Post di Rossana Rolando
🎨Immagini dei dipinti di Vincent Van Gogh.
Un paio di scarpe, dipinte durante il soggiorno parigino, nella seconda metà del 1886, un anno prima dell’inizio di quel processo morboso (fine del 1887, inizio 1888 circa) che porterà Van Gogh alla morte (il suicidio è del luglio 1890, a 37 anni): sono scarpe logore, slacciate, sospese in uno spazio che non ha forma, semplice presenza che ci interroga e ci commuove. Su queste scarpe molto si è scritto, a partire dal saggio heideggeriano sull’origine dell’opera d’arte, risalente al 1935, per passare attraverso Schapiro, Lacan, Derrida, fino alla pubblicazione in Italia del libro Le scarpe di Van Gogh (Marcos y Marcos, 2013), contenente saggi di diversi autorevoli autori.In questo ideale confronto le posizioni di Heidegger e Lacan si contrappongono senza escludersi. Per il primo le scarpe, nel momento in cui sono assunte come oggetto dell’opera d’arte, non sono più semplici mezzi da utilizzare, ma assurgono a segni di interi mondi di senso: sono le scarpe contadine che rimandano alla “fatica dei ritmi del lavoro”, alla “durezza dei passi tra i solchi”… in esse “vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi”… attraverso esse sentiamo respirare “l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia, senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato, il trepidare nell’imminenza della nascita e il tremare nell’avvolgente minaccia della morte” (1).
Un paio di scarpe, 1886,
Van Gogh Museum, Amsterdam
Secondo l’interpretazione di Heidegger la verità del paio di scarpe non risiede nella descrizione che potremmo fare del loro uso, a tutti ben noto, ma nell’apertura di significati che esse ci dischiudono attraverso il dipinto. In questo consiste la potenza rivelativa dell’arte.Al contrario, per Lacan, le scarpe indicano una nuda presenza sganciata dalla catena dei significanti, pura assenza di ogni ulteriore rimando. Sono solo e unicamente scarpe logore, vecchie, abbandonate, sono un resto, un rifiuto, uno scarto, sono l’equivalente della vita dell’artista, del suo sentirsi gettato e abbandonato nel mondo, sciolto da tutto e da tutti, in una prossimità continua con il nulla e con la morte. Meglio di qualsiasi altra immagine esse rappresentano van Gogh, costituiscono il suo più riuscito autoritratto, come afferma Massimo Recalcati nella sua ripresa di Lacan (2).In questa linea interpretativa si colloca anche il filosofo Karl Jaspers, nel suo saggio del 1922, dedicato a Van Gogh, quando associa i quadri del pittore alle poesie tarde di Hölderlin o alla filosofia di Kierkegaard, vedendole apparentate dallo stesso travaglio esistenziale: nell’opera d’arte s’incarna “l’esperienza vissuta di una personalità in sfacelo. Come in Hölderlin, sembra che la corda dello strumento percossa con veemenza esali la sua nota nell’istante in cui si spezza… Qui il creatore si consuma nell’opera” (3).
Campo di grano con volo di corvi, 1890,
Van Gogh Museum, Amsterdam
In questa seconda linea interpretativa l’arte è la forma della malinconia, è l’esteriorizzazione del tormento interiore ed è, nello stesso tempo, possibilità di dominio su di esso, come lo stesso van Gogh scrive al fratello Theo: “Devo poter esprimere attraverso il disegno e la pittura quello che ho dentro la mente e il cuore” (4) e ancora: “… lotto con tutta la mia energia per rendermi padrone del mio mestiere, dicendomi che, se ci riesco, sarà questo il migliore parafulmine contro il mio male” (5).☆☆☆☆☆☆☆☆☆☆☆☆☆☆
La sedia di Van Gogh, 1888,
National Gallery, Londra
Guardando quelle scarpe logore, oggetti di una quotidianità spoglia e severa, siamo comunque sicuri di immergerci nel cuore pulsante della vita, sia essa disvelata nel mondo di significati evocato da Heidegger, sia essa racchiusa nel tormento interiore indagato da Lacan. E allora è davvero secondario stabilire a chi appartengano quelle scarpe (secondo l’ironico intervento di Derrida), per lasciare piuttosto spazio alla profondità del gesto artistico, alla grandezza spirituale ed etica che esso sottende, lontano da ogni fatuità, moda, vuota superficialità da cui può essere tentata la ricerca del successo.Nel settembre del 1885 - anno a cui risale il primo capolavoro: I mangiatori di patate - il fratello Theo scrive alla sorella Willemien: “Se [Vincent] riuscirà nel suo lavoro, sarà un grand’uomo. Quanto al successo mondano… sarà apprezzato da alcuni, ma incompreso dal grosso pubblico. Tuttavia, verrà rispettato da coloro che cercano nell’artista qualcosa di più di una superficiale bravura…” (6).
Il riconoscimento del largo pubblico arriverà più tardi, quando ormai la vita di Van Gogh - randagia e segnata dagli stenti - sarà conclusa, nel totale misconoscimento del suo immenso valore. Dietro l’opera vi è la statura dell’uomo: questo è l’aspetto non scontato che si cela dietro quel semplice paio di scarpe.Lo stesso filosofo Karl Jaspers lo sottolinea nel suo saggio introduttivo all’Epistolario di Vincent e del fratello Theo: “Queste lettere costituiscono nell’insieme il documento di una concezione del mondo, di un altissimo pensiero etico, espressione di una sincerità assoluta, di una fede profonda, di una carità infinita, di una generosa umanità, di un imperturbabile amor fati. E’ questa una delle testimonianze più commoventi della nostra epoca. Questo ethos esiste indipendentemente dalla psicosi, anzi, in essa si consolida” (7).
Autoritratto, 1889,
Musée d'Orsay, Parigi
Note.1. Martin Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, Christian Marinotti, Milano 2000, p. 39.2. Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 118.3. Vincent Van Gogh, Lettere a Theo, con un saggio introduttivo di Karl Jaspers, Guanda, Parma 1984, p. 21.4. Ibidem, p. 34.5. Ibidem, p. 15.6. Ibidem, p. 36.7. Ibidem, p. 17.
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