Il morto colore del mare – Daniele Del Giudiceby robertoplevano |
§ Daniele Del Giudice
Lo stadio di Wimbledon esce nel 1983. Il capitolo 5 si apre con un’imprevedibile, pure in un romanzo presentato come “insolito”, sfoggio di cultura aeronautica. Italo Calvino scrisse la quarta di copertina – che è una specie di biglietto da visita di un libro, quindi l’unica indicazione di cui disponeva allora il potenziale acquirente davanti a quest’opera prima – parlando di “un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate”, per cui “la «carta di Mercatore» è una delle immagini-chiave”. Non per fare le pulci a Calvino, ma il matematico e cartografo fiammingo Geert De Kremer, latinizzato in Gerardus Mercator secondo l’uso rinascimentale, pubblicò il suo planisfero nel 1569, e quindi si fa un po’ fatica a prenderlo come emblema di novità.
L’idea di fondo del capitolo ha piuttosto a che fare con la navigazione e il pilotaggio, a cui la rappresentazione e la misura del movimento è contingente. Con la carta di Mercatore fu finalmente possibile calcolare la rotta in una pura rappresentazione geometrico-matematica degli spazi. Per millenni, nel Mediterraneo e in altri mari le distanze si coprivano veleggiando a vista della costa; la direzione delle traversate era fissata per lo più guardando le stelle. La necessità della navigazione oceanica impose finalmente un calcolo preciso dei percorsi e degli angoli delle linee di rotta rispetto ai meridiani. Mercatore risolse brillantemente il problema delle rotte; tuttavia rappresentare il volume sferico della terra su un piano di superficie, mantenendo i meridiani paralleli, comporta una distorsione progressiva delle dimensioni degli oggetti sulla mappa via via più lontani dalla linea dell’Equatore. Il solo modo di avere una mappa corrispondente punto per punto alla superficie terreste con una scala omogenea è ovviamente quello di una mappa coincidente con il territorio, oggetto favoloso, e problematico da usare per mare e per terra. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi.
Daniele Del Giudice doveva avere sotto le mani qualche manuale di navigazione aeronautica. È assai facile leggere le sue molte pagine di argomento aviatorio in termini metaforici, salvo che lui non fa mai uso generico delle figure del discorso. Qui il discorso cade su una fantasticheria del protagonista, che il suo aereo impatti sul Monte Bianco per un’avaria degli strumenti e un concorso di circostanze sfavorevoli, di cui l’ultima è un evento barometrico irrealistico (ma un lettore poco avvertito non se ne accorge). È il timore che qualsiasi istruttore di volo affronta con gli allievi all’inizio, spiegando che la catastrofe è sempre il prodotto di una serie di errori in concatenazione, da cui ci si tiene lontani con un costante rispetto delle regole del volo.
Il disagio del narratore a immaginarsi passeggero di un volo di linea, sorge col pensare che i piloti stabiliscono la rotta dell’aereo per via strumentale. Chi inizia le lezioni di volo, impara in modalità VFR (Visual Flight Rules), dando cioè fiducia e assenso alle percezioni sensoriali soggettive, anticartesianamente. Ragionare invece per coordinate della proiezione bidimensionale di una mappa ci consegna appunto a una rappresentazione che altera scale di grandezza e prospettive, fa sì che le sensazioni visive, tattili, uditive, che ci tengono ancorati alla realtà, alla successione degli oggetti via via percepiti, siano accessorie. Ma è impossibile fare a meno della navigazione a vista: il movimento consapevole attraverso gli spazi reali secondo una direzione intesa, cioè il pilotaggio, inizia con la certezza sensibile.
Si navighi a vista, non c’è niente di male.
Attenzione, questa non non è soltanto una faccenda di modalità tecnica, bensì di vita o di morte. Muoversi secondo un certo ordine di inizio e destinazione decide la sopravvivenza della maggior parte degli esseri viventi. Nel caso dell’uomo, la dignità nel movimento è nel passare dallo stare a galla (quando va bene) a essere marinaio, dalla balia delle correnti a essere pilota. Ulisse non viene mai meno al suo essere “uomo versatile”, “dai molti modi” (polùtropos): mette il timone alla zattera che ha fatto con le sue mani per tenerla in rotta, nelle avversità più grandi trae da sé la risorsa finale. Se poi un dio mi fracassa la nave nel mare purpureo, / sopporterò: nel petto ho un animo che sopporta dolori. / Già moltissimi patimenti ho subito e molto ho sofferto / fra le onde e in guerra.
IO so che alle prime lezioni di volo arrivi un momento straordinario. Capita quando l’istruttore dice loro: «Tu hai i comandi!». Cala allora una precisa e nitidissima coscienza di avere nelle mani, con i comandi, le sorti del mezzo, e della propria vita, dipendenti dalle proprie conoscenze, dalle decisioni via via prese, dagli innumerevoli aggiustamenti di rotta e di assetto che il pilota fa in ogni istante. È un senso di controllo nella varietà delle condizioni ambientali. Ho visto cambiare molte esistenze, dopo questa epifania.
A distanza di tanti anni, sogno ancora di scalare, con molta fatica, un’altissima parete rocciosa verticale, simile al versante sud della Marmolada o al nord dell’Eiger. Una fila di fessure, poco ampie e poco profonde, è incisa sulla muraglia di pietra e come una scala arriva fino alla vetta. La cosa più nitida del sogno non è tanto la visione, ma il sentimento angoscioso della pericolosissima salita, della difficoltà nell’aggrapparsi, mani e piedi, alle fessure, e il terrore costante di precipitare giù, l’orrore per la caduta nel vuoto, accompagnato da una crescente attrazione per quello stesso vuoto, per l’immobilità delle cose definitive. So che devo arrivare alla quiete, alla fine di tutto. Nel sogno ricordo allora le mie prime lezioni di volo, la ripetuta raccomandazione dell’istruttore che, in ogni decisione, la vita del pilota letteralmente sta nelle sue mani, e il senso di padronanza di me stesso e delle circostanze che era venuto dalla conoscenza degli aspetti tecnici del volo, dall’ordinata successione delle manovre bene eseguite. La precisa e prevedibile corrispondenza tra azioni ai comandi e movimenti nello spazio. Il vuoto attrae, certamente, la quiete finale ci attende, ma il sapere della tecnica permette di scivolare sopra il vuoto, controllare il movimento e giungere a una qualche destinazione intermedia – e di un certo interesse – in sicurezza.
Così salgo, lentamente ma con regolare progressione. Appena prima della cima le fessure inaspettatamente scompaiono; la roccia è una superficie liscia senza appigli. Allora però la paura si tempera da una ragionevole confidenza di potercela fare. La memoria del sogno continua con l’atto di varcare la cima. Non so perché devo raggiungere la vetta, né come sono arrivato sulla parete, né che cosa troverò.
Sulla cima della montagna svanisce infine il terrore di perdere la presa e precipitare. Come entrato tutt’a un tratto in un’altra realtà, cado in una specie di trance, in cui rivivo e racconto e scrivo cose del passato, con straordinaria vivezza e chiarezza, nei più piccoli particolari. Ne sono spaventato, temo di perdere la ragione. Mai come in quel momento penso di essere vicino alla follia, penso alla necessità di un attento, costante controllo del mio stato, come quando si è in mezzo a gente attenta a te e ci si accorge di aver esagerato con i drink. Ma è un sogno, e talvolta, penso ancora dormendo, i pensieri che arrivano nel sogno rivelano improvvise evidenze, sono perspicui e penetranti, e stranamente risolutivi. Le difficoltà cominciano dopo il risveglio, quando non puoi dirigere le visioni e le memorie.
Fuori dai sogni, le occasioni di controllo sono poche, e sembrano diminuire con l'età. IO sono un’ipotesi di controllo di me stesso, dei miei movimenti, in un certo ambito – lo ammetto, assai ristretto – che non è la rappresentazione geometrico-matematica di spazi e tempi: la mappa non può coincidere con il territorio. Nella rappresentazione geometrico-matematica l’IO scompare per sempre. IO ho bisogno dei miei sensi, ora, continuamente attivi in quel modo che è la memoria, di modo che l’accordo di pianoforte che ascolto – dev’essere un LA RE – fa tutt’uno con tutti gli accordi che ho ascoltato finora, e le mille e mille situazioni dell’ascolto, e prende la forma di quest’esperienza cumulativa.
Fuori dai sogni, non c’è tecnica che arresti il moltiplicarsi dei naufragi: che sono tutto ciò che la tecnica non contempla, o non salva. Penso a quello che IO ho lasciato indietro, cioè a quello di cui IO non si è occupato, non si è accorto, o che ha deliberatamente lasciato perdere perché creduto poco importante. Ecco, quello che ho perduto nei miei naufragi è il tessuto stesso della vita. Gli anglosassoni sono precisi, in senso analitico: distinguono tra rottami e carcasse galleggianti sulla superficie del mare dopo un naufragio, flotsam, e parti della nave e del carico deliberatamente gettati fuoribordo nelle emergenze, jetsam. Questa seconda categoria rappresenta un po’ l’extrema rationell’applicazione delle regole della navigazione; oltre si passa alla categoria che raccoglie ciò che resta della collisione catastrofica della tecnica con la realtà.
and now, liberated by reason of its cunning spring, and, owing to its great buoyancy, rising with great force, the coffin life-buoy shot lengthwise from the sea, fell over, and floated by my side. Buoyed up by that coffin, for almost one whole day and night, I floated on a soft and dirgelike main.
e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la cassa da morto-gavitello balzò quant'era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo.
Quello che il genere umano ha lasciato indietro e perduto, la sostanza stessa dell’esperienza umana, perché nel tempo tutto è lasciato indietro, ma qualcosa rises with great force, si leva con grande forza, erompe dal fondo e galleggia al nostro fianco, offrendoci un appiglio. (Col termine flotsam si indicano, con definizione figurata, i naufraghi, e le popolazioni migranti che vagano senza destinazione.)
(capitoli precedenti qui:
MITOLOGIA: Giorgio Agamben
SCHOLIA: IO
SCHOLIA: Il terreno morale
SCHOLIA: Il commento
MITOLOGIA: Il portacenere
SCHOLIA: Il buco nell’acqua.
Altri capitoli sparsi e venturi:
MITOLOGIA: Un tipo da montagna
SCHOLIA: Attendere
MITOLOGIA: L’intesa è un fatto palpabile
MITOLOGIA: Il merlo ammazzato
MITOLOGIA: Ubbie umanitarie)
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