensato che a volte la vita, per tirarci fuori dai nostri nascondigli, ci cambia le regole del gioco…e che noi possiamo scegliere se rimanere nascosti, o giocare con la vita.
Il gioco era fermo e anche noi, quando restiamo nascosti, siamo fermi: non c’è movimento, non c’è cambiamento. In realtà non è proprio così, perché se pensiamo alla nostra crescita lungo una linea, quando ci sentiamo “arrivati”, quando ci adagiamo… non è che siamo fermi fermi: in verità, poco per volta, senza accorgercene, lentamente torniamo indietro: e questo è un andare contro la vita, che, per sua essenza, è sempre un procedere in avanti.
Noi nei nostri nascondigli ci stiamo perché “il fuori” non lo conosciamo, là abbiamo paura, a volte ci chiede di correre dei rischi, è un salto nel buio…mentre nascosti ci sappiamo stare: magari tutti rannicchiati, ripiegati su noi stessi, scomodi e “intrappolati”…ma abbiamo imparato a rimanere lì, in questo posto che sentiamo tanto familiare; gli esperti la
chiamano “zona confort”, che poi mica sempre è proprio davvero confort, ma ci sentiamo protetti, sicuri, perché quel posto lì lo conosciamo bene. In realtà, la maggior parte delle volte ci stiamo nascondendo da noi stessi: abbiamo paura di accendere la luce, o meglio quella luce c’è, solo che l’abbiamo “soffocata”, come dice M. Buber, l’abbiamo ricoperta di
fazzoletti che ci impediscono di vederla; e ce l’abbiamo tutti! Non penseremo mica che Dio, quando ha acceso in noi la sua scintilla divina abbia detto: “a te si…a te no”.
Quel diamante che c’è in noi è nascosto in un posto tanto profondo, proprio perché è tanto prezioso…e proprio perché prezioso è ben custodito.
E magari non stiamo proprio bene in quel posto, soffriamo, stiamo male, perché, se siamo onesti con noi stessi, prima o poi quella voce che ci chiede “dove sei tu nel tuo mondo?” l’abbiamo sentita tutti: solo che, come dice M. Buber “E’ la voce di un silenzio simile a un soffio”… parla piano, sussurra, e noi fatichiamo a sentirla.
Poi.. ad un certo punto, un nipote coraggioso si è alzato e ha cominciato a cercare…poi un secondo e così via…alla fine c’era un sacco di confusione: non si sapeva più chi cercava chi e chi trovava chi! Confusione e divertimento nello stesso tempo…. perché non è detto che quando usciamo dai nostri nascondigli incontriamo solo dolore e sofferenza: la vita ci riserva anche tanta gioia, sorpresa, piacere, ma noi restando lì, perdiamo un sacco di opportunità. Poi uno corre alla base e dice “libero!”..SI! Perché quando abbiamo il coraggio di rivelarci, ci liberiamo. E poi l’ultimo libera tutti! .SI! La nostra libertà si riflette sugli altri, si espande, si vede, è un dono per tutti quelli che stanno giocando con noi.
Certo che ci vuole coraggio per uscire, …ma si fa un passo alla volta. E il primo passo, ci dice Buber, è proprio riconoscere che ci stiamo nascondendo. E’ questa consapevolezza che da inizio al cammino! Vuol dire ascoltarci con onestà e sentire in che posto siamo: che magari vuol dire riconoscere che abbiamo paura, che ci sentiamo soli, che abbiamo bisogno d’aiuto, che forse ancora non sappiamo chi siamo e forse nemmeno dove stiamo andando..ma questo è il posto dove ci troviamo, e da lì parte il primo passo! E mi viene in mente un mio grande maestro e amico che un giorno mi ha detto proprio queste parole: “Anna, il primo passo parte sempre da dove sei..ma ricordati che quando una gamba ha fatto il primo passo, l’altra sa da sola cosa fare!”
Concludo come ho iniziato, per chiudere bene il cerchio: la vita a volte rimescola le carte e cambia le regole del gioco per darci la possibilità di uscire dai nostri nascondigli …e noi possiamo sempre scegliere se rimanere nascosti…o giocare con la vita. Buona vita a tutti!
Edoardo Bennato - "Un giorno credi"
"Un giorno credi" dell'architetto bagnolese Edoardo Bennato e' una canzone fantastica che ci parla di riscatto,risollevazione e forza nel recuperare una vita che puo' sfuggirci di mano da un momento all'altro per un motivo qualsiasi .
Un messaggio per tutti quelli che si sentono perduti.
CANTO DI ALESSANDRO – Un giorno credi di Edoardo Bennato
INTERVENTO DI ELISABETTA
Vorrei inizialmente che riflettessimo sul titolo di quest’opera piccola nella dimensione, ma straordinaria per i messaggi che ci offre: Il cammino dell’uomo.
Anche il titolo sembra semplice ma in realtà nasconde un implicito importante. Infatti il cammino è proprio dell’uomo, gli appartiene, come dice il complemento di specificazione. Il cammino non può essere senza l’uomo, ma d’altro canto non c’è uomo se non c’è cammino. Dunque Buber ci suggerisce che non possiamo dirci uomini se non siamo in cammino.
Questo ci immette nella storia de i grandi cammini dell’antico testamento: quello di Abramo, che si allontana dalla sua terra o di Mosè il cammino di liberazione per eccellenza o del Cristo stesso è in cammino dalla nascita fino alla morte.
E qui si apre la prima domanda: io sono in cammino?
L’autore ci mostra quelle che sono le tappe per essere uomini in cammino capitolo dopo capitolo. Nel capito intitolato IL CAMMINO PARTICOLARE esordisce mettendo in scena un dialogo tra due saggi un discepolo e un maestro:
Il discepolo chiede al maestro: “Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!”. E il maestro risponde: “Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere: perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera una con il digiuno e un’altra mangiando. E compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze”.
Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. (…) Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. (…) Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro - fosse pure la persona più grande - ha già realizzato. (…)Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano.
In queste parole è presente il primo spunto che Buber ci offre la nostra unicità che allo stesso tempo ci impaurisce e ci elettrizza. C’è un grande entusiasmo nella possibilità di scoprire quale sia il mio cammino e realizzarlo, ma quanta paura all’idea che io possa fallire e non portare sulla terra il mio messaggio, che, come diceva Vannucci, è un messaggio di Dio per il mondo.
Ma da dove posso partire per intraprendere il mio cammino?
Buber ci viene in aiuto, donandoci un altro elemento, perché non ci lasciamo scoraggiare dalla vaghezza dell’idea: ci dice che, per capire qual è il nostro cammino particolare, possiamo individuare il nostro desiderio fondamentale. Anche in questo caso, come nel titolo le parole sono solo due ma di una pregnanza potente: il desiderio è un termine che deriva dal latino de sidera = dalle stelle è la parte di noi che viene dal cielo. Fondamentale che deriva dal latino fundamentalis che si rifà a sua volta a fundamentum che richiama le fondamenta il costruire, la terra come elemento nel quale possiamo costruire. Buber ci dice che il desiderio fondamentale è quello per cui il nostro cuore trema e si commuove, nel quale sentiamo di essere completamente presenti e felici e attraverso la comprensione di questo possiamo unire il cielo e la terra, sviluppare la nostra dimensione verticale e quella orizzontale la nostra unicità diventa il mezzo per santificare i nostri atti.
“Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può compiere: santificarla.” Allora vorrei concludere con l’ultima domanda: Qual è il mio desiderio fondamentale?
CANTO DI OSCAR - Questa è la mia casa di Jovanotti
INTERVENTO DI FRANCESCA
C’è un capitolo in questo libro che si intitola risolutezza e comincia con un’immagine che mi ha molto colpito. Il testo comincia col narrare la storia di un maestro e un discepolo, il discepolo deve portare a termine un esercizio e ci riesce tra mille tentennamenti, ma il maestro commenta questo comportamento sconclusionato dell’allievo definendolo un rammendo. E’ un’immagine inaspettata, presa dalla sfera del quotidiano, forse di altri tempi, in cui le donne salvavano qualcosa di strappato rammendando, cucendo su e giù o a zig zag. E è proprio questo a cui si riferisce il maestro riferendosi al comportamento dell’allievo, l’andamento del filo che cuce, che va su e giù, che non è diritto, lineare, non ha una direzione costante, ma è fatto di un andirivieni, avanti e poi di nuovo indietro, vorrei ma non posso, devo ma non voglio... Quante volte succede di intraprendere un’azione, un progetto e cominciare in un modo, proseguire in un altro e finire in un altro ancora, alternando atteggiamenti di intraprendenza con scoraggiamenti e per paura di fallire anche rinunce, per poi recuperare qualcosa in extremis, se va bene.. c’è una canzone che dice:
“Te ne sei accorto, sì
Che parti per scalare le montagne
E poi ti fermi al primo ristorante
E non ci pensi più”
Che parti per scalare le montagne
E poi ti fermi al primo ristorante
E non ci pensi più”
A chi non è capitato di sentirsi pronto per cambiare il mondo e poi al primo lieve ostacolo, prima ancora di partire, fermarsi e dimenticarsi anche il proposito iniziale? Ma come è possibile che accada? Primo perché a volte pretendiamo di partire in grande e invece sarebbe meglio esercitarsi in azioni più semplici. Poi Perché l’anima non è unificata dentro di sé, è strappata come il tessuto che si vuole rammendare: altra immagine forte che ci descrive un animo come tanti lembi di stoffa strappati. Questi strappi posso immaginare siano dovuti a dei tiri alla fune con se stessi o con gli altri e tira oggi tira domani, prima o poi un lembo si strappa.. Il maestro spiega allora che il contrario dell’azione rammendata è un’opera di un sol getto. Come si fa a farla? Cita p.36
Questo messaggio che ci viene dato è un insegnamento che ci fa costruire e sperare: ci dice che è normale partire con un’anima molteplice, abitata da tanti sé, magari in perenne contraddizione tra loro. Va bene. Ma di fronte a questo non siamo impotenti perché c’è una parte dentro di noi, divina, che ha potere di trasformare i nostri tentativi sconclusionati in un’opera d’arte, perché è più forte delle forze in conflitto e più grande del conflitto stesso, del vorrei ma non posso, devo ma non voglio, potrei ma ho paura …
In più l’insegnamento ci dice che questa unificazione non è solo dell’interiorità, ma passa attraverso il corpo e le emozioni. Per me è difficile da capire e realizzare questo aspetto, mi immagino il mio io come facevano gli antichi, un carro, un composto di elementi diversi, anima, corpo, mente, emozioni, che se vogliono muoversi cioè essere in cammino, devono trovare quell’equilibrio, quel richiamo che li fa andare tutti nella stessa direzione. Se anche solo una parte punta i piedi, ecco che il cammino si blocca. Oppure mi immagino il direttore d’orchestra che fa suonare insieme gli strumenti perché sono tutti accordati tra loro con lo stesso LA di fondo. Infatti un versetto della scrittura dice: p.39 “ Tutto ciò che la tua mano trova da fare…..
Concluderei con l’ultima immagine del capitolo sul gioco della dama: ma voi conoscete le regole di questo gioco? Si può fare solo un passo alla volta, si può solo andare avanti e mai tornare indietro e, quando si arriva in alto, si va dove si vuole.
INTERVENTO DI DAVIDE
Francesco Guccini - Amerigo (Live)
Probabilmente uscì chiudendo dietro a se la porta verde,
qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d' orzo.
Non so se si girò, non era il tipo d' uomo che si perde
in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.
Quand' io l' ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio
o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola.
Colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio,
un cinto d' ernia che sembrava una fondina per la pistola.
Ma quel mattino aveva il viso dei vent' anni senza rughe
e rabbia ed avventura e ancora vaghe idee di socialismo,
parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe
E per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: "il fatalismo".
Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre
e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina
e già sentiva in faccia l' odore d' olio e mare che fa Le Havre,
e già sentiva in bocca l' odore della polvere della mina.
L' America era allora, per me i G.I. di Roosvelt, la quinta armata,
l' America era Atlantide, l' America era il cuore, era il destino,
l' America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata,
l' America era il mondo sognante e misterioso di Paperino.
L' America era allora per me provincia dolce, mondo di pace,
perduto paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta,
e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache,
un sogno lungo il suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra.
Non so come la vide quando la nave offrì New York vicino,
dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla, castello
e Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell' Appennino,
l' inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello.
E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera,
per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri,
di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera,
sudore d' antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri.
Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita,
l' America era un angolo, l' America era un' ombra, nebbia sottile,
l' America era un' ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita,
e dire boss per capo e ton per tonnellata, "raif" per fucile.
Quand' io l' ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio,
sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo
e non capivo che quell' uomo era il mio volto, era il mio specchio
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo...
CANTO DI EDOARDO - Amerigo di Francesco Guccini
INTERVENTO DI MATTEO
Non preoccuparsi di sé! Ma cosa vuol dire non preoccuparsi di sé? E perché questo titolo mi risuona così forte dentro di me? Forse perché sono davvero preoccupato del mio futuro e della mia sorte. Perché non devo preoccuparmi?
Leggendo le pagine di Buber ho sentito ed ho capito che forse il mio continuo pensare e preoccuparmi di me stesso dava da mangiare e nutriva a dismisura il mio ego.
Il mio ego, ormai obeso, nascondeva dietro di sé l’ormai esile e minuto progetto che Dio mi ha consegnato.
Buber scrive: bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo …. Bisogna contrapporre il regno di Dio ed il compito che Dio ha scritto su ciascuna delle nostre anime al nostro egocentrismo.
Subito mi sono chiesto come posso fare per snellire il mio ego e rifocillare e rinvigorire il mio sé tanto caro a Dio ed il suo regno?
Ancora una volta Buber ci viene in nostro aiuto e scrive: Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato ad esercitare sul mondo …. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare! Allontanati dal male e fai del bene.
Contrapponi al male un’azione buona.
Ecco allora la soluzione, la via! Se è male preoccuparci solo di noi stessi, utilizziamo questa energia per conoscere ed alimentare ciò per cui siamo venuti al mondo e per il mondo.
INTERVENTO DI LUCA
Parto da me per raccontare l’incontro col testo di Martin Buber, in particolare col penultimo capitolo del libro NON PREOCCUPARSI DI SE’.
In 29 anni ho fatto viaggiare per lavoro tante persone in Europa e nel Mediterraneo: a piedi, in bicicletta e in barca. Io in questi anni ho forse viaggiato poco ma ci sta: come il calzolaio ha sempre le scarpe rotte anche un agente di viaggi può viaggiare poco anche se fa viaggiare gli altri. In realtà penso che il mio più bel viaggio, e forse quello più lungo, è il viaggio interiore che ho intrapreso qui all’eremo oltre 2 anni fa assieme a Nicoletta e a una parte di voi. Durante le vacanze di capodanno Nicoletta ci ha proposto la lettura de “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber. E’ un libro piccolo ma molto denso che ho cominciato a tenere sempre con me perché mi parla in tanti momenti della mia vita.
In questi primi quasi 50 anni di vita sono andato all’estero, ovvero sono emigrato 2 volte. L’ultima volta per un periodo di 5 anni in un Paese del Nord Europa dove sono stato accolto molto bene. La prima volta sono andato in Africa con la mia famiglia che voleva migliorare le proprie condizioni economiche. I miei genitori sognavano di costruire la casa in un paese del vicentino dove sono nati. Purtroppo arrivati al tetto i soldi sono finiti ed è stata una scelta obbligata quella di andare in Nigeria per circa 2 anni. Io lì ho fatto la seconda media e ho avuto fin da subito 2 persone che si sono occupate di me. Innocent accompagnava me e mia sorella a scuola tutti i giorni e ci veniva a prendere. Udo ci aspettava a casa e cucinava il pranzo e la cena.
Insomma rileggendo Buber non posso non condividere con tutti voi le sue esortazioni:
COMINCIARE DA SE STESSI, MA NON FINIRE CON SE STESSI;
PRENDERSI COME PUNTO DI PARTENZA, MA NON COME META;
CONOSCERSI, MA NON PREOCCUPARSI DI SE’
NON DI TE STESSO, MA DEL MONDO TI DEVI PREOCCUPARE:
DIMENTICATEVI DI VOI E PENSATE AL MONDO
E pensare al mondo oggi vuol dire pensare ai figli di Innocent e di Udo che probabilmente sono già in cammino per raggiungere l’Europa. Voglio dire a tutti noi di accogliere a braccia aperte quei figli stranieri di terre lontane che sono in cammino e che hanno l’unica colpa di vedere il deserto che avanza ogni anno per chilometri e di sognare per se stessi e per i propri figli un futuro migliore.
CANTO DI SILVIA ED ENRICO: "Vita Nuova" di ireblA (testo di Nadia Spiller)
Una vita da crescere ed amare
senza domande ne perchè
senza ma senza se....
So chi sono ora,
so che strada voglio fare,
so con chi voglio camminare.
Ho sognato una nuova vita
nel silenzio della notte
ha sollevato la mia sconfitta.
Ho ascoltato questa vita
che ha raccontato la storia
fuori dal tempo e dalla memoria.
Ho sognato una nuova vita
che mi prendeva poi per mano
e mi faceva volare
su nel cielo alto
oltre la pura fantasia
oltre i confini dell’anima mia.
Una vita da crescere ed amare
senza domande ne perchè
senza ma senza se....
So chi sono ora,
so che strada voglio fare,
so con chi voglio camminare.
Oh signore dammi Amore
dammi Amore e cuore aperto,
che questa vita possa essere grande
nel segno del tuo Amore
nel segno del tuo Cuore.
Passo passo fra le gente
lontano dallo sguardo della mente,
seguo solo il mio cuore
che è la mia bussola
in questo nuovo mondo d’Amore
INTERVENTO DI LISA
QUI’ DOVE SONO E’ LA VITA
Nel terreno che attende il seme per dargli il suo nutrimento
Nella zappa appoggiata al muro che aspetta le mie mani per poter esprimere la sua essenza
Nel frutto maturo che attende di essere colto per donare il suo sapore
Nel sorriso di chi lo riceve in dono e lo gusta
LA’ DOVE SEI E’ LA VITA
Nelle vie della città che percorri frettolosamente
Nei porti che attraversi sovrappensiero
Nei giardini in cui ti siedi assorto
Là si nascondono messaggi che aspettano di essere letti, domande che attendono risposta, tesori che aspettano di essere trovati.
QUI’ DOVE SIAMO E’ LA VITA …. INCONTRIAMOLA!
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