Prima Enciclica firmata da Papa Francesco |
La luce della fede, un estratto dalla lettera enciclica LUMEN FIDEI
UNA LUCE ILLUSORIA?
Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei.
Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro.
Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei.
Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro.
In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che
impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane
Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo «nuove
vie, nell’incertezza del procedere autonomo». E aggiungeva: «A questo
punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace
dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo
della verità, allora indaga». Il credere si opporrebbe al cercare. A
partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per
aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita
novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che
impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.
In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.
UNA LUCE DA RISCOPRIRE
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vin-cere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro «io» isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una «favilla che si dilata in fiamma poi vivace e come stella in cielo in me scintilla». Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.
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La logica della fede e della realtà
Il rapporto con la creazione nell'enciclica di Papa Francesco.
*
(Samuel Fernández, Pontificia Università Cattolica del Cile) La nuova
enciclica cerca di mostrare che la fede ha la capacità d’illuminare
tutta l’esistenza, e non solo alcuni suoi aspetti (Lumen fidei, n. 4).
Per questo, fin dall’inizio, nel presentare la fede di Abramo — in
particolare al n. 11 — spiega il vincolo esistente tra fede e creazione.
Il
documento ricorda che la Parola di Dio che chiama Abramo non risulta
estranea al patriarca, che al contrario la riconosce come una voce
inscritta da sempre nel suo cuore. Il Dio che esorta a credere è lo
stesso Dio «che è origine di tutto e sostiene tutto». La fede può
aspirare a essere una luce per tutta la realtà, poiché il Dio che invita
alla fede ha a che vedere con tutta la realtà: nulla gli è estraneo.
Colui che «chiama Abramo» è lo stesso che «chiama all’esistenza le cose
che ancora non esistono» (Romani, 4, 17); san Paolo mostra in tal modo
l’unità esistente tra l’azione creatrice e l’azione salvifica di Dio.
Persino nei testi più antichi del Nuovo Testamento si esprime la
convinzione che tutte le cose provengono da Dio per mezzo del Signore
Gesù (cfr. 1 Corinzi, 8, 6). La Parola che crea è la stessa Parola che
invita a credere, perciò la fede e la realtà hanno una struttura comune
su cui si fonda la loro reciproca armonia. Il Verbo fatto carne ha
rilevanza universale perché «tutto è stato fatto per mezzo di lui»
(Giovanni , 1, 3). La Parola illumina così le radici dell’essere: «La
fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla
realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo» (n.
18).
Questa identità tra il Dio della fede e il Dio creatore di tutta la
realtà implica una corrispondenza tra quella che potremmo chiamare la
logica della fede e la logica della realtà. Se Dio non avesse nulla a
che vedere con il mondo, come pensavano i manichei, o se il Salvatore
fosse un Dio straniero, come pensava Marcione, allora il mondo non
sarebbe comprensibile alla luce della fede e, a sua volta, la Parola
della fede non sarebbe comprensibile per la società umana. Bisognerebbe
scegliere tra Dio e la realtà creata. E la salvezza offerta da un Dio
estraneo alla creazione consisterebbe semplicemente nel liberarsi di
questo mondo. Ma il mondo è creazione di Dio e pertanto la salvezza non
consiste nel rifiutare il mondo, bensì nel portarlo alla sua pienezza;
poiché il mondo, sebbene ferito dal peccato e dall’ingiustizia, non
smette di essere opera di Dio e, provenendo da Lui, soltanto in Lui
trova la sua pienezza. Solo così «la fede si mostra universale,
cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e
tutta la storia» (n. 48). Al contrario, una visione puramente negativa
del mondo smette di essere cattolica.
Questo stretto rapporto con la creazione indica che la fede non è
destinata a restare solo dentro il cuore dei cristiani, e neppure
nell’ambito ristretto dei credenti: «La conoscenza della fede illumina
non solo il percorso particolare di un popolo, ma il corso intero del
mondo creato, dalla sua origine alla sua consumazione» (n. 28). La fede
permette di capire il significato della storia e dell’esistenza umana.
Non si può perciò ridurre a una questione meramente individuale, «non è
un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione
soggettiva» (n. 22). Nasce da qui una delle idee su cui più insiste
l’enciclica: la fede illumina le relazioni umane e perciò offre un
orientamento per costruire la città comune, ovvero «fa comprendere
l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo
e il destino definitivo in Dio» (n. 51). In tal modo la fede è anche
chiamata a illuminare la sfera pubblica e a collaborare al bene comune.
Di fatto è a partire da un sguardo di fede che in occidente fu scoperta
la radicale dignità di ogni persona, che non era così evidente per il
mondo antico (cfr. n. 54). Quando i rapporti umani non sono illuminati
dalla fede, sia gli altri sia la creazione possono trasformarsi in
mercanzia.
Questo vincolo tra fede e creazione, su cui insiste l’enciclica (n. 11),
ha importanti conseguenze per la missione della Chiesa, poiché mostra
che la teologia dell’evangelizzazione va elaborata alla luce della
teologia della creazione. Un’evangelizzazione che riconosce questo
vincolo si alimenta di ferme convinzioni: che la parola della fede è la
chiave per comprendere la realtà in quanto tale, che la parola della
fede illumina le strutture più profonde e proprie dell’essere umano e
che la parola della fede non rifiuta nulla di autenticamente umano,
bensì è la chiave che permette di discernere la genuina identità
dell’uomo. Lo stretto vincolo esistente tra fede e creazione implica che
la Parola che chiama a credere non è estranea o esterna all’uomo; anzi,
nella sua novità, essa porta l’uomo ad altezze insospettabili. Su
questa base, si comprende che il Vangelo non restringe la vita umana,
bensì la porta alla pienezza che le è propria. Detto in parole semplici,
il Vangelo non è inumano e perciò la fede non è un ostacolo, bensì uno
stimolo per la vita umana. Se nell’enciclica abbondano termini come
«aprirsi», «uscire» lasciarsi «illuminare», «ampliare», andare «oltre»,
«dilatarsi», è perché è scritta con la convinzione che la Parola della
fede illumina tutta la creazione, fa uscire l’uomo dalla sua chiusura e
lo proietta oltre se stesso, affinché realizzi la sua vocazione più
profonda.
L'Osservatore Romano
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