“Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era soltanto una voce” (Deuteronomio, 4,12)
La storia umana non è una linea retta uniforme e monotòna. Alcuni eventi possiedono la forza di curvare il tempo, di piegarne, a volte spezzarne, le traiettorie, dischiudendo all’umano nuove dimensioni. La voce del Sinai è uno di questi eventi. Quelle parole dette e donate ad un popolo di ex schiavi liberati e pellegrini in un deserto, hanno fatto entrare l’umanità in una nuova epoca morale e religiosa. Un’era tutta ancora da compiere, che resterà sempre incompiuta. Quindi sempre di fronte a noi, ad attenderci, a chiamarci.
Alle pendici del Sinai, tutta la terra e tutto il cielo parlano, dialogano tra di loro. L’ Adam, l’albero della vita, Abele, Caino e Lamek, Noè, Abramo, Agar, Giacobbe, lo Yabboq, la veste di Giuseppe, le levatrici, le donne, le piaghe, il mare aperto, Miriam, la manna, Ietro. Ora sono tutti lì, col popolo, di fronte al Sinai. Le parole del Sinai non sono la legislazione di un popolo (Israele). Sono la legge etica di tutti, le parole prime per chiunque voglia essere e restare umano, libero, in cammino verso una promessa: “Elohim pronunciò tutte queste parole:
‘Io sono YWHW, tuo Dio [Elohim], che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile’” (20,1-2). Lo aveva già fatto parlando dal roveto ardente, ma ora con una nuova solennità e definitività, l’Elohim, la divinità, rileva al popolo il suo nome: il nome della voce è YHWH. Ci sono sempre state, e ci sono ancora, esperienze religiose che si fermano all’Elohim, ad una ‘fede’ nell’esistenza di un Dio che si trova da qualche parte. Ma se non arriva il giorno in cui quella generica divinità ci rileva il suo nome, la fede non cambia la nostra vita né, tantomeno, quella degli altri. La fede biblica è fede-fiducia-fedeltà in una voce con un nome, che ha chiamato per nome i suoi profeti e che l’uomo ha potuto chiamare per nome. Al di fuori di questo ‘incontro di nomi chiamati’ ci sono le fedi intellettuali della filosofia, o le non-fedi negli idoli.
YHWH si presenta come il liberatore dalla schiavitù. Poteva dire molte altre cose (‘sono il Dio di Abramo, il creatore del mondo, il donatore della manna nel deserto’ …); e invece ha solo detto ‘Io sono colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto’. Basta questo breve incipit per dare contenuto al nome di Elohim. Non si comprendono le parole del Sinai, la Torah (Legge), forse l’intera Bibbia, se non li leggiamo dalla prospettiva dei campi di lavoro dell’Egitto e della liberazione: “Non ti farai idolo né immagine alcuna … Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai ” (20,4-5). Non ‘servirai’ (‘bd) gli idoli perché sei stato liberato dalla condizione ‘di servo’ (‘bd). La liberazione, se è vera, è una sola.
Questo comando anti-idolatrico è una grande rivoluzione religiosa e antropologica, ed è un dono immenso a difesa di ogni libertà. La Bibbia non ha voluto soltanto separare, con il primo comandamento, YHWH dagli altri dei adorati dai popoli cananei (“non avrai altri elohim sopra il mio volto” (20,3)); ha voluto e dovuto far di tutto per evitare che anche il suo Dio fosse trasformato dal popolo in idolo – e non ci riuscirà mai fino in fondo. La proibizione di raffigurare Dio è un inedito che dal Sinai irrompe nella storia dell’umanità, e che non troviamo in nessun altro culto circostante. Ed è meraviglioso, perché dice che l’unico occhio capace di dare forma visibile alla voce che parla è quello della fede. Un Dio che si vede non ha bisogno della fede, e quindi è un idolo. Il Dio biblico scompare se visto, o l’uomo muore se lo vede, perché nel momento in cui è visto diventa manufatto o nevrosi, o entrambi. Il comandamento anti-idolatrico è il più trascendente, ma è anche quello più al centro dell’esperienza umana. L’uomo è animale spirituale e religioso, perché per vivere non gli basta la terra con le sue cose visibili. Vuole anche l’invisibile. E quindi è esposto per natura all’idolatria, dentro e fuori le religioni, perché l’idolo è ad un tempo malattia e sostituzione dell’esperienza religiosa.
Il Dio biblico è una voce che parla e che rivela il suo nome. Di più non poteva fare per aiutarci a non diventare schiavi degli idoli. Ma non poteva fare neanche di meno, perché YHWH è un Dio vicino che per sua natura comunica e parla. Parlando e rilevando il suo nome diventa però vulnerabile ed esposto agli abusi. Da qui la terza parola-comando: “Non pronuncerai invano il nome di YHWH” (20,7). La Bibbia non è uno dei tanti testi di culti misterici, il cui scopo è confinare il divino in uno spazio sacro inaccessibile, o accessibile solo ai professionisti del culto. La Bibbia è una ri-velazione, un togliere il velo da Elohim, che da divinità muta e lontana si fa vicino, parla, e ci dice persino il suo nome, la sua realtà intima. Anche la conoscenza del nome può produrre idolatria: YWHW può essere ridotto ad idolo anche attraverso l’uso manipolatorio del suo nome. Tutte le forme di magia usano i nomi per cercare di gestire le divinità. Anche il nome è un volto, e così usandolo possiamo costruirci sue immagini invocandolo ‘invano’. La violazione del terzo comandamento del nome è una forma di idolatria tipica dell’uomo religioso, che sa il nome di Elohim. L’autentica esperienza religiosa è sempre sobria nell’uso del nome di Dio. Una nota di autenticità biblica è la sobrietà nel lessico religioso. Quando Dio e il suo nome vengono ‘usati’ troppo e invano finiscono per essere ‘abusati’, e l’esperienza religiosa si trasforma poco alla volta in idolatria. Dietro al divieto dell’abuso del nome di Dio si cela, ancora una volta, il grande tema della gratuità (che è l’anti-magia). Il Dio biblico non è idolo perché tutta gratuità. Se vogliamo incontrarlo veramente e non finire per incontrare uno stupido idolo, dobbiamo allora muoverci dentro le coordinate della non-idolatria e della gratuità.
Dentro queste coordinate si comprende anche il sabato: “Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (20,8-11).
Se inedito è il divieto di riprodurre immagini, altrettanto inedito e stupefacente è il comandamento sul sabato. Forse solo un popolo che aveva conservato vivissima la memoria della schiavitù dell’Egitto e poi dell’Esilio babilonese poteva comprendere il valore del sabato, porlo a cuore del Decalogo, erigerlo a muro maestro della propria civiltà. La schiavitù, la servitù, i lavori forzati, sono negazione dell’uomo anche perché negano il riposo, la festa, il valore del non-lavoro. È il disconoscimento del valore del sabato che più dice oggi la natura idolatrica del capitalismo che stiamo sperimentando. La logica del profitto non conosce riposo, e quindi non riconosce più l’umano vero, e così arriva a chiedere alle donne di congelare gli ovuli in cambio di moneta. L’esperienza del non-riposo dal lavoro in Egitto fu talmente forte e fondamentale da fare inserire al cuore della teofania del Sinai e della nuova legge del mondo un comandamento sul ‘non-lavoro’ e sul riposo. Talmente forte e fondamentale da estenderla a tutti gli esseri umani, agli animali, a tutta la creazione; oltre gli status, oltre le asimmetrie degli altri sei giorni. La fraternità tra gli abitanti della terra è possibile solo in un mondo liberato dagli idoli.
È allora l’Adam liberato, e in esso la liberazione della terra, la nota della prima parte del Decalogo. È la ‘gelosia’ (20,5) per questo capolavoro e culmine della creazione, che ispira quelle prime parole: sei stato liberato dall’Egitto, non tornare più sotto la schiavitù degli idoli. Gli idoli non conoscono e non riconoscono il sabato, né, tantomeno, la domenica. Il loro culto è perenne, e con esso la nostra schiavitù.
C’è, infine, un collegamento esplicito e forte tra il Sinai e i primi capitoli della Genesi. Non solo “perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno” (20,11). Ma perché la radice più profonda del divieto di farsi immagini di Dio è la natura dell’Adam: è l’essere umano l’immagine di Dio, è solo lì dove scorgere un riflesso vero di YHWH. Se vuoi trovare un’immagine vera del Dio biblico cercala in Andrea mentre lavora nella sua officina, in Fatima che il lavoro lo ha perso, nella sala parto dell’ospedale della tua città, in Giovanna, malata terminale di Alzheimer che riposa in un altro reparto di quell’ospedale. E in tutti i crocifissi. Non troveresti immagine migliore nell’universo.
È a partire dall’Adam, immagine e somiglianza di quell’Elohim rivelatosi come YHWH, liberato dagli idoli e dal lavoro-forzato, amato con gelosia, che si deve leggere la seconda parte del Decalogo: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né … alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (20,12-17). Se l’uomo è l’unica possibile immagine di Dio, perché l’unica vera, allora devi onorarlo, non devi ucciderlo, devi rispettarlo, non devi tradirlo nelle sue relazioni fondamentali.
Le ‘dieci parole’ del Sinai sono ancora di fronte a noi. Ogni giorno vengono calpestate, gli idoli si moltiplicano, e con essi si riduce la nostra libertà. Ma quell’immagine non si è spenta, l’alleanza del Sinai non è stata revocata. La speranza nell’era della fraternità non può essere vana.
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