Pubblicato da Le parole e le cose
di Eva Illouz
[Pubblichiamo un estratto del saggio Perché l’amore fa soffrire di Eva Illouz, uscito in questi giorni per Il Mulino. Queste pagine, tagliate per esigenze redazionali, sono tratte dal terzo capitolo, La richiesta di riconoscimento: l’amore e la vulnerabilità del Sé. Nei mesi scorsi abbiamo pubblicato una videointervista all’autrice e unarecensione di Barbara Carnevali al libro]
Il passaggio dal corteggiamento premoderno a quello moderno è il passaggio da rituali e significati pubblicamente condivisi a interazioni private in cui l’altro viene valutato secondo criteri molteplici e transitori: l’attrazione fisica, la chimica emotiva, la compatibilità dei gusti e l’assetto psicologico. La classe sociale, il rango, il «carattere» appartengono a un mondo in cui i criteri per stabilire il valore erano noti e pubblicamente espressi; oggi invece il valore sociale deve essere negoziato nell’ambito dei gusti individuali. Per esempio, la seduttività e la desiderabilità, sebbene seguano canoni pubblici di bellezza, sono soggette a una dinamica del gusto individualizzata e pertanto relativamente imprevedibile. La desiderabilità, assunta come criterio primario di scelta del partner, complica la dinamica del riconoscimento, crea incertezza, implica che l’uomo e la donna abbiano scarsa capacità di prevedere se verranno giudicati attraenti da un potenziale partner o riusciranno a mantenere vivo il suo desiderio. In uno studio sui single timidi gli psicologi Jacobson e Gordon descrivono un’esperienza che di fatto è sociologica:
Nella mia esperienza di psicologo a New York affrontare un appuntamento è il denominatore comune che innesca la timidezza nei single di qualsiasi età, siano essi donne o uomini. Nella loro ricerca di qualcuno con cui condividere la vita, molti dei miei pazienti mi riferiscono di essere colti da sentimenti di paura del rifiuto e inadeguatezza talmente forti da trovare qualsiasi scusa per non uscire di casa. [...] Circa dieci anni fa cominciai a notare che erano sempre più numerosi i pazienti che affermavano di sentirsi socialmente incompetenti, invisibili agli altri e spaventati – soprattutto se dovevano affrontare un appuntamento o un contesto sociale.
Il senso di invisibilità riferito da questi pazienti o, per usare un termine più comune, la loro «paura del rifiuto» è pertanto soprattutto la paura di ciò che Honneth definisce «invisibilità sociale», una condizione in cui l’individuo viene fatto sentire socialmente indegno. Può avere origine da forme di umiliazione sottili, non apertamente espresse: la mimica facciale, in particolare l’espressione degli occhi, del volto, e il sorriso costituiscono il meccanismo elementare di visibilità sociale e una forma altrettanto elementare di riconoscimento. È questa invisibilità a minacciare il Sé nelle relazioni sentimentali, proprio perché i segni di conferma veicolano la promessa di conferire piena esistenza sociale.
Questa forma di autocritica è molto diversa dalle strategie di autosvalutazione ottocentesche di cui si è discusso in precedenza: non consiste nella manifestazione del carattere; riflette piuttosto quella che potremmo definire «incertezza concettuale di sé», o incertezza dell’immagine che si ha di sé e dei criteri per determinarla. L’incertezza concettuale si pone all’estremo opposto dell’autosvalutazione. Quest’ultima innanzitutto non veniva tenuta nascosta, ma dichiarata apertamente; non minacciava l’ideale del Sé ma piuttosto lo rappresentava, richiedeva la rassicurazione rituale dell’altro, creava un legame, presupponeva il riferimento implicito a ideali morali noti a entrambe le parti. In una lettera al fratello Theo, Van Gogh descrive come il suo amore venne rifiutato dalla cugina Kee.
La vita mi è diventata molto cara e sono felice di amare. La mia vita e il suo amore sono una cosa sola. «Ma ti trovi di fronte a un chiaro rifiuto!» obietterai. Rispondo: «Vecchio mio, per il momento considero quel rifiuto come un blocco di ghiaccio che mi stringo al cuore, sperando di riuscire a scioglierlo.
Per Van Gogh essere rifiutati non rappresentava una minaccia al proprio status o al proprio valore, ma un’ulteriore opportunità che si offre all’uomo di dare prova della sua capacità di sciogliere il gelo del rifiuto. Lo si confronti con la testimonianza resa da una quarantenne omosessuale che si è da poco impegnata in una nuova relazione:
Abbiamo trascorso un fine settimana fantastico: ho incontrato la sua famiglia e i suoi amici, e anche il sesso tra noi è stato stupendo… e dopo quel fine settimana lei mi dice che forse sarebbe stato meglio vederci solo per due ore stasera, o forse meglio aspettare domani. Mi sono sentita così arrabbiata con lei. Furiosa. E ora, mentre ne parlo, mi sento sopraffatta dall’ansia. Mi sento paralizzata. Come ha potuto farmi questo?
Questa donna è divorata dall’ansia perché la richiesta della sua innamorata di incontrarla «solo» per due ore si riduce a un sentimento di «annichilimento sociale». Nelle sue memorie autobiografiche Catherine Townsend, editorialista di una rubrica sul sesso dell’«Independent», racconta la rottura della relazione con il suo compagno, circostanza che le ha procurato una sofferenza tale da indurla a frequentare un incontro dei Sex and Love Addicts Anonymous dove si presenta così:
Mi chiamo Catherine e sono dipendente dall’amore [...]. Fino ad oggi non riuscivo a immaginare perché non riuscissi a gestire con successo la mia ultima relazione. Penso fosse perché volevo essere abbastanza in gamba da essere quella «giusta» per lui. Credo che in- consciamente volessi dare prova di valere tanto da indurre qualcuno a sposarmi. Quindi facevo di tutto per tenermi il mio ex a tutti i costi.
Chiaramente la sofferenza di Catherine coinvolge il senso del proprio valore, che può essere determinato o annientato dall’amore. In un blog su internet una donna racconta che quando si è separata dal compagno il suo «cuore era a pezzi» e «gli ci sono voluti mesi (se non anni) per riprendersi». Gli amici l’hanno aiutata a superare il dispiacere dicendole che «era splendida, facendole mangiare tanta cioccolata e guardando [insieme a lei] una serie infinita di film scadenti». La reazione di questi amici riflette l’idea diffusa che la fine di un amore minacci il senso del valore di una persona e le fondamenta della sua sicurezza ontologica. Questi risultati sono confermati da una ricerca condotta da due sociologi citata nella rubrica del «New York Times»Modern Love: «Ciò che conta per le donne è avere una relazione, seppur disastrosa. “È un po’ patetico”, riconosce Ms Simon (la ricercatrice). “Nonostante il grande cambiamento sociale occorso in questo settore, il senso che le donne hanno del proprio valore è ancora fortemente legato al fatto di avere un uomo. Ciò è deplorevole”».
Se il valore che le donne conferiscono a se stesse è ancora legato alla necessità di avere un uomo al proprio fianco, non significa che esse non si siano liberate da un retaggio del passato, ma che hanno sviluppato una dipendenza moderna dall’amore per riuscire a definire il senso del proprio valore. I manuali di consigli per affrontare incontri, sesso e amore sono diventati incredibilmente redditizi proprio perché la posta in gioco dell’amore, degli appuntamenti e del sesso è diventata molto alta.
[Immagine: Daphne Van Den Heuvel, Illustrazione (gm) - http://daphnevandenheuvel.nl/].
L'inferno dell'Uguale di M.Indrovigne
Byung-Chul Han, coreano, insegna a Karlsruhe e Berlino ed è uno dei più influenti filosofi contemporanei. È anche un personaggio singolare: concede pochissime interviste e mantiene una notevole riservatezza sulla sua vita personale, tenendo segreta perfino la sua data di nascita. Sappiamo così che è laureato in teologia cattolica e che ha scritto un libro sulla filosofia del buddhismo zen, ma non sappiamo quale sia la sua religione, e se ne abbia una. I temi di cui si occupa interessano però certamente i cattolici.
La casa editrice Nottetempo di Roma - che aveva tradotto nel 2012 la sua opera più nota, «La società della stanchezza» - propone ora una versione italiana di «Eros in agonia», un piccolo libro dedicato alla crisi contemporanea dell'amore. Han parte dal bestseller sociologico «Perché l'amore fa soffrire» di Eva Illouz, anch'esso arrivato quest'anno in Italia e di cui ho proposto il 2 giugno una recensione. Il filosofo discute una tesi centrale della Illouz, secondo cui la possibilità quasi infinita di scelta tra partner diversi creata dall'erosione della morale dopo il Sessantotto e dall'opportunità di diventare «amici» di centinaia di persone dell'altro sesso su Internet non ha generato liberazione ma piuttosto l'angoscia di non aver compiuto la scelta «perfetta», specie tra le donne. Per Han, che è un filosofo, la sociologia non arriva a vedere che il problema è più radicale: «alla crisi dell'amore non conduce soltanto l'eccessiva offerta di altri, ma l'erosione dell'Altro», «il fatto che l'Altro scompaia».
Non so se - per quanto abbia studiato la teologia cattolica - Han presti qualche attenzione a Papa Francesco, ma colpisce il nome uguale che il filosofo e il Pontefice danno alla malattia più grave dei nostri giorni: «autoreferenzialità». Anche per Han «la società diventa sempre più narcisistica», e siamo talmente impegnati a parlare a noi stessi da avere perso la capacità di stabilire una vera relazione con gli altri. Si può dire però che il filosofo coreano descriva il dramma del l'autoreferenzialità in termini ancora più radicali del Papa.
Per Han viviamo ormai nell'«inferno dell'Uguale», dove è venuta addirittura meno la capacità di vedere l'altro come altro: l'uomo moderno guarda «solo ciò in cui può riconoscere, in qualche modo, sé stesso».
Alla società del dovere è subentrata la società del potere. Possiamo fare tutto quello che ci passa per la testa, il che dovrebbe obbligatoriamente soddisfarci. Se non siamo soddisfatti, dev'essere in qualche modo colpa nostra: probabilmente, non siamo abbastanza «in forma». L'aveva già visto Friedrich Nietzsche (1844-1900): la religione sarebbe stata sostituita da un culto parossistico della salute. Obbligatoriamente, anche Han dedica qualche pagina al libro più venduto del secolo XXI, «Cinquanta sfumature di grigio», dove una studentessa sottoscrive un contratto con il suo amante dove, in cambio della fedeltà, si obbliga a partecipare a ogni genere di esperimento sessuale. Ma non solo: la poveretta firma pure l'impegno a fare «sport a sufficienza» e a non mangiare nulla, se non frutta, fuori dei pasti. Le vie dell'assoluta libertà sessuale, commenta Han, oggi portano sempre in palestra o dal dietologo.
Non solo: all'amore come esperienza sacra, e al carattere sacro della stessa sessualità, subentra la «profanazione» di queste cose sacre nella pornografia. Han polemizza con quanti ritengono la profanazione salutare, liberatoria e comunque inevitabile in tempi di secolarizzazione. In realtà, tolto alla sessualità il suo carattere sacro, non rimane una sessualità liberata: non rimane nulla, se non il puro consumo che è insieme sfruttamento degli altri e «autosfruttamento» di se stessi.
Per quanto Han critichi alcune tesi di Eva Illouz, alla fine c'è una convergenza di fondo: la presunta liberazione dei sentimenti e della sessualità postmoderna ha ucciso sia l'amore sia il desiderio. «Eros è in agonia». Con conseguenze che vanno molto al di là della sfera, pure così importante, dei rapporti interpersonali. Con il venire meno dell'esperienza dell'altro come altro - che era, appunto, la base dell'amore - e il chiudersi della gabbia autoreferenziale entrano in crisi anche l'arte, ridotta a puro narcisismo, la politica - che senza un apprezzamento dell'altro degenera in semplice potere - e la cultura. Han cita un articolo Chris Anderson, il redattore capo dell'autorevole rivista d'informatica «Wired», intitolato «La fine della teoria». Secondo Anderson siamo finalmente arrivati al punto in cui non abbiamo più bisogno di teorie, cioè di interpretazione e spiegazione dei dati. La psicologia, la sociologia e la filosofia potrebbero andare in pensione. Google ci abitua infatti inesorabilmente ad «allineare» semplicemente i dati, senza cerca cause e spiegazioni: «la correlazione sostituisce la causalità» e, se la causalità non serve più, non servono più nemmeno le scienze umane. Neppure per spiegare la correlazione, perché questa deriva dalla macchina che gestisce le ricerche di Google, e non c'è più nulla da spiegare.
Ma Anderson, scrive Han, ha «un concetto di teoria debole e ridotto». La teoria non è mai solo un modello per rappresentare e unificare dati. La teoria ci dice «cosa deve essere e cosa no» e «fa apparire il mondo in tutt'altra luce» rispetto a quella che può offrire una lampada, o anche tutte le lampade del mondo. Questa teoria come qualche cosa di «completamente diverso» dalla semplice somma d'informazioni già Socrate e Platone insegnavano a ricercarla non solo tramite la ragione ma tramite l'amore.
Han ci arriva partendo da una meditazione sconsolata sui guasti del postmoderno, ma il lettore de «La nuova Bussola quotidiana» dovrebbe notare l'analogia con lo schema dell'enciclica «Lumen fidei», che invita precisamente a non separare conoscenza tramite la ragione e conoscenza tramite l'amore, le due viene arrivare alla verità.
Han è più pessimista. Cita il discusso film di Lars von Trier «Melancholia», dove una giovane sfugge alla depressione solo accettando la tragica verità secondo cui la Terra sta per essere distrutta da una catastrofe cosmica. Nel film la protagonista entra in relazione con Ofelia e con la sua tragica morte per amore dipinta dal pittore preraffaellita John Everett Millais (1829-1896) nel celebre quadro che mostra Ofelia morente nell'acqua gelida.
Il messaggio di Han è che solo di fronte alla morte si scopre finalmente l'importanza dell'Altro. Per il cristiano, questa verità la scopriamo di fronte al Crocefisso, di fronte al Cristo morto per amore di tutti che - come insegna Papa Francesco - è il solo capace di liberarci dal dramma dell'autoreferenzialità: se solo siamo capaci di fermarci a guardarlo.
Da LaNuovaBussola
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