Contemplare il Vangelo di oggi
Testo del Vangelo (Lc 2,16-21): In quel tempo, andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.Commento: Rev. D. Manel VALLS i Serra (Barcelona, Spagna)
«Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia»
Oggi, la Chiesa contempla riconoscente la maternità della Madre di Dio, modello della Sua propria maternità per tutti noi. Luca ci presenta l’ “incontro” dei pastori “con il Bambino” che è accompagnato da Maria, Sua Madre e da Giuseppe. La discreta presenza di Giuseppe suggerisce l’importante missione di essere custode del grande mistero del Figlio di Dio. Tutti insieme, pastori Maria e Giuseppe «e il bambino adagiato nella mangiatoia» (Lc 2,16) sono un’immagine preziosa della Chiesa in adorazione.“Il presepe”: Gesù è stato già messo lì, in una occulta allusione all’ `Eucaristia´. E’ Maria Chi l’ha messo! Luca parla di un `incontro´ dei pastori con Gesù. Infatti, senza l’esperienza di un “incontro” personale con il Signore, non c’è fede. Solo questo “incontro” che implica un “vedere con i propri occhi” e, in un certo modo, un “toccare”, rende capaci i pastori di arrivare ad essere testimoni della Buona Novella, veri evangelizzatori che possono far «conoscere ciò che del bambino era stato detto loro» (Lc 2,17).
Ci viene presentato qui un primo frutto dell’ “incontro” con Cristo: «Tutti quelli che udivano si stupirono» (Lc 2,18). Dobbiamo chiedere la grazia di saper far sorgere questo “meravigliarsi”, questa ammirazione in coloro a cui annunciamo il Vangelo.
C’è ancora un secondo frutto di questo `incontro´: «I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Lc 2,20). L’adorazione del Bambino riempie loro il cuore di entusiasmo per comunicare quello che hanno visto e udito e al comunicare quello che hanno visto e udito li guida alla preghiera di lode, di ringraziamento e di glorificazione del Signore.
Maria, maestra di contemplazione -«custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19)- ci da Gesù, nome che significa “Dio salva”. Il Suo nome è pure la nostra Pace. Accogliamo nel nostro cuore questo sacro e dolcissimo Nome ed abbiamolo frequentemente sulle nostre labbra!
Betlemme di Giudea o Betlemme di Galilea? (Ravasi)
"Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode" (Matteo, 2,1). "Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme (...) Mentre si trovavano in quel luogo (...), Maria diede alla luce il suo figlio primogenito". (Luca, 2, 4-7): entrambi gli evangelisti Matteo e Luca non hanno esitazioni nell'assegnare a Betlemme, villaggio della Giudea, regione meridionale della Terra Santa e patria del re Davide, la sede della nascita di Gesù. Le cose si complicano, invece, per quanto riguarda la data, a causa di quel censimento, a cui Maria e Giuseppe devono partecipare. Stando alla documentazione romana, il governatore di Siria, Quirinio, avrebbe in realtà ordinato questa operazione censuale solo nel 6-7 dopo la nascita di Cristo, quando probabilmente Gesù era dodicenne e stupiva i dottori della Legge nel tempio di Gerusalemme, perché - secondo molti studiosi - l'anno della sua nascita è forse da retrocedere al 6 prima dell'era cristiana, quando appunto era ancora sul trono il re Erode che morirà due anni dopo ovvero nell'anno 4 antecedente l'era cristiana.
Ma lasciamo da parte l'intricata questione della cronologia, sulla quale si sono versati i tradizionali fiumi d'inchiostro, e soffermiamoci sulla topografia da cui siamo partiti. Sì, perché, nonostante l'accordo di Matteo e Luca, in passato, come pure in questi ultimi anni, si è discusso non solo tra gli studiosi, ma anche a livello mediatico proprio sul luogo di nascita di Gesù. L'archeologo Aviram Oshri, infatti, in un articolo apparso nel 2005 sulla rivista "Archaeology" ha rispolverato una tesi che era già balenata antecedentemente in alcuni saggi di studiosi: la nascita di Cristo sarebbe in realtà avvenuta in un'altra Betlemme situata in Galilea, regione settentrionale a 12 chilometri a nord-ovest di Nazaret, località nota anch'essa alla Bibbia che la colloca nel territorio galilaico della tribù di Zabulon (Giosuè, 19, 15) e che ne fa la patria del giudice Ibsan (Giudici, 12, 8).
Quali sarebbero le ragioni per "correggere" il testo evangelico? Innanzitutto un così lungo viaggio da Nazaret a Betlemme (140 chilometri), a dorso d'asino, risulterebbe arduo per una donna incinta. Inoltre, Betlemme di Galilea era un villaggio fiorente all'epoca di Gesù, a differenza di Betlemme di Giudea, allora decaduta. Ma l'accento maggiore è posto da Oshri su una tesi tutt'altro che inedita, sostenuta - come sopra si diceva - precedentemente da alcuni studiosi. È il caso dell'ebreo Joseph Klausner e dell'esegeta americano Bruce Chilton, autore di una intimate biography, come egli definisce la sua biografia del Rabbi Jesus, pubblicata a New York nel 2000. In forma più moderata anche altri importanti esegeti americani, come Raymond E. Brown nel volume La nascita del Messia (Cittadella, 1981) e John P. Meier con l'opera intitolata Un ebreo marginale (Queriniana, 2001), si sono orientati verso una tesi analoga.
Essa, in pratica, sostiene che gli evangelisti avrebbero scambiato tra loro i due Betlemme per una finalità teologica. Infatti, assegnando a Gesù come patria lo stesso villaggio d'origine di Davide si affermava la sua "naturale" messianicità, sulla scia dell'Antico Testamento, messianicità confermata anche dal legame genealogico di Giuseppe con la linea davidica: "egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide" (Luca 2, 5). La tesi è suggestiva anche perché Matteo nel racconto dei Magi cita esplicitamente il profeta Michea che affermava: "Tu Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te, infatti, uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele" (2, 5-6). Anche l'evangelista Giovanni segnala una discussione attorno a Gesù, cittadino di Nazaret, contro il quale si obietta: "Il Cristo [cioè il Messia] viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?" (7, 41-42).
Bisogna, però, tener conto anche di altri elementi al trettanto suggestivi che orientano storicamente verso Betlemme di Giudea. Infatti, se gli evangelisti optarono per quest'ultima città al fine di sostenere la messianicità di Gesù, compiendo una scelta apologetica e "missionaria" per convincere gli Ebrei, come mai nella successiva polemica giudaica piuttosto vivace contro Gesù e i cristiani i rabbini non si preoccuparono mai di confutare come falso il dato della nascita di Gesù a Betlemme di Giudea proposto dai Vangeli? È, inoltre, curioso notare che questa stessa tradizione rabbinica posteriore non insiste più di tanto sulla nascita del Messia a Betlemme di Giudea, e Origene nella sua opera Contro Celso sospetta che ciò avvenne per non dare corda alla realtà effettiva della nascita betlemitico-davidica di Gesù. Ma anche l'archeologia, con buona pace di Oshri, ha qualcosa da dire al riguardo.
A Betlemme di Galilea, infatti, si trovano solo resti di un complesso monastico fortificato del VI secolo, dotato di una chiesa con cripta e di una foresteria. A Betlemme di Giudea, invece, già nel 326 si ergeva la maestosa basilica costantiniana, che ancor oggi sussiste sia pure con la rielaborazione posteriore di Giustiniano.
Essa era sorta intenzionalmente sopra una grotta già venerata da un'antica tradizione cristiana che l'aveva identificata come luogo natale di Gesù, grotta profanata dall'imperatore Adriano che ne aveva fatto la sede di un santuario pagano, attestando in forma indiretta la presenza di un culto cristiano. Il filo della memoria storico-archeologica è, perciò, più solido nella Betlemme di Giudea e ha il suo emblema nella basilica che Costantino eresse su impulso della madre Elena, come attesta anche lo storico loro contemporaneo Eusebio di Cesarea. Basilica che ancor oggi i pellegrini visitano, sia pure nel rifacimento giustinianeo: si pensi solo allo splendido pavimento musivo che è visibile parzialmente sotto il lastricato successivo.
Rimane quell'obiezione più immediata e concreta sulla fatica della trasferta Nazaret-Betlemme di Giudea. Essa, però, riflette una sensibilità squisitamente moderna, perché allora simili esperienze erano normali in organismi assuefatti al duro lavoro nei campi, a un tenore di vita aspro che non risparmiava neppure le donne incinte, come è verificabile ancor oggi nelle tribù beduine di quell'area. Siamo, quindi, in presenza di uno dei non rari episodi in cui si strattona l'archeologia verso esiti differenti di indole anche mediatica. Un caso analogo, ma ben più impressionante, fu quando la presunta (e poi smentita) scoperta del "sepolcro della famiglia di Gesù" fu trasposta nel documentario di un'ora intitolato The Lost Tomb of Jesus, trasmesso nel 2007 dall'americano Discovery Channel e diretto dal regista canadese James Cameron.
Ebbi occasione anch'io di seguirlo e devo confessare che rasentava in più di un punto l'esilarante, non solo per le sue affermazioni apodittiche, ma anche per gli svarioni e le semplificazioni, frutto della consulenza affidata nientemeno che a un giornalista investigativo e archeologo dilettante, tale Simcha Jacobovici, che cercava persino di dimostrare coi reperti ossei sottoposti a DNA le parentele di Gesù, non tralasciando neanche la tesi delle sue nozze con Maria Maddalena! Giustamente il compianto - e vero archeologo - padre Michele Piccirillo aveva bollato quel documentario come "un chiaro esempio di mala-archeologia, evento commerciale senza nessun fondamento scientifico!".
Quali sarebbero le ragioni per "correggere" il testo evangelico? Innanzitutto un così lungo viaggio da Nazaret a Betlemme (140 chilometri), a dorso d'asino, risulterebbe arduo per una donna incinta. Inoltre, Betlemme di Galilea era un villaggio fiorente all'epoca di Gesù, a differenza di Betlemme di Giudea, allora decaduta. Ma l'accento maggiore è posto da Oshri su una tesi tutt'altro che inedita, sostenuta - come sopra si diceva - precedentemente da alcuni studiosi. È il caso dell'ebreo Joseph Klausner e dell'esegeta americano Bruce Chilton, autore di una intimate biography, come egli definisce la sua biografia del Rabbi Jesus, pubblicata a New York nel 2000. In forma più moderata anche altri importanti esegeti americani, come Raymond E. Brown nel volume La nascita del Messia (Cittadella, 1981) e John P. Meier con l'opera intitolata Un ebreo marginale (Queriniana, 2001), si sono orientati verso una tesi analoga.
Essa, in pratica, sostiene che gli evangelisti avrebbero scambiato tra loro i due Betlemme per una finalità teologica. Infatti, assegnando a Gesù come patria lo stesso villaggio d'origine di Davide si affermava la sua "naturale" messianicità, sulla scia dell'Antico Testamento, messianicità confermata anche dal legame genealogico di Giuseppe con la linea davidica: "egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide" (Luca 2, 5). La tesi è suggestiva anche perché Matteo nel racconto dei Magi cita esplicitamente il profeta Michea che affermava: "Tu Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te, infatti, uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele" (2, 5-6). Anche l'evangelista Giovanni segnala una discussione attorno a Gesù, cittadino di Nazaret, contro il quale si obietta: "Il Cristo [cioè il Messia] viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?" (7, 41-42).
Bisogna, però, tener conto anche di altri elementi al trettanto suggestivi che orientano storicamente verso Betlemme di Giudea. Infatti, se gli evangelisti optarono per quest'ultima città al fine di sostenere la messianicità di Gesù, compiendo una scelta apologetica e "missionaria" per convincere gli Ebrei, come mai nella successiva polemica giudaica piuttosto vivace contro Gesù e i cristiani i rabbini non si preoccuparono mai di confutare come falso il dato della nascita di Gesù a Betlemme di Giudea proposto dai Vangeli? È, inoltre, curioso notare che questa stessa tradizione rabbinica posteriore non insiste più di tanto sulla nascita del Messia a Betlemme di Giudea, e Origene nella sua opera Contro Celso sospetta che ciò avvenne per non dare corda alla realtà effettiva della nascita betlemitico-davidica di Gesù. Ma anche l'archeologia, con buona pace di Oshri, ha qualcosa da dire al riguardo.
A Betlemme di Galilea, infatti, si trovano solo resti di un complesso monastico fortificato del VI secolo, dotato di una chiesa con cripta e di una foresteria. A Betlemme di Giudea, invece, già nel 326 si ergeva la maestosa basilica costantiniana, che ancor oggi sussiste sia pure con la rielaborazione posteriore di Giustiniano.
Essa era sorta intenzionalmente sopra una grotta già venerata da un'antica tradizione cristiana che l'aveva identificata come luogo natale di Gesù, grotta profanata dall'imperatore Adriano che ne aveva fatto la sede di un santuario pagano, attestando in forma indiretta la presenza di un culto cristiano. Il filo della memoria storico-archeologica è, perciò, più solido nella Betlemme di Giudea e ha il suo emblema nella basilica che Costantino eresse su impulso della madre Elena, come attesta anche lo storico loro contemporaneo Eusebio di Cesarea. Basilica che ancor oggi i pellegrini visitano, sia pure nel rifacimento giustinianeo: si pensi solo allo splendido pavimento musivo che è visibile parzialmente sotto il lastricato successivo.
Rimane quell'obiezione più immediata e concreta sulla fatica della trasferta Nazaret-Betlemme di Giudea. Essa, però, riflette una sensibilità squisitamente moderna, perché allora simili esperienze erano normali in organismi assuefatti al duro lavoro nei campi, a un tenore di vita aspro che non risparmiava neppure le donne incinte, come è verificabile ancor oggi nelle tribù beduine di quell'area. Siamo, quindi, in presenza di uno dei non rari episodi in cui si strattona l'archeologia verso esiti differenti di indole anche mediatica. Un caso analogo, ma ben più impressionante, fu quando la presunta (e poi smentita) scoperta del "sepolcro della famiglia di Gesù" fu trasposta nel documentario di un'ora intitolato The Lost Tomb of Jesus, trasmesso nel 2007 dall'americano Discovery Channel e diretto dal regista canadese James Cameron.
Ebbi occasione anch'io di seguirlo e devo confessare che rasentava in più di un punto l'esilarante, non solo per le sue affermazioni apodittiche, ma anche per gli svarioni e le semplificazioni, frutto della consulenza affidata nientemeno che a un giornalista investigativo e archeologo dilettante, tale Simcha Jacobovici, che cercava persino di dimostrare coi reperti ossei sottoposti a DNA le parentele di Gesù, non tralasciando neanche la tesi delle sue nozze con Maria Maddalena! Giustamente il compianto - e vero archeologo - padre Michele Piccirillo aveva bollato quel documentario come "un chiaro esempio di mala-archeologia, evento commerciale senza nessun fondamento scientifico!".
(©L'Osservatore Romano 1° gennaio 2012)
e ancora >>>
Benedite, non maledite:
è la via della pace
I cristiani hanno sempre legato la tradizionale festa di capodanno a qualche motivo della loro fede.
Prima della riforma liturgica operata dal concilio Vaticano II°,
si celebrava la circoncisione di Gesù,
avvenuta, secondo quanto ci riferisce Luca,
otto giorni dopo la nascita (Lc 2,21). Poi questo giorno è
stato dedicato a Maria madre di Dio e, a partire dal 1968, il
primo gennaio è divenuto, per volontà di papa Paolo VI, la
«giornata mondiale della pace».
Le letture riflettono questa
varietà di temi: la benedizione per iniziare bene il nuovo anno
(prima lettura); Maria, modello di ogni madre e di ogni discepolo
(vangelo); la pace (prima lettura e vangelo); la figliolanza
divina (seconda lettura); lo stupore di fronte all'amore di Dio
(vangelo), il nome con cui Dio vuole essere identificato e invocato
(prima lettura evangelo).
Benedire e benedizione sono termini che ricorrono frequentemente
nella Bibbia, si ritrovano quasi a ogni pagina
(552 volte nell'Antico Testamento, 65 nel NT).
Fin dall'inizio Dio benedice le sue creature: gli esseri viventi perché siano fecondi
e si moltiplichino (Gn 1,22), l'uomo e la donna perché
dominino su tutto il creato (Gn 1,28) e il sabato, segno del
riposo e della gioia senza fine (Gn 2,3).
Abbiamo bisogno di sentirci benedetti da Dio e dai fratelli.
La maledizione allontana, separa, indica il rifiuto, la benedizione
invece avvicina, rafforza la solidarietà, infonde fiducia e
speranza.
«Il Signore ti benedica e ti protegga»: sono le prime parole
che la liturgia ci fa udire in questo giorno perché ci rimangano
impresse nel cuore e le ripetiamo ad amici e nemici lungo tutto
l'anno.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
«lnsegnaci, Signore, a benedire chi ci insulta,
a sopportare chi ci perseguita,
a confortare chi ci calunnia».
Prima lettura (Nm 6,22-27)
22 Il Signore aggiunse a Mosè: 23 «Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci
loro: Voi benedirete così gli israeliti; direte loro:
24 Ti benedica il Signore e ti protegga.
25 Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
26 Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.
27 Così porranno il mio nome sugli israeliti e io li benedirà».
È molto fiorente anche oggi il mercato delle benedizioni e
delle maledizioni, delle magie e dei sortilegi, delle fatture e del
malocchio. Lo era molto di più nei tempi antichi quando si
pensava che la parola - soprattutto se accompagnata da gesti e
pronunciata da chi era dotato di poteri sovrumani e misteriosi
realizzasse quello che esprimeva.
Sempre efficace era ritenuta, naturalmente, la parola di
Dio che, «con la sua parola ha creato i cieli ... parla e tutto è
fatto, comanda e tutto esiste» (Sal 33,6.9). Si temevano le sue
maledizioni e si invocavano le sue benedizioni. Egli benediceva
il suo popolo quando lo colmava di beni, quando elargiva
prosperità e salute, successi e vittorie, piogge e fecondità ai
campi e agli animali (Dt 28,1-8). Sventure, malattie, carestie,
sconfitte erano i segni della sua maledizione (Dt 28,15-19).
C'erano anche dei mediatori delle benedizioni divine: il
padre di famiglia (<<La benedizione del padre consolida le case
dei figli» - Sir 3,9), il re (Gn 14,18ss.) e i sacerdoti.
La nostra lettura riporta il testo della più famosa delle benedizioni,
quella insegnata dal Signore stesso a Mosè. Doveva
essere usata dai «figli di Aronne» per «porre il nome del Signore
sugli israeliti» (vv. 23.27). Era impiegata al termine della
liturgia quotidiana nel tempio. Il sacerdote. usciva sulla porta
del santuario e, stendendo le mani sulla folla che lo attendeva,
proferiva questa formula sacra.
In essa, per tre volte, viene invocato il nome del Signore -
JHWH - nome ineffabile che solo ai sacerdoti era permesso
pronunciare e solo per benedire, mai per maledire.
A ognuna delle tre invocazioni del nome santo sono aggiunte
due richieste:
- il Signore ti benedica e ti protegga;
- il Signore faccia splendere il suo volto su di te e ti sia propizio;
- il Signore diriga il suo sguardo verso di te e ti conceda la
pace.
Sono sei immagini che esprimono la richiesta di grazie e
favori.
Il volto raggiante è segno di amicizia è di benevolenza
ispira fiducia, apre il cuore a lieta speranza.
Con linguaggio
molto umano, il pio israelita chiede spesso al Signore di «rasserenare
il suo volto», di «non nascondergli il suo volto» (Sal 27,9), di non mostrarsi adirato. «Fa' risplendere il tuo volto supplica
il salmista - e saremo salvi» (Sal 80,4); «risplenda su
di noi la luce del tuo volto, Signore» (Sal 4,7).
Non soltanto Dio benedice l'uomo, ma anche l'uomo è
chiamato a benedire Dio. Nei Salmi torna insistente l'invito:
«Benedite il Signore, voi tutti, serv; del Signore. Alzate le mani
verso il santuario e benedite il Signore» (Sal 134,1-2); «Benedite
il suo nome, raccontate la sua gloria, a tutte le nazioni
dite i suoi prodigi» (Sal 96,2-3). Il pio israelita. comincia tutte
le sue preghiere con la formula: «Benedetto sei Tu Signore ... »:
La benedizione che l'uomo rivolge al Signore è la risposta ai benefici ricevuti.
È il segno che ha preso coscienza che tutto il
bene viene da lui, che è dono suo.
anche - molto raramente - delle sue maledizioni. Si tratta di
un linguaggio umano per descrivere le conseguenze disastrose
provocate non da Dio, ma dal peccato. Chi si allontana dal
cammino della vita attira su di sé le peggiori sventure.
Lo aveva già compreso il saggio Ben Sira: «Il male si riversa su chi lo
fa» (Sir 27,27). Da Dio viene solo la benedizione.
Quale risposta ha dato il Signore alle suppliche del suo
popolo?
Israele si attendeva dal Signore una benedizione, una pace uno
shalom molto «materiale». Nella pienezza dei tempi Dio
ha inviato la sua pace, suo Figlio, «egli è la nostra pace»
(Ef2,14).
La sorpresa è stata così grande che ha fatto esclamare a
Paolo: « Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha
benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1,3)
e a Zaccaria: «Benedetto il Signore Dio d'Israele che ha visitato e redento il suo popolo»
(Lc 1,68) .
«Dio l’ha mandato per portare la benedizione» (At 3,25-26).
In lui tutte le maledizioni si sono trasformate in benedizione
(Gal 3,8-14). Se in Cristo Dio ha rivelato il suo volto
sempre benedicente, all'uomo non rimane che benedire sempre,
anche i nemici: «Benedite e non maledite» (Rm 12,14),
«non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al
contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati
chiamati per avere in eredità la benedizione» (1Pt 3,9).
Seconda lettura (Gal 4,4-7)
4 Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio,
nato da donna, nato sotto la legge, 5 per riscattare coloro che erano sotto
la leggte: perché ricevessimo l'adozione a figli. 6 E che voi siete figli ne è
prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo
Figlio che grida: Abbà, Padre ! Quindi non sei più schiavo, ma figlio;
e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.
In questo brano della Lettera ai galati Paolo ricorda la verità
centrale del vangelo: dopo che Dio ha inviato il suo figlio,
«nato da donna», cioè, in tutto simile a noi, eccetto che nel
peccato, noi possiamo chiamare Dio: «Abbà, Padre!» (v. 6).
Questa è la bella notizia!
Anche i pagani chiamavano Dio «padre di tutti gli uomini».
Cos'hanno di specifico i cristiani? Perché Paolo afferma
commosso che ora il cristiano non è più schiavo, ma figlio e
che può gridare: «Abbà»? Il Padre nostro è una preghiera che
tutti gli uomini possono recitare?
A quest'ultima domanda tutti probabilmente risponderemmo
«si» e c'è un testo evangelico che giustifica questa risposta:
«Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il
suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i
giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,44-45). La benevolenza di
Dio, non fa alcuna distinzione fra gli uomini, tutti sono suoi
figli,
E vero: Dio è padre di tutti gli uomini.
Ma quando un pagano e un cristiano invocano Dio padre
non intendono la stessa cosa. Il pagano lo chiama padre perché
è cosciente di aver ricevuto da lui il dono dell' esistenza. Il
cristiano si sente figlio di Dio a un altro livello: sa che oltre
all' esistenza ha ricevuto da lui lo Spirito, la sua stessa vita divina.
Per questo nei primi secoli la preghiera del Padre nostro
era consegnata solo qualche giorno prima del battesimo, cioè,
solo quando i catecumeni erano in grado di comprenderne
pienamente il significato.
Anche questa lettura è legata al tema della festa della pace.
Chi ha ricevuto lo Spirito e chiama Dio «Abbà» non può che
sentirsi fratello di tutti gli uomini e divenire costruttore di
pace.
Vangelo (Lc 2,16-21)
16 Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il
bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono
ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si
stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava
tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto
quello che avevano udito e visto, com 'era stato detto loro.
21 Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli
fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima di essere
concepito nel grembo della madre.
Il vangelo di oggi è la continuazione del brano letto nella
notte di Natale. Accanto alla culla di Gesù compaiono nuovamente
i pastori (vv. 16-17).
Seguendo l'annuncio ricevuto dal cielo, essi vanno a Betlemme
e trovano Giuseppe, Maria e il bambino che giace
nella mangiatoia. Si noti: non trovano nulla di straordinario.
Vedono solo un bambino con suo padre e sua madre. Eppure,
in quell' essere debole, bisognoso di aiuto e di protezione, essi
riconoscono il Salvatore. Non hanno bisogno di segni straordinari,
non verificano miracoli e prodigi. I pastori rappresentano
tutti i poveri, gli esclusi che, quasi per istinto, riconoscono
nel bambino di Betlemme il Messia del cielo.
Nelle raffigurazioni' i pastori compaiono in genere in ginocchio
davanti a Gesù. Ma il vangelo non dice che essi si
sono prostrati in adorazione, come hanno fatto i magi
(Mt2,11). Sono rimasti semplicemente a osservare - stupiti, estasiati
- l'opera meravigliosa che Dio aveva operato in loro favore,
poi hanno annunciato ad altri la loro gioia e quanti li
ascoltavano rimanevano essi pure meravigliati (v. 18).
Nei primi capitoli del suo vangelo, Luca rileva spesso lo
stupore e la gioia incontenibile delle persone che si sentono
coinvolte nel progetto di Dio. Elisabetta, scoprendo di essere
incinta, ripete a tutti: «Ecco cos'ha fatto per me il Signore!»
(Lc 1,25); Simeone e la profetessa Anna benedicono Dio che
ha concesso loro di vedere la salvezza preparata per tutte le
genti (Lc 2,30.38); anche Maria e Giuseppe rimangono meravigliati,
stupefatti (Lc 2,33.48).
Tutti costoro hanno gli occhi e il cuore del bambino che
accompagna con lo sguardo ogni gesto del padre, rimane rapito
di fronte a ogni suo gesto e sorride, sorride perché in tutto
ciò che il padre fa coglie un segno del suo amore. «Il regno di
Dio appartiene a chi è come loro - dirà un giorno Gesù - e
chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà
in esso» (Mc 10,14-15).
La prima preoccupazione dei pastori non è di tipo etico:
non si chiedono che cosa dovranno fare, quali correzioni dovranno
apportare alla loro vita morale non sempre esemplare,
quali peccati dovranno impegnarsi a evitare ... Si fermano a
gioire per ciò che Dio ha fatto. Dopo, solo dopo essersi sentiti
amati sono in grado di ascoltare i consigli, le proposte di vita
nuova rivolti loro dal Padre. Solo così si verranno a trovare
nella condizione giusta per accordargli fiducia.
Nella seconda parte del vangelo (v. 19) viene sottolineata la
reazione di Maria al racconto dei pastori: «Conservava tutte
queste cose nel suo cuore e le meditava» (letteralmente: le metteva
insieme).
Luca non intende dire che Maria «teneva a mente» tutto
ciò che accadeva, senza dimenticare alcun particolare. E nemmeno
vuole - come qualcuno ha sostenuto - indicare in Maria
la sua fonte di informazioni sull'infanzia di Gesù.
La portata teologica della sua affermazione è ben maggiore. Egli dice
che Maria metteva insieme i fatti, li collegava tra loro e ne sapeva
cogliere il senso, ne scopriva il filo conduttore, contemplava
il realizzarsi del progetto di Dio. Maria (ragazzina di dodici-
tredici anni) non era superficiale, non si esaltava quando le
cose andavano bene e non si abbatteva di fronte alle difficoltà.
Meditava, osservava con occhio attento ogni avvenimento,
per non lasciarsi condizionare dalle idee, dalle convinzioni,
dalle tradizioni del suo popolo, per essere recettiva e preparata
alle sorprese di Dio.
Una certa devozione mariana l'ha allontanata dal nostro
mondo e dalla nostra condizione umana, dalle nostre angosce,
dai nostri dubbi e incertezze, dalle nostre difficoltà a credere.
L'ha avvolta in un nimbo di privilegi che - secondo i casi -
l'hanno fatta ammirare o invidiare, ma non amare.
Luca la presenta nell'ottica giusta, come la sorella che ha
compiuto un cammino di fede non diverso dal nostro.
Maria non capisce tutto fin dall'inizio: si stupisce di ciò
che Simeone dice del bambino, è quasi colta di sorpresa (Lc
2,33). Si stupisce come rimarranno stupiti gli apostoli e tutto
il popolo di fronte alle opere di Dio (Lc 9,43-45). Non comprende
le parole di suo figlio che ha scelto di occuparsi delle
cose del Padre suo (Lc 2,50), come i Dodici avranno difficoltà
a capire le parole del Maestro: «Non compresero nulla di tutto
questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò
che egli aveva detto» (Lc 18,34).
Maria non capisce, ma osserva, ascolta, medita, riflette e,
dopo la Pasqua (non prima!) capirà tutto, vedrà chiaramente il
senso di ciò che è accaduto.
Luca la ripresenterà, per l'ultima volta, all'inizio del libro
degli Atti degli apostoli. La collocherà al suo posto, nella
comunità dei credenti: «Tutti erano assidui e concordi nella preghiera,
insieme con alcune donne e con Maria, la madre di
Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). Lei, la beata perché ha
creduto (Lc1,45).
Il vangelo di oggi si conclude con il ricordo della circoncisione.
Con questo rito Gesù entra uffiçialmente a far parte del popolo
d'Israele. Ma non è questa la ragione principale per cui
Luca ricorda il fatto. E un altro il particolare che gli interessa, è il
nome che viene dato al bambino, nome che non era stato
scelto dai genitori, ma che era stato indicato , direttamente dal
cielo.
Per i popoli dell' antico Oriente il nome non era solo un
mezzo per indicare le persone, per distinguere gli animali,
per identificare gli oggetti. Era molto di più, esprimeva la natura
stessa delle cose, formava un tutt'uno con chi lo portava.
Abigail dice di suo marito: «Egli è esattamente ciò che indica
il suo nome. Si chiama Nabal (lett.: «folle») e in lui non c'è
che follia (1 Sam 25,25). Essere chiamati con il nome di un
altro voleva dire impersonarlo, renderlo presente, avere la sua
stessa autorità, richiamarne la protezione (Dt 28,10).
Tenendo presente questo contesto culturale, siamo in grado
di capire l'importanza che Luca attribuisce al nome dato al
bambino. Si chiama Gesù che significa: Il Signore salva. Matteo
spiega: fu chiamato così perché salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).
Nel commento alla prima lettura dicevamo che il nome di
Dio - JHWH - non poteva essere pronunciato. Ma senza nome
si rimane nell' anonimato. Chi non conosce il nostro nome
non può che instaurare un rapporto superficiale con noi.
Se Dio voleva entrare in dialogo con l'uomo doveva dirgli
come voleva essere chiamato, doveva indicare il suo nome,
rivelare la sua identità.
Lo ha fatto. Scegliendo il nome di suo Figlio, Dio ha detto
chi egli è.
Ecco la sua identità: colui che salva, colui che non fa altro
che salvare. Nei vangeli questo nome è ripetuto per ben 566
volte, quasi a ricordarci che le immagini di Dio incompatibili
con questo nome devono essere cancellate.
Ora comprendiamo la ragione per cui nell'Antico Testamento
Dio non permetteva che fosse pronunciato il suo nome:
perché solo in Gesù ci avrebbe detto chi era.
E’ interessante notare chi sono, nel vangelo di Luca, coloro
che chiamano Gesù per nome. Non sono i santi, i giusti, i
perfetti, ma solo gli emarginati, coloro che sono in balia delle
forze del male. Sono gli indemoniati (Lc 4,34); i lebbrosi:
«Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,13); il cieco: «Gesù,
figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Lc 18,38) e il criminale
che muore in croce accanto a lui: «Gesù, ricordati di me
quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42).
Lo ricorderà Pietro ai capi religiosi del suo popolo: «Nessun
altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini,
per il quale possono essere salvati».
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