Io sono Ginevra d’Este, la sposa di Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Concordo... È pura poesia.
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Amo scrivere articoli, (sono nella sezione racconti), su personaggi di grande spessore vissuti nei secoli scorsi, personaggi che hanno avuto una sorte avversa e ne sono stati sopraffatti. La storia non è pietosa con gli sconfitti, ammira solo i vincenti. Ginevra d’Este, pur di nobile lignaggio, ha avuto una vita tormentata, ecco la mia visione molto personale della sua vita:
Ginevra D’este
Io sono Ginevra, figlia del marchese Niccolò D’Este, Signore di Ferrara e desidero raccontarvi la verità sulla mia morte. Non è vero che è stato il mio amato sposo ad uccidermi per amore di un’altra dama, la storia è spesso crudele specialmente con i vinti, questo è quanto è accaduto veramente. Ero ancora bambina, con nella testa i sogni dei bambini, l’ammirazione per i vestiti delle dame, la paura delle armi e di quegli uomini enormi con addosso armature di ferro e nelle mani grandi spade, capaci solo di gridare e di spaventare le creature innocenti, lo stupore per le giostre equestri che ci facevano vedere dalle finestre del castello, con gli stendardi, i cavalli, gli armigeri, le dame, nei loro vestiti più belli, la polvere sollevata dai cavalli, il sangue che arrossava la terra. A quei tempi sapevo sorridere, mi piaceva il gioco, le carezze e i baci della mia mamma, le storie dei menestrelli, quando un giorno purtroppo la mia vita cambiò. Mio padre uccise, accusandola di tradimento, mia madre. Io vidi il sangue, sentii le urla, vidi la morte arrivare e ghermirla, vidi i suoi occhi spegnersi, una smorfia di dolore deturpava il suo bel viso e io gridavo; ma la morte non si ferma la si subisce. Questo ricordo di me bambina, oltre la paura per ogni cosa e una infinita tristezza. Crebbi in mezzo alle dame, hai pettegolezzi, agli amori, ai racconti dei cavalieri, alla morte dei soldati, alle guerre. Chiusa nel castello di mio padre la vita era un qualcosa che si svolgeva fuori dalle stanze dove noi donne passavamo il tempo, in quelle stanze si viveva come sospesi, in un limbo, in una attesa di un qualcosa che doveva avvenire. E un giorno, avevo solo quattordici anni, il destino cambiò la mia vita.
A corte, ad una festa, mi fu presentato un uomo in armi, si raccontava che fosse un grande condottiero, non era bello ma aveva uno sguardo fiero e affascinante, lo chiamavano il lupo di Rimini, gli uomini lo guardavano con rispetto, le dame avevano sorrisi di ammirazione e si diceva che era uno dei più audaci condottieri militari. Mi innamorai follemente di quest’uomo. Era Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini, durante il banchetto con me fu gentile, mi raccontò del suo regno lambito dal mare, mi parlò dei pittori che aveva a corte, dei poeti, degli scultori, delle arti, vi confesso non capivo bene le cose che mi diceva ma mi affascinava il suo modo fluente di raccontare e immaginavo questo meraviglioso castello con le pareti delle stanze affrescate con le scene delle battaglie che lui aveva vinto, i volti dei cavalieri, le dame, vedevo come in sogno le statue che mi descriveva e questa città che profumava di mare, di leggenda, mi risuonavano come per incanto le voci dei poeti che avrebbero cantato la mia bellezza, ed io mi sentivo bella accanto a lui, mi sentivo desiderata, si, io l’amavo. Ci sposammo, furono giorni d’amore grande, di grande bellezza, giorni di tornei, di pranzi, di sguardi ammirati delle dame e vogliosi dei cavalieri, ero una principessa amata, la malinconia mi dava tregua, l’ansia si era assopita perché avevo un uomo che sapeva proteggermi, che mi amava. Un giorno sentii nel mio corpo qualcosa che si muoveva, qualcosa che mi accarezzava il pensiero. Si, era un figlio, un figlio mio e del mio amore! Per la prima volta nella vita tutte le nubi furono cancellate. L’ansia sparita, la malinconia volata via con il vento di aprile. Quando nacque lo chiamammo Roberto Novello. Era bello come i putti che il mio pittore preferito ogni tanto disegnava nei cieli che abbellivano le stanze del palazzo. Era l’angelo che ogni donna sognava. Ma la tragedia era in agguato e un giorno rividi la morte, china sul suo lettino, lo accarezzava, mi gettai in ginocchio la supplicai di prendere me ma lei inesorabile con la sua falce gli tagliò il filo della vita. Divenni pazza, mi legarono al letto, persi i sensi una macchia nera scese sui miei occhi, non mi abbandonò più, io non sentivo le parole di consolazione, non mangiavo più. Quando lei arrivò, sorrisi felice, l’aspettavo, non mi faceva più paura, dove mi avrebbe trascinato mi aspettavano la mamma e il mio Roberto. Vedete come gli uomini cambiano la realtà delle cose, non è stato il mio amato sposo ad uccidermi, lui mi amava, sono io che volli morire, la mia tristezza era infinita, non potevo più sopportare il dolore che mi aveva avvolto e mi bruciava il pensiero, la lingua, il cuore. Questa è la verità, tutto il resto fantasia e follia.
Enrico Garrou (10/7/2015)
John Everett Millais
Il caro amico Claudio Marcello Capriolo mi ha inviato, e per questo gli sono infinitamente grato, un brano da ascoltare come accompagnamento alla narrazione. E’ un pezzo dolcissimo e delicato eccolo: Gilles Binchois (c1400-1460): Triste plaisir, chanson su testo di Alain Chartier. Claudio non so come ringraziarti per la tua gentilezza.
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