La gioia della neveby federicagaletto |
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Oltre il vetro le aiuole sommerse di bianco luccicore si disegnavano, come drappi poggiati sui petali caduti, le corolle invecchiate, i grumi di terra scura. Rimpiangevo il minuto precedente l’arrivo della neve, quando ancora era limpido il cielo e nessuna nube ostile incombeva sul giorno. Ora le cortine di fiocchi vorticavano veloci e faceva un freddo intriso di vuoto, proprio come quando da bambina camminavo sul bordo del marciapiede che portava alla scuola, nelle mattine d’inverno. Era stato come allora: all’improvviso l’azzurro aveva preso il volo e nubi scure si erano accalcate sulle case e sulle vie; poco dopo la neve era arrivata silenziosa, senza preavviso, muta nel passare, fatta d’eterni attimi la sua discesa.
A quel punto, ogni volta, mi sentivo come sollevare dall’aria pulita che mi sferzava il viso e mi veniva voglia di cioccolata calda, di pane e marmellata, di fuoco scricchiolante nel camino. In genere non potevo permettermi certi lussi, la neve arrivava quando voleva, e quando voleva se ne andava, lasciandomi sempre impreparata. Capivo, dopo molti anni, quanto fosse magica la forza del gelo. Da bambini tutto si dà per scontato, si vive come se niente fosse mai vissuto prima e la dolcezza della scoperta, della meraviglia splendono come stelle negli occhi. La casa dei miei genitori aveva una grande sala da pranzo, le finestre alte versavano sul giardino e sull’orto che ora apparivano come lenzuoli stesi ad asciugare, rigidi di grigi e pieghe biancastre, con sotto il corpo della vita dormiente e placida.
Il Natale era alle porte, c’era odore di spezie e di mele cotte al forno, di vischio e bacche rosse, di legna consumata, ardente nella stufa. Da quando avevo divorziato neanche il Natale mi sembrava più lo stesso; e non lo era. Avevo perduto l’istinto per la bellezza dei dettagli, la volontà di pregare, il desiderio di scartare e fare regali, di addobbare l’abete o solo di preparare il vino caldo con i chiodi di garofano. Non riuscivo a stare seduta accanto al fuoco nè a distinguere quell’attimo in cui la mente, sola, armoniosamente elucubra sogni. Non sognavo più. E neppure l’odore pungente della luce livida mi quietava e guardavo passare la tramontana di fiocchi gelati con le mani incapaci di volontà. Un tempo avrei voluto afferrarli, uno ad uno, mi sarei eccitata nel sorprenderli cadere sul mio palmo, interrompendone la naturale discesa.
Ero diventata come quel ramo di fico laggiù, nel fondo dell’orto di mio padre, un debole ramo piegato prossimo a spezzarsi sotto il peso della neve. Ma se la neve aveva un peso, ben sapevo che aveva anche una sua leggerezza immortale. I boschi intorno alla casa, zittiti dal turbinare della tormenta, cigolavano sotto un velo di ghiaccio volante; non si udivano voci né canti d’uccelli, né movimenti di talpe e roditori o scoiattoli sui rami. Tutto giaceva in una morte apparente. Era la mia morte apparente che si mescolava al silenzio di quella neve senza tempo e mi sentivo nel cuore un brivido di timore, un soffio di caduta, una perdizione irrinunciabile. A undici anni caddi da quel fico scorticandomi un gomito e una coscia. Mio padre si irritò molto per l’accaduto, si era sempre raccomandato affinchè non salissi mai sul fico perché era un albero traditore, apparentemente robusto e possente ma terribilmente fragile sotto il peso di un corpo.
Idealmente caduta, di nuovo, ricordai i graffi brucianti sentendoli sulla pelle come allora e poggiata la guancia sulla tenda di velluto liscio color dell’albicocca matura scorsi d’un tratto una spirale correre sotto la finestra, girare su sè stessa, divincolarsi dal banco di terra piantumato a bulbi di narciso, curvare e fermarsi in un cumulo di neve luccicante. Prendendo forma, la spirale si raccolse a cono. Al centro di quel cono si inerpicò una foglia verde, un croco neonato, e un piccolo nuovo germoglio laterale forzò il muro di freddo. Era un solo germoglio di croco, l’unico visibile. I segni avevano sempre avuto potere su di me. Ogni volta ne raccoglievo qualcuno, sapendo che avrebbe portato una nuova linfa e un nuovo presagio nella mia vita. Del croco non avrei voluto curarmi, proprio non mi pareva interessante scovare con la coda dell’occhio un minuscolo insignificante punto verde emerso dal bianco manto nevoso. O forse tentava la mia mente di volerlo, possederlo, attirarlo per non farlo fuggire via lontano, nell’oscurità del sonno?
Il debutto di quella sorpresa mi ingentilì lo spirito. Non avrei voluto, ma così fu. Accettai di addobbare lo scalone dell’ingresso, mia madre non ne aveva il tempo indaffarata com’era a preparare dolci. Mi trovai così al bivio fra la discesa e la salita, impettita ai piedi di quella robusta scalinata su cui da bambina scivolavo, con i piedi a martello e il fondoschiena sul mancorrente. Dalla finestrella del pianerottolo vedevo scendere grandi sfere impazzite, soffiate da un vento bizzarro e impaziente, mentre il volant della tendina di cotone oscillava impercettibilmente. Presi a fare festoni con rami di pino, e ad ogni mazzetto legavo un fiocco rosso di raso, una pallina, e alternando anche qualche pigna. Erano rametti di pino del vicino, li aveva raccolti e portati davanti alla nostra porta infagottati in un telo di iuta dopo aver potato il suo albero, diventato così imponente da impedire la vista sui boschi circostanti.
Lavorai alacremente per tre ore. La luce era diventata cupa, spessa, quasi impenetrabile. Una coltre di nebbia fitta si era formata all’orizzonte e avanzava verso la nostra casa, camminando su piedi di ghiaccio e terra, così velocemente da far paura. Ma chissà perché, quella neve poderosa non mi inquietava e la percepivo ora in tutta la sua lievità e bellezza. Ebbi la netta sensazione che ci fossero gli Angeli a sospingere quel manto argenteo e che fossero giunti fin qui per salvarmi. Ebbi un’intuizione, finalmente un briciolo d’allusione all’ignoto, all’insondabile, al magico della vita. Corsi alla finestra del salotto buono, scrutai le mille tessere di ghiaccio dell’aria e accesi il camino, le candele rosse, i lumi di mia nonna buonanima, conservati sul buffet di noce. E fu luce limpida.
D’improvviso le tende si mossero vibrando come un respiro, le fiammelle tremule s’inarcarono, ondeggiando fluirono in un rivolo di fumo. Il paesaggio là fuori s’inondò di trasparenza e gioia, come quando una volta, presa dallo stupore, tenendomi ferma alla maniglia della porta di quella stessa stanza, presi a rincorrere con lo sguardo impietrito la risalita di uno scricciolo sull’abete, dopo che aveva saltato la siepe di biancospino, l’arbusto fiorito in pieno inverno protagonista delle leggende a me più care. Nell’Abbazia di Glastonbury ve ne sono molti, ricordati anche dal verso di Tennyson:
“To Glastonbury, where the winter thorn blossoms at Christmas, mindful of our Lord”
“A Glastonbury, dove la spina d’inverno fiorisce a Natale, memore di nostro Signore”
“Buon Natale” dissi sottovoce. Fuori cadeva la neve e la sua gioia brillava. Di nuovo, nel mio cuore.
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