Parole che ribaltano la terra
Anticipazione. Anticipiamo uno stralcio di La Bibbia in un frammento (Milano, Mondadori, 2013, pagine 280, euro 19), libro, in uscita l’8 ottobre, del cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
*(Gianfranco Ravasi) La Bibbia è un mosaico di testi dalle mille sfaccettature. L’Antico Testamento comprende quarantasei scritti che sommano 300.613 parole ebraiche e 4.828 aramaiche per un totale di 305.441 unità, che diventano oltre 421.000 se si dovessero numerare anche le particelle prefisse ai vocaboli. A essi si devono aggiungere poi quei sette libri composti in greco, non accolti dal canone ufficiale delle Sacre Scritture degli ebrei e dei protestanti, ma dal canone della Chiesa cattolica e di quella ortodossa e, perciò, detti “deuterocanonici”. In questo piccolo oceano testuale, che però è costruito con l’uso di soli 5.750 vocaboli ebraici diversi, si hanno scritti vasti come quello del profeta Geremia fatto di 21.819 parole e il foglio del profeta Abdia di sole 291 parole.
Similmente, se vogliamo continuare a ricorrere alla statistica, i 27 libri del Nuovo Testamento raccolgono 138.013 parole greche, basate su un vocabolario di soli 5.433 vocaboli diversi. Anche qui accanto, per esempio, a un Vangelo di Luca che si distende per 19.404 parole, rivelandosi così come il più lungo dei quattro Vangeli, si hanno le 219 parole che compongono il biglietto di poche righe noto come la Terza Lettera di Giovanni. Abbiamo, inoltre, in queste pagine un arcobaleno di testi, di parole, di frasi, di idee, di simboli, di figure, di temi che nascono dall’opera di una folla di autori espliciti e impliciti appartenenti a un arco di tempo di un millennio.
Eppure, dietro a questo spettro multicolore la teologia intravede come sottostante una voce unica, profonda, misteriosa, costante, quella del Dio che rompe il silenzio della sua trascendenza e del suo mistero. Lo fa nell’avvio stesso della Bibbia ove si delinea l’inizio assoluto dell’essere e dell’esistere che infrange la notte del nulla: «In principio Dio disse: sia la luce!» (Genesi, 1, 1-3). Una voce che continua a echeggiare anche nel groviglio confuso e spesso insanguinato, ma pure glorioso, della storia umana.
Un messaggio trascendente che però, secondo la Bibbia, si accosta all’umanità e alle sue parole, fino a identificarsi con essa e con esse: «Il Verbo divenne carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni, 1, 14), assumendo un volto che si svela e labbra che parlano in Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. La Bibbia si autopone, quindi, contemporaneamente come parola umana, storica, legata a sistemi linguistici — l’ebraico, l’aramaico e il greco — “puntuale” e contingente perché vincolata al tempo e allo spazio, ma anche come parola eterna e permanente, messaggio divino che sfida i secoli, «lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 8).
Una volta che è contestualizzato, collocato nelle sue coordinate “genetiche”, perché esso è pur sempre una cellula viva di un organismo, il frammento biblico ben scelto diventa un mirabile squarcio di luce. Nel suo celebre L’uomo senza qualità, lo scrittore austriaco Robert Musil suggeriva di «classificare le attività umane secondo il numero delle parole di cui hanno bisogno: più gliene occorrono e più c’è da pensar male del loro carattere».
Cristo è un maestro nell’uso della “piccola frase” positiva: è quello che gli studiosi chiamano il lóghion, ossia il “piccolo detto” che riesce veramente a far balenare il tutto nel frammento. Facciamo soltanto due esempi, partendo dalla prima “predica”, cioè dal primo annunzio pubblico di Gesù appena apparso sulla ribalta della Galilea. In Marco, 1, 15 Cristo si esprime in sole quattro frasi che il greco formula in modo molto accurato e che la traduzione italiana è costretta a rendere in forma pallida e dilatata: «Il tempo è giunto a pienezza, il Regno di Dio si è fatto vicino, convertitevi e credete nel Vangelo». Ebbene, l’originale greco è composto di sole 15 parole, compresi gli articoli e le particelle, che assommano 78 caratteri, 90 se interponiamo gli spazi. Non è chi non veda che siamo ben sotto i 140 caratteri che costituiscono il limite massimo del cosiddetto tweet, il ben noto “cinguettìo” col quale si comunica in uno dei più significativi social networks contemporanei.
Similmente il secondo lóghion che proponiamo è quello, celebre, di Marco, 12, 17: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». In sole dieci parole, compresi gli articoli e la congiunzione, in 41 caratteri greci (50 se si comprendono gli spazi), si ha una lapidaria sintesi del rapporto tra fede e politica, senza sacralismi teocratici e secolarismi laicisti. Altro che il famoso lamento dell’Amleto shakespeariano: Words, words, words, «parole, parole, parole» (atto II, scena II)! Se si rispetta il valore genuino delle parole, se non le si inflazionano, se non vengono corrotte, sono uno strumento straordinario di comunicazione, di comunione, ma anche di liberazione e di trasformazione. Aveva ragione il poeta francese Alfred de Musset quando affermava che «si è ribaltata — bouleversé — la terra con alcune parole».
Similmente, se vogliamo continuare a ricorrere alla statistica, i 27 libri del Nuovo Testamento raccolgono 138.013 parole greche, basate su un vocabolario di soli 5.433 vocaboli diversi. Anche qui accanto, per esempio, a un Vangelo di Luca che si distende per 19.404 parole, rivelandosi così come il più lungo dei quattro Vangeli, si hanno le 219 parole che compongono il biglietto di poche righe noto come la Terza Lettera di Giovanni. Abbiamo, inoltre, in queste pagine un arcobaleno di testi, di parole, di frasi, di idee, di simboli, di figure, di temi che nascono dall’opera di una folla di autori espliciti e impliciti appartenenti a un arco di tempo di un millennio.
Eppure, dietro a questo spettro multicolore la teologia intravede come sottostante una voce unica, profonda, misteriosa, costante, quella del Dio che rompe il silenzio della sua trascendenza e del suo mistero. Lo fa nell’avvio stesso della Bibbia ove si delinea l’inizio assoluto dell’essere e dell’esistere che infrange la notte del nulla: «In principio Dio disse: sia la luce!» (Genesi, 1, 1-3). Una voce che continua a echeggiare anche nel groviglio confuso e spesso insanguinato, ma pure glorioso, della storia umana.
Un messaggio trascendente che però, secondo la Bibbia, si accosta all’umanità e alle sue parole, fino a identificarsi con essa e con esse: «Il Verbo divenne carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni, 1, 14), assumendo un volto che si svela e labbra che parlano in Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. La Bibbia si autopone, quindi, contemporaneamente come parola umana, storica, legata a sistemi linguistici — l’ebraico, l’aramaico e il greco — “puntuale” e contingente perché vincolata al tempo e allo spazio, ma anche come parola eterna e permanente, messaggio divino che sfida i secoli, «lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 8).
Una volta che è contestualizzato, collocato nelle sue coordinate “genetiche”, perché esso è pur sempre una cellula viva di un organismo, il frammento biblico ben scelto diventa un mirabile squarcio di luce. Nel suo celebre L’uomo senza qualità, lo scrittore austriaco Robert Musil suggeriva di «classificare le attività umane secondo il numero delle parole di cui hanno bisogno: più gliene occorrono e più c’è da pensar male del loro carattere».
Cristo è un maestro nell’uso della “piccola frase” positiva: è quello che gli studiosi chiamano il lóghion, ossia il “piccolo detto” che riesce veramente a far balenare il tutto nel frammento. Facciamo soltanto due esempi, partendo dalla prima “predica”, cioè dal primo annunzio pubblico di Gesù appena apparso sulla ribalta della Galilea. In Marco, 1, 15 Cristo si esprime in sole quattro frasi che il greco formula in modo molto accurato e che la traduzione italiana è costretta a rendere in forma pallida e dilatata: «Il tempo è giunto a pienezza, il Regno di Dio si è fatto vicino, convertitevi e credete nel Vangelo». Ebbene, l’originale greco è composto di sole 15 parole, compresi gli articoli e le particelle, che assommano 78 caratteri, 90 se interponiamo gli spazi. Non è chi non veda che siamo ben sotto i 140 caratteri che costituiscono il limite massimo del cosiddetto tweet, il ben noto “cinguettìo” col quale si comunica in uno dei più significativi social networks contemporanei.
Similmente il secondo lóghion che proponiamo è quello, celebre, di Marco, 12, 17: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». In sole dieci parole, compresi gli articoli e la congiunzione, in 41 caratteri greci (50 se si comprendono gli spazi), si ha una lapidaria sintesi del rapporto tra fede e politica, senza sacralismi teocratici e secolarismi laicisti. Altro che il famoso lamento dell’Amleto shakespeariano: Words, words, words, «parole, parole, parole» (atto II, scena II)! Se si rispetta il valore genuino delle parole, se non le si inflazionano, se non vengono corrotte, sono uno strumento straordinario di comunicazione, di comunione, ma anche di liberazione e di trasformazione. Aveva ragione il poeta francese Alfred de Musset quando affermava che «si è ribaltata — bouleversé — la terra con alcune parole».
L'Osservatore Romano
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