Gianfranco Ravasi>>> alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it |
Vivere nel Tempo, toccare l'Eterno Kairòs
da Avvenire
L'intervento del cardinale Ravasi al "Cortile dei Gentili" nel prossimo week end a Bologna.
È divenuto quasi un luogo comune – quando si parla del tempo – citare una battuta delle Confessioni di sant’Agostino (che al tema ha dedicato proprio in quel libro pagine acute e interessanti): «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più!».
È per questo che si sono moltiplicate all’infinito le definizioni di questa realtà che scandisce la storia esterna a noi ma che batte intimamente anche dentro di noi: illuminante è al riguardo la distinzione greca tra
chrónos, che è il tempo 'cronologico', convenzionale, esterno a noi, e
kairós, cioè il tempo esistenziale, personale, colmo di eventi, emozioni e pensieri (un’ora di una noiosa conferenza e un’ora con la persona amata hanno un identico chrónos ma un ben diverso kairós!).
Il tempo, «quel vile avversario», come lo chiamava il poeta Paul Valéry, è dunque la realtà più decisiva per definire il nostro essere materiale ma anche il nostro esistere interiore, è «la sostanza di cui sono fatto», come diceva Jorge Luis Borges che, nell’opera Altre inquisizioni (1952), così continuava: «Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è la tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è il fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco ». Il tempo è, sì, fiume, tigre e fuoco ma non è un nemico esterno a me, è in me, nel mio intimo, nel mio essere creatura fragile e finita.
Gramsci nelle Lettere dal carcere lo definiva «un semplice pseudonimo della vita»; è l’essenza dell’esistenza, è sempre in noi, qualcosa di noi. Per questo facciamo di tutto per ignorarlo; il ticchettio di un orologio ci toglie il sonno ma, in realtà, dovrebbe toglierci di dosso la superficialità, le meschinità e farci pensare più spesso alle parole di Cristo: «Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate» (Luca 12,40).
La Bibbia ha una sua teologia ben strutturata riguardo al tempo e non si accontenta di una contemplazione stupita del ritmo stagionale e secolare o del flusso dell’esistere umano. Certo, individuare un filo costante di riflessione sul senso del tempo e della storia non è facile, ben sapendo la pluralità delle presenze all’interno dell’Antico e Nuovo Testamento. Il punto di partenza è nell’individuare una caratteristica fondamentale della religione biblica, la sua 'storicità'. Dio non rimane relegato nei cieli luminosi dell’infinito e dell’eterno, ma decide di incamminarsi per le strade polverose della storia umana e dello spazio terreno. Emblematica è la celebre frase che è incastonata in quel capolavoro teologico e letterario che è l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: ho Logos sarx eghéneto, il Verbo, la Parola divina che era «in principio», che era «presso Dio», anzi che era Dio, si intreccia intimamente con la sarx, cioè con la «carne», la fragilità, il limite temporale e spaziale dell’umanità.
La storia, allora, per la Bibbia è la sede delle epifanie divine: non per nulla il cosiddetto «Credo storico» di Israele è tutto ritmato non su definizioni astratte e 'teologiche' di Dio ma sulle sue azioni sperimentabili nelle vicende del popolo ebraico: la chiamata dei Patriarchi, la liberazione nell’esodo dalla schiavitù faraonica, il dono della terra promessa (si leggano, ad esempio, il Salmo 136 o Giosuè 24). Come ha intuito Chagall nei suoi dipinti, si può incrociare Dio appena svoltato l’angolo della casa, all’interno del modesto villaggio ebraico; gli angeli entrano ed escono dai comignoli delle case e nell’amore di una coppia si intravedono i simbolismi celebrati dal Cantico dei cantici.
In questa luce tempo ed eterno si annodano tra loro, pur essendo così differenti tra loro. Certo, noi che guardiamo o viviamo nella prospettiva del tempo sentiamo ancora remota la pienezza dell’eternità. Non per nulla Paolo nella Lettera ai Romani (8,18-27) usa immagini di parto, di attesa, di tensione impaziente perché il nostro tempo è 'pesante', segnato dal male e scandito dal dolore e dalla morte. Gesù ricorrerà al simbolo del seme di senape che è piccolo e sepolto dalla terra e che deve vivere una lunga avventura prima di crescere in albero frondoso. Il Regno di Dio è già «in mezzo a noi», si dice nei Vangeli, ma Dio non è ancora «tutto in tutti», come proclama Paolo e non si è ancora raggiunta la promessa dell’Apocalisse secondo la quale «la morte non ci sarà più» (21, 4).
Tuttavia se ci poniamo dall’angolo di visuale di Dio, cioè nell’eternità, non si ha – come accade a noi che siamo nel tempo – un 'prima' e un 'dopo'. Tutto è contratto e condensato in un punto, in un istante, in un evento unico e compiuto. In esso c’è già la pienezza di quel seme, c’è la meta di quell’attesa, ci sono già la salvezza e il giudizio, la morte e la risurrezione, come dichiara Gesù in quella notte a Nicodemo: «Chiunque crede nel Figlio dell’uomo ha già la vita eterna» (Gv 3,15). Con l’Incarnazione si ha un’unione intima tra due realtà antitetiche, il tempo e l’eterno.
Già l’Antico Testamento, presentando una Rivelazione divina innervata nella storia e una religiosità che invitava a non decollare dall’orizzonte terreno verso cieli mitici e mistici per incontrare Dio e la sua salvezza, aveva preparato l’ingresso di Cristo nel mondo. L’Incarnazione del Figlio di Dio è, quindi, coerente con l’annunzio dei profeti di Israele e rende il tempo e lo spazio irradiati dall’eterno e dall’infinito. È questo il senso della risurrezione finale. Essa è una ri-creazione trasfigurata, è l’introduzione dell’essere creato in un orizzonte senza fine e senza limiti.
Per scoprire e sentir pulsare questo abbraccio del tempo con l’eternità è necessario avere un canale di conoscenza superiore, cioè la visione della fede che sa perforare la pellicola del flusso temporale per cogliervi sotteso l’istante perfetto e supremo dell’eterno divino. È ciò che esprime in modo intenso e denso il grande Thomas S. Eliot nei suoi Quattro Quartetti: «Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno/ e il tempo è un’occupazione da santo».
Confessione di una confessione Kairòs
«Ho confessato un ladro e l'ho assolto»
Caro direttore,
qualche tempo fa, parecchio lontano da Piacenza, mi è capitato di vivere un’esperienza da prete che – uguale – non mi era mai capitata. Sono vestito da prete, ma non mi trovo in chiesa. Mi si avvicina un signore sui cinquant’anni che il linguaggio comune definirebbe “distinto”, ma con abiti sciupati, sebbene puliti. Con gentilezza mi chiede se posso confessarlo. Essendo vicini a una specie di giardino con qualche panca, lo invito a sedersi accanto a me e lo confesso. Tutto regolare con le preghiere iniziali, ma giunto al momento dell’accusa dei peccati dice, con voce stanca e volto mesto: «Padre, mi confesso spesso, ma ho sempre un solo peccato: sono un ladro». E mi racconta di essere disoccupato da un paio di anni, di avere la moglie ammalata e tre figli (12, 9 e 7 anni) che porta con sé saltuariamente nei supermercati a rubare qualche mezzo chilo di pasta o riso, piccole pagnotte o contenitori con mezzo litro di latte. Comprendo che è veramente dispiaciuto di compiere questi gesti, come rimedio estremo alla fame, quella vera. Mi racconta di aver spiegato bene ai figli che quello che stanno facendo è male, ma che vi sono costretti privi come sono di altri mezzi di sostentamento. Lo assolvo senza incertezze, ricordandomi tra l’altro delle mie confessioni da ragazzo quando – durante la guerra – dicevo al parroco che talvolta andavo nei grandi campi di frumento, prossimo alla mietitura, non a “spigolare”, ma a tagliare con la forbice le spighe mature, fino a che il sacchetto fosse pieno. Volevo che per la mia numerosa famiglia ci fosse qualche pezzettino di pane in più. Il parroco mi assolveva dicendomi: «In tempo di guerra, la roba dei campi è di Dio e dei santi», cioè dei poveri che hanno fame. Certo che oggi almeno da noi non è tempo di guerra, ma con questa infinita crisi economica, è come se lo fosse. Alla fine della confessione l’uomo non mi chiede nulla e al mio tentativo di fargli una piccola offerta, mi dissuade dicendo: «Padre sono venuto da lei, soltanto per confessarmi, non chiedendole altro che l’assoluzione, anche se non potrò mantenere quelle parole dell’Atto di dolore che sono una promessa: “Propongo con il Tuo santo aiuto di non offenderTi mai più” (cioè di non rubare più)». Poi lo vedo allontanarsi un po’ curvo, forse un po’ più sereno.
Raccontando questo piccolo episodio, sono certo in coscienza di non aver infranto il segreto sacramentale, non avendo svelato né il luogo né la persona. Non mi chieda di più. Vorrei però invitare tutti a immaginare la sofferenza di un papà che si umilia con i suoi figli, inducendoli a disubbidire insieme a lui al 7° comandamento: «Non rubare». Ma è ladro chi ruba il pane per fame? Non temo di rispondere no. Anche se nel romanzo “I miserabili” di Victor Hugo leggiamo una triste storia. Un giovanotto, vedendo i figli piccoli della sorella vedova privi di pane, una sera va davanti alla vetrina di una panetteria; spacca il vetro, prende una pagnotta e fugge. Risultato: qualcuno lo vede; pochi giorni dopo, l’arresto e il processo che lo porta in carcere (lavori forzati). Per una pagnotta! Il prete scrittore francese Michel Quoist in una sua preghiera, così si rivolge al Signore: «La gente ormai lo sa, Signore. Sa che non solo alcuni infelici hanno fame, ma centinaia sulle porte di casa loro. Sa che non solo migliaia di infelici, ma milioni di poveri hanno fame nel mondo. Signore, non è facile dar da mangiare al mondo. Preferisco fare la mia preghiera regolare, pulita. Preferisco dare qualche oggetto ai banchi di beneficenza. Ma dunque non basta, dunque non è nulla, se un giorno Tu, giudicandomi, mi potrai dire: “Avevo fame e tu …”». È semplicemente così: in certi momenti vivo davvero l’angoscia della miseria estrema di diverse famiglie. Stavo scrivendo “purtroppo” ma non lo dico, perché il Vangelo mi insegna che quando incontro uno che ha fame incontro Gesù.
don Giancarlo Conte, Piacenza.
E io, ancora una volta, ho incontrato un buon prete e soprattutto l’ha incontrato chi ne aveva più bisogno. È proprio vero, caro don Giancarlo, Gesù ha il volto di chi ha fame di pane e di pace, anche “solo” interiore. E riusciamo a seguirlo se ci mettiamo per strada e veniamo accompagnati da sacerdoti che sono padri e fratelli e con la loro stessa vita, e i santi segni che possono e sanno incidere sulla nostra, ci aiutano a distinguere il bene e il male, a vedere davvero le persone, a non dire “Signore Signore” e a non dire i “poveri” ma a guardarLo, guardandoli in faccia. Grazie per averci aiutato, con questa coinvolgente, accorata e accorta “confessione di una confessione”, a capire meglio nel tempo che ci tocca attraversare la verità divina e umana che la Chiesa custodisce e condivide, la misericordia che consola e sprona, le sofferenze e le ingiustizie alle quali non possiamo rassegnarci.
Avvenire
Nessun commento:
Posta un commento