Estratto del primo capitolo di Quando eravamo femmine – Sonzogno 2016di Costanza Miriano
Mie inarrestabili figlie, è colpa della vostra esagerata energia se la ginecologa, quando mise le mani sulla mia pancia, con voi due dentro, esclamò: «Senti! Non lo senti quanta vita c’è qui dentro? Due donne!» (No, sento solo dolore alle gambe e incapacità di digerire anche una camomilla.) Però è vero, c’era tanta vita. E più crescete più ce n’è (fuori dalla pancia, fortunatamente). Io vi guardo, vi ascolto, vi spio continuamente mentre non vi limitate a vivere con un po’ troppo entusiasmo ogni cosa – l’uscita di un film e la caduta spettacolare di un fratello, una torta che per caso non mi si brucia e un’amica che viene a casa, la merenda e la scelta di una maglietta, la preghiera e il duello a spade laser – e lo fate dal primo istante in cui aprite gli occhi – sempre troppo presto – fino alla sera quando, ubriache di parole biascicate, chiacchierate fino a svenire nel sonno. Voi, come ogni femmina che conosco, non vi limitate a vivere, fate anche la telecronaca della vita.
Guardo con tenerezza a questo vostro bisogno di dare i nomi alle cose, di ordinarle, ma soprattutto alla generosità con cui vivete ogni secondo, alla voglia che avete, inconsapevole ancora, di “riparare la vita”. Guardo a questa capacità di vita che avete. Capacità nel senso, etimologico, di spazio per contenere. Chiamiamolo grembo, utero, cuore, comunque sia è lo spazio interiore che ha ogni donna di accogliere e “risistemare” ogni cosa che la circonda. L’utero non serve a noi donne per vivere, è inutile ai fini del nostro organismo, ma è indispensabile alla nascita di una nuova vita. Chissà, forse anche voi un giorno sarete chiamate a questo, a far nascere un bambino, e prometto che, per quando sarò nonna, diventerò una persona normale. Oppure no, chissà, questo regalo di diventare madri vi verrà negato, succede, e sarete feconde in modo diverso. D’altra parte non si può certo dire che le tante amiche nostre che sono sposate con Gesù, come chiamate voi le suore, e quelle a cui figli naturali non sono venuti non siano fecondissime: con un lavoro di scavo in profondità, e poi di cesello, di pazienza, imparano a fare i conti con il vuoto del loro grembo e lo vivono non come frustrazione o carenza affettiva, non con senso di inferiorità, né tanto meno come qualcosa di inutile, o al contrario come una perdita che le costringa a essere supermaterne, accudenti al massimo nella speranza di essere utili, ma al contrario le loro viscere materne, se sono donne consegnate a Cristo, le rendono grembo per gli altri, fonti fresche di vita nella loro capacità di adattarsi alle situazioni, accogliere, trovare soluzioni, mediare. Penso a Luisa, che è così bella che neanche il suo abito riesce a nasconderlo.
D’altra parte, anni e anni di basket ad altissimi livelli lasciano tracce indelebili, ed è così esageratamente brava in tutto quello che fa, l’ingegnere e la suora (voi la vedete solo a messa, ma lei col velo va anche in cantiere), che la gente è attratta da lei come dal miele, e lei usa la sua bellezza per portare i cuori al Signore, e generare alla fede non è certo meno che partorire. Ha imparato a smettere di essere seduttiva, la nostra grande tentazione, ed è libera nella sua bellezza pacificata, come belle sono le sue consorelle Laura, che lavora nella comunicazione, e Manuela, medico, e l’altra Manuela, che parla mille lingue: il loro cuore è così fiammeggiante che se ti avvicini ti riscaldi, e voi lo sapete bene, perché chiedete sempre di vederle, voi che avete un radar sofisticatissimo per la falsità delle persone (come tutti i bambini, e per di più bambini di razza femmina, le più implacabili scovatrici di finzione su piazza) e volete stare il più possibile vicino a persone così belle. Penso ad Antonella, che non è suora ma quasi, perché fa il medico con dedizione monastica, e anche se non è mamma ha uno sguardo così umano sui pazienti, che quando smonta dal turno di notte spesso me ne scrive: sono sicura che li porta tutti con sé alla messa della mattina, e alcuni riesce anche a seguirli nel tempo, dopo che li ha dimessi (lo voglio anche io il dottore che viene a casa a chiedere come sto e mi porta la torta!). Antonella è innamorata, per esempio, dei due vecchietti sposati da sessantadue anni, con lui che le carezza i capelli e le chiude il golfino, e lei novantenne non esce mai di casa struccata (quanto alla moda, è come un orologio fermo, se rimani lì dopo un po’ fa il giro e tu ritorni attuale, quindi la vecchietta, come mi ha raccontato Antonella, aveva un cappottino matelassé perfetto, probabilmente fatto fare per festeggiare la vittoria di Bobby Solo a Sanremo).
Non è certo meno mamma di me, se trova sempre il modo di fare spazio a qualcuno nella sua vita già completamente sold out (ma si sa che chi ha più impegni è sempre quello che trova il modo di fare qualcosa in più, ed è il motivo per cui se devo chiedere una mano per prendere i figli a scuola la chiedo a Lucia, che avendone quattro non farà tanto caso se nel mucchio ce n’è qualcuno in più). Guardo anche in voi, mie piccole quasi donne, questo spazio interiore, questo vuoto. Lo guardo e lo riconosco, e tremo al pensiero di ciò che potrà significare nella vostra vita. Perché questo spazio e questa capacità, in definitiva questo profondo potere, potrà essere usato bene oppure male: anzi, sicuramente, mai solo bene e mai del tutto male. E per fortuna ci sarà poi chi potrà scrivere dritto anche sulle vostre righe storte.
Intervista di Monica Mondo per SOUL a Costanza Miriano
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