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giovedì 15 dicembre 2011

Commento spirituale "d i Gabriele" della Parola di Domenica 18 Dicembre 2011 IV Domenica di Avvento Anno B


Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te.


Prima lettura               2Sam. 7,1-5.8-12.14.16

Nella quarta domenica di Avvento si legge dal secondo libro di Samuele la profezia messianica per eccellenza. Samuele fu l’ultimo giudice in Israele prima della monarchia. Saul, il primo re, venne deposto dal profeta Natan perché aveva ignorato la Parola di Dio, al suo posto salì al trono Davide, figlio di Iesse il Betlemita. Davide voleva innalzare un tempio al Signore non solo perché gli era devoto, ma perché voleva fare una struttura religiosa, ad imitazione degli altri popoli, per avere Dio come cittadino del suo regno. In questo brano si dice, invece, che sarà Dio a fare una casa a Davide, consegnando suo Figlio alla storia umana contorta. Gesù Cristo il Messia, infatti, nascendo da Maria, sposata ad un uomo di nome Giuseppe della stirpe del re Davide, fu un suo discendente.
Del brano possiamo fare una profonda lettura spirituale. Anche noi molte volte vogliamo inscatolare Dio e ci accontentiamo di un rapporto templare con Lui, anche noi molte volte vorremmo un rapporto religioso con Dio, invece Egli ricorda a Davide: “Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi il capo d’Israele mio popolo; sono stato con te ovunque sei andato”, perciò questa Parola vorrebbe illuminarci sulla vicinanza di Dio nella nostra itineranza. Anche noi siamo spiritualmente nomadi, itineranti, anche noi non siamo molte volte fermi nelle nostre decisioni, abbiamo nostalgia di un viaggio, perché anche noi veniamo da un grembo esodico, il popolo d’Israele.
È bello pensare che il Signore ci segue ovunque andiamo, che è un Dio vicino al nostro andare. Allora in questa Parola Dio ci chiede dove siamo, e ci invita a non inscatolare il nostro Dio. Davide, prima di fare questa scelta costruendo al Signore un tempio, aveva chiesto consiglio al suo profeta personale Natan ed egli aveva risposto: “Va’, fa’ quanto hai in mente di fare, perché il Signore è con te”, dando una lettura scontata dell’avvenimento, ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa Parola del Signore: “Va’ e riferisci al mio servo Davide: forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti?
Inoltre questa Parola vuole ricordarci che proprio durante le nostre notti sentiamo il Signore, come Gesù sentì la consolazione di Dio nella notte del Getsemani quando, dice Luca, venne un angelo dal cielo per confortarlo. Quando siamo nella nostra notte non diamo risposte scontate, allora Dio ci parla e ci rivela la profondità della vita. Finché viviamo con le nostre piccole gioie, Dio non ci parla e noi diamo risposte umanamente scontate. La notte deve toccarci, dobbiamo cercare Dio nella notte, allora Dio si rivelerà e ci dirà che non dobbiamo fare una casa a Lui, ma è Lui che fa una casa a noi, perché è Lui che ci riveste del suo intelligente amore. Se non faremo esperienza dell’amore di Dio, se non entreremo nel mistero di Dio, se non faremo esperienza della notte oscura, ci illuderemo di fare esperienza di Dio, faremo solo un tempio a Dio. San Giovanni della Croce parla della notte oscura nella quale l’anima fa esperienza di una nudità interiore, ma sente profondamente il suo Signore e non le sue sensorialità su di Lui, che molte volte scambiamo per Lui. In questa esperienza della notte ci verrà rivolta una Parola che ci farà capire il senso profondo della vita che non è sistemarsi, farsi una posizione, ma è soprattutto sentirsi amati da Dio e finché lo siamo, cioè sempre, siamo certi di essere amabili. Molte volte costruiamo una chiesa, cioè facciamo l’involucro, ma non c’è la presenza, certo in Chiesa c’è la presenza eucaristica, ma anche l’edificio è diventato una sala della comunità in cui si fa di tutto, si chiacchiera, si battono le mani, perché si è sfrattato il mistero. Abbiamo buttato fuori dalla Chiesa il Signore e celebriamo celebriamo noi stessi.       

Seconda lettura                    Rm 16,25-27

Questo piccolo brano è la conclusione della lettera di Paolo ai Romani, la lettera più difficile e la più teologica dell’apostolo, che affronta il tema della giustificazione. È una Parola che ha una forte pregnanza ed una potenza dovuta alla parola mistero. Paolo dice: “Io annunzio il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero”. Che cos’è il mistero? Il mistero è una verità che eccede, che sfora che non può essere contenuta nei nostri parametri intellettivi, cerebrali, mentali. Oggi purtroppo viviamo in un tempo, in una cultura che ci ha disabituati al mistero e ci ha abituati ad un’immagine immediata, colorata, veloce, perciò oggi la gente ha perso il gusto del mistero e anche nella Chiesa molte volte la celebrazione di Dio è diventata un parlarsi addosso degli uomini. L’essere disabituati al mistero, il non essere più capaci di stupirci del mistero, porta subito ad una conseguenza negativa anche per noi stessi, cioè ci riteniamo e ci sentiamo solamente delle entità spiegabili, razionali, utili, meccanicistiche e fisiche. Oggi, infatti, la gente è incapace di sopportare nella propria vita delle dimensioni inspiegabili, perché vorrebbe che tutto ciò che tocca la propria vita avesse la forza della logica, della spiegazione, della razionalità, dell’equilibrio. Quando nella nostra vita ci sorprende qualche aspetto o qualche atteggiamento umanamente inspiegabile, pensiamo ad esempio a certi aspetti interiori affettivi che rifiutiamo, allora nella logica della razionalità questi aspetti sono come una lima che ci corrode dentro, perché vorremmo collocarli in un ambito di spiegazione logica e non ci riusciamo e di conseguenza cominciano la patologia, l’alienazione ed il malessere. Spesso, infatti, dimentichiamo che noi non siamo stati confezionati come prodotto finito, ma Dio ci ha creati come essere aperti al mistero. Dentro di noi Dio ha messo una sana malattia, la tensione al mistero, all’oltre, che nella cultura di oggi è completamente dimenticato. Noi siamo misteri protesi verso il mistero.
Allora è una pura illusione conoscere completamente anche il nostro consorte, perché anche lui è un essere, un inquietudine dinamica aperta al mistero. È il mistero che ci attrae, che ci attira, siamo diretti verso di esso, oggi, invece, la gente ha sostituito il mistero con il traguardo, con l’obiettivo da raggiungere e quando nella vita di ciascuno molti traguardi sono stati raggiunti (laurea, lavoro, matrimonio, ricchezza, casa, figli) cominciano nuove inquietudini, perché noi non siamo spazio da riempire, ma siamo un mistero che deve essere amato e toccato dal mistero di Dio.
Inoltre in questa vita riduttiva e funzionale è completamente disistimato il valore del silenzio, del non dire, invece questa Parola ci dice che Dio ha taciuto il mistero per molti secoli, sebbene Paolo di fronte al mistero fa una conta umana che non regge, Dio non ha avuto fretta di rendere conto del suo mistero, invece oggi viviamo un’altra malattia: siamo convinti che spiegarci e parlarci risolva i problemi, siamo sicurissimi che le nostre parole, le nostre convinzioni, le nostre ragioni possano veramente sistemare le situazioni, invece vediamo che mai come oggi le parole sono fragili, e il puù delle volte ne siamo stanchi. Abbiamo sete del silenzio, ecco perché il mistero e il silenzio sono strettamente legati tra loro. Non potremo mai entrare nella soglia del mistero se non sappiamo tacere, se non sappiamo far silenzio esterno ed interno. Far un silenzio interno significa placare la nostra voglia di dire, di manifestare, di rendere conto, di convincere.
Oggi c’è tanta gente convinta, c’è pochissima gente avvinta. Oggi molta gente è lontana dalla fede o si allontana da un’esperienza di fede perché non è mai entrata nel mistero e mai come oggi i sacramenti subiscono l’aggressione umana dell’interpretazione, non sono più segni, passaggi del mistero.
La Chiesa negli ultimi quarant’anni, dopo il Concilio Vaticano II, ci ha abituato ad una partecipazione attiva alla Messa a danno però di uno stupore di un mistero.
Dio è un mistero, ecco perché il nostro silenzio interiore è placare la tirannia della ragione, delle parole, della logica, altrimenti non faremo mai esperienza di Dio.
Una volta chiesero ad un vecchio monaco quale fosse la cosa più importante della vita, egli non rispose che era la fede come tutti si aspettavano, ma ala consapevolezza di chi si è, ma soprattutto la consapevolezza di chi non si è e di ciò che saremo perché ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Il fascino del mistero e la familiarità con esso è un aiuto grandissimo per una lettura intelligente della nostra interiorità.
Chi abita dentro di noi, chi muove la nostra interiorità? Noi siamo quello che appariamo?
La nostra esasperazione relazionale con gli altri nasce perché vogliamo sempre capire, razionalizzare, regolarizzare le dimensioni altrui, dimenticando che ogni alterità è un mistero. La Parola ci invita ad entrare in queste verità, in questo mistero taciuto per secoli ed ora rivelato, annunciato, ma non esaurito. Di Dio conosciamo un soffio, un palpito. Il silenzio è l’antidoto contro la banalizzazione della vita.   

Vangelo                      Lc 1,26-38

Un vangelo letto conosciuto, quasi usurato. È certo che Maria ha raccontato a Luca qualcosa di questo evento, non tutto ed egli lo ha narrato con un genere letterario tipico della Bibbia, il racconto di vocazione, in cui è presente un angelo che annuncia, un soggetto che è destinatario del messaggio, la risposta del soggetto, il ritorno dell’angelo a Dio che l’ha mandato.
Maria ha raccontato a Luca un’esperienza intima, interiore, sconvolgente, che è avvenuta senza testimoni, un’esperienza tutta spirituale, tutta di Dio.
È un vangelo molto rivoluzionario perché si contrappone alla profezia di Natan  e alla voglia di Davide di fare un tempio al Signore. Con Maria Dio comincia da un’altra parte. Egli, quando ha voluto attuare il mistero nascosto e taciuto per secoli, ha disertato le strutture su di Lui: non ha mandato l’angelo Gabriele al tempio, ad un sommo sacerdote, ad un levita, ad un maestro della legge, ad uno scriba, Dio non ha frequentato le strutture sacrali, ma ha voluto iniziare con la struttura unica che lui ha voluto e creato, cioè una persona che ha un nome, una coordinata storica, geografica, culturale, sociologica. Dio inizia con un tu ed, essendo allergico alle strutturazioni e alle strutture, va cercare una fanciulla che non era strutturata, non era nemmeno profetessa, come Anna, che da anni serviva Dio nella preghiera e nel digiuno, una ragazza inconsapevole che non aveva nessun senso di attesa su Dio. Dio sceglie la persona, per questo oggi Dio sceglie ognuno di noi. L’angelo, entrando nella storia di Maria, non tanto nel suo domicilio, ma nella sua interiorità di vita, nella sua profonda realtà, le dice come prima cosa: “Ti saluto, o piena di grazia”, cioè Dio cerca una relazione con un tu e questo mette in crisi Maria, infatti l’evangelista dice che “A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto” perché il linguaggio di Dio è il linguaggio dello Spirito e non comincia da un’efficienza efficiente, ma comincia da una grazia prevenientemente data, per cui piena di grazia, non è solo Maria, ma è ciascuno di noi quando si apre allo stupore di Dio. Allora Dio comincia la nostra vita, la nostra persona, la nostra storia non da una efficienza, non da un calcolo, da un bilancio o da una valutazione, ma dalla grazia, da qualcosa dato che viene prima della risposta. Ciascuno di noi è toccato, segnato, riempito di Lui.
La grazia di Dio è quella presenza continua di Dio, quella gratuità, quella tenerezza di Dio in ciascuno di noi, dentro la nostra storia e la nostra vita. Questa struttura di Dio, che è la persona umana, viene interpellata da Dio dopo averla estrapolata da qualunque assembramento e da qualunque gruppo. Quando l’angelo si presentò a Maria non c’era nessuno con lei, era sola, e Dio parlò solo a lei, perché non è il Dio del collettivismo, della comunità. Dio incontra ciascuna persona e le rivolge queste parole: “Saluto te, piena di grazia”.
Maria, l’incredula, non capisce il senso di questo saluto, perché non era entrata nel mistero di Dio, che le si era rivelato in modo sorprendente ed inaspettato. Il nostro nome, il nostro essere è l’unica struttura che Dio cerca, ama e salva, tanto che Paolo dice: “ Dio ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo” e ancora: “Voi siete il tempio di Dio”. Noi siamo struttura interpellata, noi siamo pieni di grazia, siamo noi quelli che Dio cerca senza che noi lo cerchiamo.
L’angelo continua: “Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”, ma Maria risponde ancora con linguaggio umano: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Maria parla ancora un linguaggio del possibile, del fattuale, del funzionale, perché è ancora ferma all’uomo, invece il linguaggio di Dio è, come dice Paolo nella lettera ai Romani, “un gemito inesprimibile, perché nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare”.
L’angelo invita Maria a lasciarsi coprire dall’ombra di Dio. Dobbiamo anche noi fare un’esperienza personale di Pentecoste, perché se non viviamo questa discesa dello Spirito santo, saremo un grembo vuoto. Se non ci lasceremo bruciare dentro dalla bruciatura dello Spirito, Gesù non nascerà in noi.
Al Dio dell’impossibile, Maria dà la sua risposta: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, accettando così di essere struttura di Dio.    

   

 
Commento spirituale della Parola di Domenica 04 Dicembre 2011
II Domenica di Avvento Anno B
Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
                                                    
Prima lettura       Is 40,1-5.9-11

Il brano della prima lettura è tratto dal secondo Isaia, detto il libro della consolazione, ed accompagna il ritorno degli esuli da Babilonia, dove erano stati trattenuti per 70 anni da Nabucodonosor. Ciro determina il crollo della superpotenza babilonese e permette il loro ritorno a Gerusalemme; una volta in patria, gli ebrei ricostruiranno il secondo tempio (è l’epoca di Esdra, di  Neemia, dei Maccabei), il tempio del tempo di Gesù, distrutto da Tito nel 70 d.c., coperto da un tempio dedicato a  Giove nel 135 quando l’imperatore Adriano caccerà gli ebrei da Gerusalemme dove ritorneranno solo nel 1948.
La Parola inizia con un forte imperativo ripetuto: “Consolate, consolate il mio popolo”. Il ministero della consolazione, il dono della consolazione non viene prodotto da noi, perché noi produciamo solo compatimento e condoglianze, ma la consolazione viene donata per grazia a chi si mette alla scuola di Dio. Il mistero del nostro Dio è un mistero di consolazione, dice infatti l’apostolo Paolo: “Benedetto sia Dio, padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci consola in ogni nostra tribolazione”, Gesù stesso si definisce il consolatore e definisce lo Spirito santo un altro consolatore, Paraclito. Perciò tutta la Trinità dona consolazione. Per essere consolati dobbiamo diventare umili discepoli, umili scolari della scuola di Dio e la scuola di Dio è il mistero della preghiera. La consolazione si realizza, si dona e si manifesta in un dono che riceviamo, un dono raro, ma non perché Dio sia tirchio nel darlo, ma perché molti non lo prendono. La consolazione è il dono del parlare al cuore, come ci dice lo stesso Isaia: “Parlate al cuore di Gerusalemme”.
Parlare al cuore di una persona non è imparare una lingua straniera, non è imparare una grammatica, perché il cuore degli altri non è un libro; noi non siamo quello che diciamo, quello che facciamo, noi non siamo quello che mostriamo, ma ciascuno di noi è il suo cuore, è solo questo, il resto è tutta una variazione sul tema che molte volte schiaccia e maschera il mistero del cuore.
Quando il nostro cuore non viene raggiunto da questa lingua di grazia e di dono divino, soffre, il cuore piange, il cuore viene ferito. Quando non parliamo al cuore, intossichiamo il dono ricevuto della relazione interpersonale, perché è Dio che ha creato la relazione tra di noi, essa non viene come necessità umana, Dio ci ha creati per essere persone di relazione, ma quando la relazione non percorre il linguaggio del cuore, questa relazione che Dio ha creato affinché sia terapeutica per noi e per gli altri, si trasforma in relazione intossicata.
Oggi vediamo come i nostri contemporanei abbiano sete di una relazione profonda, di un linguaggio diverso, di un affondo profondo nella vita, ma molta gente si accontenta di passeggiare con il cane e non parla più a nessuno. Il parlare al cuore delle persone non è fare un’analisi, che peraltro non spetta a noi, ma il parlare al cuore delle persone è far loro riscoprire quel gran tesoro di positività che possiedono che viene sepolto e nascosto da una problematizzazione esasperata mentale. Quanta gente, perché non viene raggiunta nel linguaggio del cuore, diventa logorroica o muta! Quando il cuore non viene visitato dal linguaggio della grazia di Dio, esso produce tre prodotti tossici: l’arroganza, la strafottenza e il ruggito difensivo.
Il parlare al cuore si manifesta nel godere per una persona e nell’essere collaboratori umili ed intelligenti della sua felicità, perché Dio non rimanda la felicità nella vita eterna, ma vuole che cominci già qui. Quando siamo collaboratori della felicità degli altri? Quando, incontrandoli, li facciamo respirare con la tolleranza intelligente di Dio per i nostri cuori. Dio sa che l’operatività che viene dall’immediato e dal mentale non è prodotto nostro, ma è prodotto del nemico. Quando egli entra non arriva al nostro cuore, perché Dio glielo impedisce, ma fa una cosa più potente, stacca i fili del cuore dalla mente e lo manda in black out e nella mente confeziona ossessioni, paure, depressioni, solitudini, rapporti artificiosi…
Invece, quando Dio arriva nel cuore, ci riconcilia con la nostra visuale immediata delle cose che non vanno, perché l’accusatore, oltre che staccarci il filo del cuore dalla mente, ci sfalsa la vista e non ci permette di vedere con gli occhi di Dio il deserto, la steppa, la valle, il colle in noi. Siamo sotto tentazione diabolica quando il nostro granello di sabbia diventa una montagna, ma quando arriva lo Spirito, Egli soffia e la montagna friabile se ne va.
Quando parliamo al cuore gridiamo, non nel senso che alziamo il tono fonico, ma gridiamo una grande notizia e cioè che tutto ciò che vediamo noi di connesso, di sconnesso e di annesso non è quello che vede Lui. Non avanziamo nella vita spirituale perché il dolore dei nostri peccati è un disagio coscienziale e non nasce dall’amore e perché soprattutto ci ostiniamo a guardarci da soli e, guardandoci da soli, sfalsiamo ciò che vediamo. Solamente se entriamo nel cuore di Dio, nella grazia di Dio, nell’amore di Dio, tutto si rivelerà perché il Signore sta arrivando con potenza: “Egli esercita il dominio con il braccio, è dolce con le pecore madri e porta gli agnellini sul petto”, perché Dio non è la nostra misura, non è il nostro calcolo, non è quello che pensiamo noi o quello che abbruttiamo noi o quello che riduciamo noi.
Ci dobbiamo chiedere se il fallimento nella catechesi dipenda forse dal fatto che non stiamo trasmettendo Dio, ma trasmettiamo prodotti mentali, dal fatto che trasmettiamo qualcosa di confezionato, bello dal punto di vista didattico, ma che non è un’esperienza sponsale d’amore. Dio non arriva al cuore con la didattica, perché è nel cuore che ciascuno di noi nasconde la sua verità, perché noi siamo il nostro cuore.
Quando parliamo al cuore delle persone, le inchiodiamo, perché si stupiscono che finalmente qualcuno sta interpretando la loro verità.

Seconda lettura               2Pt 3,8-14

La seconda lettura è tratta dalla seconda lettera di Pietro, un testo del circolo di Pietro che con un linguaggio apocalittico descrive il giorno del Signore.
Che cosa vuol dire l’espressione: “Davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno”?
Innanzitutto significa che Dio non ha il tempo, Dio è eterno, Dio ha delle modalità di dono che sono sue e non sono legate al tempo. Perché un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno? Perché quando nella nostra vita riceviamo una sola scintilla dell’amore di Dio in noi, quella sola scintilla porta la pienezza che disseta la nostra sete, anche se fosse di mille anni, perché il dono di Dio è pieno, totale. Quando siamo dentro il cuore di Dio e lo amiamo, il nostro paradiso comincia qui. Il paradiso non è altro che la certezza del cuore di essere amati da Lui. Quando ci facciamo travolgere dalle colpe, dai peccati, dalle angosce, dai rimorsi vuol dire che non siamo ancora profondamente convinti che Dio ci ama senza condizioni, perché l’amore di Dio è incondizionato. Quando Gesù tornerà nella gloria tutto sarà bruciato e tutto brucerà perché Egli tornerà incandescente d’amore sul suo cocchio di fuoco, che è il suo corpo glorificato, e il suo amore incendiario brucerà ogni cosa. Lui solo incendierà perché noi abbiamo estinto (“Ho portato un fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso”) infatti quando non siamo innamorati di Gesù diventiamo dei potenti estintori, dei pompieri impietosi. Quando Gesù tornerà nell’incandescenza dell’amore brucerà tutti gli elementi secondari, tutti gli elementi precari, rimarranno integre solo le anime e i corpi, alla fine dei tempi, e Dio riconoscerà i suoi perché essi saranno capaci di ricevere l’ustione incandescente del suo amore, gli altri, invece, saranno bruciati nella disperazione di non aver saputo accogliere l’incandescenza del suo amore. Ciò avverrà non perché Dio sia cattivo, non perché egli castiga, ma perché con l’amore non si può obbligare, l’amore non contempla un’amnistia generale, l’amore si dona nel massimo rispetto di ogni libertà voluta, consentita, preparata, amata. Ecco perché il fuoco in senso spirituale sarà l’ultima definitiva vera pentecoste. Questo fuoco ardente, che brucerà gli scenari di cartapesta, precari, brucerà anche la chiesa legata agli scenari di questo mondo perché rimanga la chiesa totalmente libera.
“Perciò, carissimi, noi aspettiamo nuovi cieli e terra nuova”, cielo e terra nuovi che sono dentro di noi, nel nostro cuore. La preghiera è l’operatività dello Spirito santo che brucia con l’incandescenza la nostra anima perché il nuovo cielo e la terra nuova saranno l’amore incandescente e ustionante di Dio e questa ustione durerà nei secoli dei secoli perché l’ustione dell’amore di Gesù glorioso sarà l’anello nuziale delle anime che hanno scelto l’amore. 

Vangelo              Mc 1,1-8

Abbiamo un Dio imprevedibile, sorprendente, ingestibile, perché quando vuole preparare un messaggero per Gesù non va a cercarlo nel tempio, dove avrebbe potuto scegliere tra i sacerdoti, i farisei, i leviti, i rabbini, i sadducei, Dio non va nel serbatoio strutturato e ufficiale, ma quando Dio vuol far precedere a suo Figlio un annuncio ci stupisce: “Voce di uno che grida nel deserto”.
Le nostre comunità cristiane spesso non sono profetiche perché sono voci di molti che gridano, ma l’uno contro l’altro, perché vuole vincere chi deve essere primo, allora Dio si ritira e la comunità celebra e trasmette se stessa, i suoi incarichi, i suoi ruoli, i suoi posti di potere. Dio usa una persona sola quando vuole grandi cose, pensiamo ad Abramo, a Mosè, a Isaia, a Giovanni Battista, a Maria, a Maddalena, a Zaccheo, a Matteo; noi, invece, abbiamo esasperato la comunità e abbiamo detto che essa ha il diritto di primogenitura su tutto e su tutti. Tutti i profeti di Dio, tutti i santi di Dio hanno sempre schivato questa logica: solitari nell’amore, visti male, giudicati, profanati, cacciati, condannati, ma essi tolgono il disturbo perché il loro posto è il deserto e il Giordano. Gli annunciatori di Dio non hanno bisogno di supporti comunitari, quando il supporto comunitario dovesse rubare ad ogni anima ciò che Dio vuole da quell’anima.
I grandi uomini e le grandi donne di Dio sono persone essenziali, intolleranti, ruggiscono (il famoso riib profetico, il ruggito dei profeti).
E Marco sottolinea che di fronte a quest’uomo solo, strano, irruento, accorrevano tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme, perché lo Spirito santo parla attraverso i folli di Dio.
Giovanni battista era figlio di un prete incredulo, di una madre già avanti negli anni, era nato per essere un segno per Maria, più vecchio di Gesù di qualche mese, proprio quest’uomo viene scelto da Dio. Giovanni Battista è stato scelto perché era innamorato di Gesù e diceva alla gente di non cercare lui perché sarebbe venuto uno più forte di lui, lui battezzava con acqua, ma sarebbe venuto chi li avrebbe battezzati con il fuoco, a cui lui non era neanche degno di sciogliere i sandali: gli uomini di Dio non sono mai protagonisti di se stessi, non cercano mai la folla, la subiscono come croce, non cercano applausi, cercano Dio. Poiché Giovanni Battista aveva perso la testa per Dio e per Gesù, la morte logica è stata la decapitazione di Erode, che ha sigillato il grande amore e la grande follia del precursore per Gesù, perché quando si è suoi si perde la testa, si perde il cuore, si perdono gli amici, ma Gesù basta.   

 
Commento spirituale della Parola di Domenica 30 Novembre 2008
I Domenica di Avvento Anno B
Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

Prima lettura       Is 63,16-17.19;64,1-7

Il brano, tratto dal terzo Isaia, è una bellissima preghiera composta dagli esuli che, tornando nella terra promessa dopo l’editto del re Ciro, vedono la decadenza dovuta all’assenza di un popolo e si rivolgono a Dio. È una grandissima lirica in perfetto stile biblico che invoca Dio e ne ricorda le opere, primo tra tutti l’esodo, che Israele, allontanandosi sempre più dal dato storico, caricherà di enfasi epica (“Davanti a te tremavano i popoli, quando tu compivi cose terribili che non attendevamo”). Israele è il partner di Dio e in questa preghiera potremmo quasi vedere un dialogo rifondante una storia tra un popolo che torna dall’esilio e Dio che lo accompagna.
In questa preghiera l’orante attribuisce dei bellissimi titoli a Dio: “Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore”, “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma” ed esprime la sua forte nostalgia dell’origine, dell’eden, quando Dio plasmò con l’argilla Adamo. Perciò questa preghiera di Isaia raccoglie il sussulto nostalgico di ogni uomo e di ogni generazione che scopre che senza Dio vive un’antropologia riduttiva e castrante, infatti senza Dio l’uomo si ritrova a dire: “Siamo divenuti tutti come cosa impura, e come panno immondo sono i nostri atti di giustizia: Tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento”, è un uomo che si sente solo, fragile, mutevole, orfano, incapace di una salvezza.
È il dramma che oggi sta vivendo l’uomo nella post modernità, che si è reso conto che né le ideologie né i leaders né la scienza né il progresso possono salvarlo. È un uomo che ricerca la sua identità, le sue radici, che sente dentro di sé la nostalgia di una relazione rigenerante, fondante salvante la sua vita.
Oggi la relazione interumana è impossibile se non viene generata da una relazione teologica con Dio. Mai come oggi, infatti, l’uomo è solo e cerca di essere in comunicazione con l’umano, ma percepisce dentro di sé la mancanza di Dio. L’uomo sente il bisogno delle mani originanti di Dio per rigenerarsi nella sua storia, nella sua vita, nella sua speranza, nel suo coraggio, nella sua identità. È un uomo ridotto ad un sintomo, ad una provetta, ad una costruzione in laboratorio, ad un’utilizzazione, un uomo che si sente violentato nella sua libertà, si sente inseguito dall’altro uomo, che si è smarrito nel deserto di un silenzio, e sta vivendo un pianto a dirotto perché dall’altra parte si è fatto silenzio. Dio non parla, se noi non lo desideriamo, non lo cerchiamo; se noi non lo vogliamo, egli ci abbandona, perché spera che la solitudine apra in noi la nostalgia di una ricerca. Essendo senza Dio, l’uomo non vive più nemmeno la relazione più grande, l’amore, è un uomo che si stanca di tutto e di tutti, perché creato da un Creatore che l’ha ammalato di eternità. Perciò nella preghiera quest’uomo chiede a Dio il ritorno per amore dicendogli addirittura: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi”, è un uomo che vuole lo squarciamento del cielo, che nasconde il mistero, affinché Dio scenda per dargli ancora amore e speranza.       

Seconda lettura            1 Cor 1,3-9

Leggiamo questa domenica una parte della lettera che Paolo rivolge ai Corinzi, una comunità non molto numerosa che egli amava molto e per la quale ha sofferto arrivando a scrivere anche la famosa lettera delle lacrime. Alla comunità, di cui Paolo è il presbitero, augura grazia e pace che vengono da Dio Padre e da Gesù. Ciò che colpisce in questa Parola è il rendimento di grazie continuo che Paolo fa per ciascuno di loro, probabilmente, infatti, Paolo conosceva ogni volto, ogni storia, ogni vicenda, ogni attesa, perciò ringrazia Dio per loro.
Questo particolare ci fa riflettere sul fatto che noi non siamo in questo mondo per caso, non siamo organico di un comune, cittadini di uno stato, ma siamo doni di un Dio che ci ha donato alla storia, riservandosi a lui la grazia e la pace per ciascuno di noi, ecco perché ciascuno di noi dovrebbe sentirsi prestato dall’amore di Dio alla storia, non fagocitato o posseduto dalla storia. Nulla nella nostra vita dovrebbe possederci, ma dovremmo essere sempre totalmente di Dio per essere liberi. Ciascuno di noi non è un incidente di percorso, non è una persona mediocre che vivacchia, ma è un dono, per cui è dovere ringraziare il datore di questo dono, Dio, per il dono che ha fatto alla storia. Noi siamo soggetti di un rendimento di grazie e questo basterebbe a far scomparire da noi quella mediocrità, quella disistima, quel trascinarsi che molte volte ci fa ritenere persone non interessanti, domate e sconfitte da un tran tran, da un’abitudine, da una routine dove tutto è scontato. Chi è generato da Dio è grande ed è un dono non solamente per se stesso, ma è un dono a motivo della grazia che è data a ciascuno gratuitamente e ci ha arricchiti di tutti i doni: quelli della Parola e quelli della scienza. Gli uomini e le donne che si lasciano amare e generare dalla Parola sono uomini e donne che sfuggono ad ogni indagine umana, analitica, fenomenologica, caratteriale, perché siamo investiti, ricoperti, rivestiti di una grazia.
Il nostro carattere e le nostre coordinate psicologiche, che fanno testo per gli uomini e le donne senza Parola e senza spiritualità, non sono il testo definitivo per gli uomini e le donne nate dal soffio di Dio, perché in noi sta crescendo una personalità spirituale, una personalità della grazia. Dio ci fa entrare in questa logica di grazia, ecco perché Paolo parlerà dei due uomini: l’uomo carnale e quello spirituale. Oggi è molto difficile un’interpretazione intelligente della persona umana, anche un’interpretazione esatta, basata su aspetti psicologici e scientifici, non accontenta e non basta a dire quello che siamo, perché noi sfuggiamo, siamo eccedenti ad ogni indagine umana perché in noi è presente una personalità spirituale, la personalità della grazia. Noi siamo generati dalla logica misteriosa di Dio, anzi noi siamo stati arricchiti di tutti i doni: quelli della Parola e quelli della scienza. Paolo dice che da quando i Corinzi hanno accolto la testimonianza di Gesù, cioè il suo annuncio di passione, morte e risurrezione, questa testimonianza si è stabilita tra loro così saldamente che nessun dono di grazia manca loro.
Pensiamo per quanti anni non ci siamo amati, accolti, stimati, valutati perché eravamo prigionieri di un’asfissia umana e lo siamo tuttora. Ecco perché oggi la relazione tra le persone è difficilissima e delicata perché è una relazione catturante il dato dell’altro e non stupefacentemente stupita del non dato analitico. La grazia non tratteggia la persona, perché se lo facesse la conterrebbe, la grazia non ha manifestazioni da manuale, in ogni persona ha una ricaduta diversa, una dinamica con tempi e con effetti diversi. Perciò noi siamo stanchi e soli interiormente perché ci hanno rubato la grazia, inchiodandoci ad un ruolo tutto umano nel quale dobbiamo essere un centro di elaborazione di dati e di osservazioni e in cui veniamo valutati nel metro umano. La dimensione spirituale è scomparsa perché non si vede e l’uomo di oggi non vuol fare la fatica di vedere l’invisibile, ha uno sguardo stanco e non vuole più nemmeno il collirio della fede (Apocalisse lettera alla Chiesa di Laodicea). La grazia, invece, quando sopraggiunge in noi, ci fa respirare e quando diventa signora della nostra vita, permettendoci di vincere la tirannia del dato psicologico a suo vantaggio, genererà in noi la nostalgia. La pienezza di grazia, quando è in noi, non fa altro che squarciare ancora di più il labbro del cuore della nostalgia (“mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore Gesù Cristo”). Infatti quando siamo uomini e donne di grazia non ci bastano più nemmeno i doni di Dio dati nella mediazione sacramentale, storica, umana, perché il nostro cuore, toccato dalla grazia, aspetta la manifestazione, il giorno del non tempo.
La grazia ci ricolma, ma non ci riempie perché, se lo facesse, farebbe un atto di idolatria di se stessa; essa ci ricolma, ma ci lascia ancora più sete, perché ci vuol portare a quell’origine che sola ci può saziare, Dio. Siamo grandi come creature, siamo stupore di Dio. Se ciascuno si facesse lavorare dalla grazia, avremmo esperienze di Dio meravigliose. Concludendo, Paolo dice che noi siamo chiamati ad una comunione, alla via unitiva, la via dei mistici. 

Vangelo      Mc13,33-37

Questa domenica, prima di Avvento, iniziamo a leggere il vangelo di Marco, che è il più antico ed il più breve e non narra l’infanzia di Gesù, ma propone subito l’annuncio del regno.
In questo capitolo si parla del vegliare e della vigilanza e Marco usa un’idea che abbiamo letto anche l’altra domenica nel vangelo dei talenti: “È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare”. In queste righe viene presentata la Chiesa, che non è di se stessa, ma è di Dio e nella Chiesa nessuno è padrone, ma tutti amministratori (alla figura del portiere si potrebbero dare  diverse interpretazioni: il papa, i vescovi, i pastori). Dio ha affidato i suoi beni a questa realtà, che in diverse occasioni si è dimostrata piccola, povera, disprezzata, peccatrice, ma anche santa, grande, luminosa. Questa Chiesa può correre un grave pericolo e quando si parla di Chiesa si parla di ciascuno di noi, perché ogni battezzato è Chiesa. La Chiesa può subire una tentazione sottile ammantata di bontà: può diventare protagonista e non più amministratore. Anche noi nella Chiesa possiamo diventare idolatri del compito che abbiamo ricevuto, ci possiamo autocentrare in noi stessi, cancellando completamento l’imprevisto del ritorno di Dio. Quando una Chiesa è satura di autoprotagonismo, di autoaffermazione, di efficientismo, di tirannia dei ruoli, quando nella Chiesa non ci si sente più in prestito, ma radicati, piantati, sistemati ed autorizzati, scompare la nostalgia, ma una Chiesa senza nostalgia si riduce subito ad un’agenzia di beneficenza, ad un’agenzia di tempo libero. Una Chiesa senza nostalgia di Dio diventa un’entità per fare un generico bene, perché questa autoaffermazione, questa ubriacatura di se stessi e questa prevaricazione idolatra del ruolo e del compito hanno cancellato Dio. L’autoritarismo del ruolo soffoca l’autorevolezza dello Spirito e, cacciato lo Spirito, cessa la nostalgia ma, quando cessa la nostalgia e l’apertura ad un ritorno, tutto diventa asfissiante e la Chiesa non vive più innestata nel tempo del Kairos, nel tempo di Dio, ma si riduce ad essere una Chiesa della cronologia, imprigionata nel tempo.
Quando una Chiesa non ha più nostalgia di Dio, propone se stessa, ma non convince. Una Chiesa che non ha più le porte aperte per il ritorno del Signore è una Chiesa che non ha più profezia, perché non ha più la molteplicità delle ore di Dio, ma ha fissato un orario solo, che è unicamente per una piccola fascia: “Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso”.
Il vangelo, allora, ci invita a vegliare perché il Signore al suo ritorno non ci trovi addormentati nel nostro ruolo autoritario, nella cronologia e nella sistemazione che addormentano la nostalgia, il desiderio e la grazia.  

 
           
       


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