Credo di avere in me il DNA del camminatore. Qualcosa di atavico, dai tempi in cui per spostarsi occorreva percorrere decine di chilometri, e che è disceso lungo i rami fino ai miei nonni, che mi raccontavano di quel loro lungo peregrinare semplicemente per recarsi al lavoro o al mercato, ricordandomi che possedere una bicicletta in quei primi decenni del secolo scorso era un lusso.
Prendiamo il ramo paterno: il nonno ogni giorno andava a lavorare alla centrale idroelettrica distante sei-sette chilometri; scendeva al fiume e, risalendo, la sera faceva una sosta all’osteria a mezza strada per rifocillarsi con un bicchiere di quello buono. La nonna raggiungeva il mercato, che si svolgeva nel grosso centro più vicino, distante comunque almeno cinque chilometri: tornava carica di borse, con il passo lento e sicuro delle donne di campagna. Addirittura, ancora negli Anni ’70, quando c’era un comodo autobus, continuava ad andare al mercato a piedi.
E perché tacere del ramo materno? La nonna lavorava in una filanda già da ragazza e si sorbiva quotidianamente tra nebbie e gelo o sotto il sole cocente o i temporali d’estate una dozzina di chilometri buoni d’andata e altrettanti di ritorno. Il nonno era più fortunato, era falegname e lavorava nella sua bottega. Ma fu su quella strada che mia nonna percorreva ogni giorno che la incontrò e poi la corteggiò.
Ecco: mi sono chiesto perché amo così tanto camminare – camminare, si badi bene, non correre: c’è la stessa differenza che passa tra chi se ne va semplicemente in bicicletta e chi corre vestito come se fosse al Giro d’Italia o al Tour de France. Cammino con il mio passo, gustandomi il percorso, fermandomi quando qualcosa attira la mia attenzione, quando la poesia mi chiama da uno scorcio o da un cortile o da una strada di città. Sì, perché anche in città, quando il tempo me lo permette – il tempo tiranno, non quello atmosferico – lascio perdere metropolitane e autobus, sebbene nutra un’uguale ammirazione per l’antico fascino del tram, e mi incammino sull’asfalto, sul pavé, sul lastricato, godendomi le voci, i suoni, i profumi, gli odori.
E quando il tempo – sempre il tiranno – allenta la sua presa, di domenica o d’estate, allora vado lungo il fiume a respirare l’aria ripulita, a farmi accarezzare dal vento come le canne palustri, o ancora in collina a perdermi tra i boschi, in quelle cattedrali di alberi che si elevano al cielo. Più raramente mi capita di camminare lungo il mare: quella, sulla sabbia umida della battigia mentre il libeccio soffia verso la costa e le onde vengono a lambire i miei piedi nudi, è certamente l’esperienza che prediligo, ex aequo con lo smarrirsi nel labirintico saliscendi tra i canali di Venezia.
Camminando, come l’aborigeno che mappa il suo territorio e lo canta, mi lascio inondare dalla luce del giorno o intridere dalla nebbia: il paesaggio allora non mi è più ignoto, ne faccio parte, per quanto lontano sia da casa.
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